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Diario di viaggio: Elia e Rocco, gli angeli custodi del rifugio Longoni che mi fecero alpino

Rosario PipoloAveva ragione Albert Camus a scrivere che “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”. Questo non è stato un viaggio come gli altri. Sono state 30 ore che hanno segnato il mio percorso di viaggiatore. Mi sono tenuto alla larga dalla montagna del trekking turistico, quello che va tanto di moda oggi, imbalsamato nei sorrisi delle foto che raccontano la passeggiatina in un angolo del Trentino o un’abbuffata in una trattoria montana. Di mezzo ci sono le Alpi e per arrivare in cima mi aspettava una prova che non avrei mai pensato di affrontare.

Sono in Valmalenco, in un angolo della Valtellina e si parte da Chiareggio per arrivare fino al rifugio Longoni. Non era il percorso che immaginavo, non era per me, non ero preparato. Le prime tre ore di cammino vanno dal bosco ad una meravigliosa piana dell’alta via della Valmalenco. Perdo il gruppo, ma in compenso avvisto un’aquila. Sono sfinito e mi siedo su un sasso. Incrocio un signore di Lecco con la famiglia.Mi offre una barretta di cioccolato, un mucchio di noci. Prende il mio zaino, mi libera da un grosso peso e lo porta agli altri. Vado avanti, ma gli ostacoli non finiscono mai. L’ultima tratta non è percorribile tra sassi e tanta neve sparsa. Ecco che spunta all’orizzonte un ragazzotto occhialuto. Rocco entra in sintonia con me, mi incoraggia, mi invita a non gettare la spugna. E quando le gambe finiscono intrappolate nella neve, il sangue si ferma, non le sento più, sembro paralizzato. Rocco scava due fosse e mi aiuta a tirarle fuori. Mi accascio sui sassi, con l’ultimo fiato tiriamo avanti come due vecchi amici. Mi sembra di sentire la voce del Villani, il carabiniere della Valmalenco che insegnò al figlio Leo a rispettare la montagna e a scioglierlo in un atto d’amore.

Salgo a carponi su quelle rocce. Non è uno scherzo, sono in cima alle Alpi. Si intravede il tetto del rifugio, ma gli ultimi dieci passi sono sui sassi ghiacciati. Sotto c’è il vuoto. Rocco diventa il mio angelo custode, mi indica di seguire la traccia, di poggiare bene i piedi, faccio l’equilibrista e raggiungo il traguardo. Cosa ci facevo a 2450 metri d’altezza sopra il cielo? Da lì forse non sarei sceso più, sarei rimasto al rifugio Longoni se al ritorno non mi avesse guidato Elia, l’altro angelo custode che mi ha fatto alpino.
Legato ad una corda gli sto dietro, seguo le sue indicazioni in quelli che sono stati i quarantacinque minuti più mozzafiato dei miei vagabondaggi. Cammino sul vuoto, intorno a me ci sono le cime che mi sussurrano il risveglio dell’anima. Elia ci crede, sa che posso farcela. La mia gamba destra non tiene, scivolo verso il burrone. E’ questione di secondi, il precipizio è lì. Elia tira la corda e urla: “Non mollare. Muovi i piedi. La montagna è tua, riprenditela”. Nell’istante in cui mi passano per la testa brutti pensieri, lo spirito della montagna soffia le parole di Karol Wojytila: “Queste montagne suscitano nel cuore il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso il sublime”.

Alzo gli occhi verso Elia, mi spingo sopra e risalgo pian piano. Ho il cuore in gola, l’ho scampata. Sono seduto di nuovo con le gambe nel vuoto. La guida alpina del rifugio Longoni mi sorride. Il vento spettina il mio ciuffo brizzolato. Mi alzo in piedi, mi faccio forza, non ho più paura. Guardo avanti e riprendo. Avvisto il sentiero e sento una mano sulla spalla: “Adesso puoi continuare da solo. Vai e non voltarti indietro”. Mi sembra di risentire le parole di mio padre, quando da bambino mi liberò dalla prigionia delle rotelle  della bicicletta. Elia Negrini va via, torna nella sua tana. Per alcuni resterà il gestore del rifugio Longoni, per altri il papà di Rocco, per tanti una grande guida alpina. Per me l’angelo custode delle Alpi che mi ha fatto diventare uomo tra le montagne, indicandomi il sentiero per arrivare con serenità ai miei 40 anni, nell’ultimo grande viaggio che chiude il primo ciclo della mia vita.

I giardini Politkovskaja a Milano: Da oggi Corso Como non è più l’oasi dell’happy hour stantio

Rosario PipoloOggi 12 giugno è tornata l’estate a Milano. Da stasera corso Como non sarà più l’oasi dei bagordi, della nightlife meneghina e della solita pappa degli happy hour. C’è un pezzo di verde che cambia la fisionomia della zona Garibaldi. Sono i giardini dedicati ad Anna Stepanovna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata il 7 ottobre del 2006. L’impegno dell’associazione AnnaViva e dei suoi militanti, capeggiati da Andrea Riscassi, ha fatto sì che Milano avesse una zolla di terra su cui riflettere.

Riflettere e onorare la memoria di uomini e donne che hanno difeso la libertà di pensiero pagandola a caro prezzo: perdere la vita. Gli articoli della Politkovskaja, pubblicati sulle pagine del quotidiano russo Novaja Gazeta, sono stati un atto d’amore verso il suo Paese, quella Russia tornata in ostaggio dello zarismo tra delitti, pene, misteri irrisolti. Come la questione in Cecenia, di cui si occupò proprio la giornalista ammazzata nello stesso giorno del compleanno del Presidente Putin.

Stringere la mano al figlio Ilya e alla sorella Elena ha rappresentato per chi fa il mio mestiere un grande significato. In un’Italia incappucciata dall’omertà e dalla volontà di dare spazio al giornalismo al femminile “da velina”, il ricordo di Anna Politkovskaja smaschera tali oscenità. Anna è stata una donna contro il regime, nella terra di frontiera del vecchio maschilismo alle falde del Cremlino che la liquidò in questa maniera: “Se l’è cercata. Non le sarebbe accaduto niente se avesse svolto le faccende domestiche come ogni donna”.

Da oggi Milano non sarà più la stessa. E non perché sotto i riflettori ci sono passerelle, paninari e yuppies nostalgici, aperitivi stantii o la frenesia da movida. Oltre i riflettori del divismo della metropoli, ci sono i giardini Politkovskaja che colorano di verde la memoria grigia di questa città, fatta di tante ingiustizie irrisolte come piazza Fontana.
Ogni sera che passerò alla stazione Garibaldi a rincorrere il treno per rincasare, mi fermerò in questi giardini. Da scalzo calpesterò l’erba e sentirò sotto i talloni dei piedi il peso della libertà.

Diario di viaggio in bici: Il sogno di Carlo della bergamasca tra terra e cascina

Rosario Pipolo“Te lo leggo negli occhi” gli avrebbe cantato Sergio Endrigo. Negli occhi chiari di Carlo, figlio della bergamasca, si legge la passione per la terra. Carlo ha fatto il camionista per una vita, partiva all’alba e viaggiava da un capo all’altro del Nord Italia. La sua passione era la terra. Mi ha detto: “Dalla terra nasce tutto. Dalla terra viene fuori la radice di ciò che siamo”. Sembravano parole uscite dalla bocca di mio padre.

Quella passione è sfociata in un sogno realizzato. Si tratta dell’agriturismo La cascina dei Prati a Credaro, un paesotto della provincia di Bergamo. Ci sono finito per caso in una delle mie scorribande avventurose in bicicletta. Beh, neanche per caso direi. Mi ci ha mandato Simone, un vignaiolo di Grumello che produce del buon vinello locale. Alle due e mezzo del pomeriggio chi vuoi che ti dia da mangiare? Barbara, titolare della cascina assieme al fratello Simone, mi guarda e mi dice: “Bella pedalata da Bergamo fino a qui. Qualcosa tireremo fuori dalla cucina!”.

Il bollitore per la pasta è già spento, ma in compenso arriva un tagliere di salumi e formaggi, che evoca le parole di Carlo. Sono i prodotti di quella terra, perché non c’è niente da fare. Giriamo e rigiriamo ma solo i prodotti tipici del posto sanno raccontare la geografia delle radici. Ci vuole coraggio ad azzannare con quel caldo stracotto e polenta e una doppia razione di dolci fatti in casa.
La ragazza occhialuta e gentile, di cui non so neanche il nome, parlotta con me tra una pietanza e l’altra. “E se non ce la facesse a pedalare – mi suggerisce – sopra ci sono sempre delle stanze dove si può fermare”. Sono tutti gentili. Loro preparano i tavoli per la sera, in sala ci solo io. Mi sembra di essere stato adottato da quella famiglia. Vi ritrovo l’armonia e l’ospitalità tipiche dei posti in cui sono cresciuto.

Poi Simone dà lezione di come si prepara il formaggio ad una ciurma di bambini curiosi, arrivati dalla lontana metropoli. Mi fermo volentieri, ascolto, imparo. All’orizzonte ci sono fulmini e saette. E’ ora di andare. Simone mi accompagna fin giù per un sentiero segreto. La bici si inzozza nel fango, ma poi ecco svelato il segreto. Costeggio il fiume Oglio, che corre ad abbracciare il lago d’Iseo. E’ un atto d’amore proprio come quello di Carlo verso il suo terreno, trasformato in un agriturismo. Da bambino pensavo che tutti i bergamaschi fossero vestiti con le toppe colorate di Arlecchino.
Questo mio viaggio smentisce i soliti pregiudizi che li dipingono come diffidenti e poco ospitali. Avevo ragione da bimbo. I bergamaschi hanno il cuore colorato come le toppe dell’abito di Arlecchino, perché sanno come far sentire a casa un vagabondo forestiero come quelli della mia razza.

La sentenza per Stefano Cucchi e l’insulto alla coscienza civile

La vignetta di Mauro Biani

Rosario PipoloQuesta volta la rabbia per una sentenza contestata ci mette davvero un attimo a correre sui social network. E’ la gente comune, giovani e meno giovani, a chiedere giustizia per Stefano Cucchi, il trentunenne morto in condizioni misteriose nel 2009 nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dopo una settimana dal suo arresto per droga.

Se dicessimo che la giustizia non è uguale per tutti, scopriremmo l’acqua calda. Se ribadissimo che la giustizia rischia di mutarsi in una miserabile opinione, potremmo essere accusati di essere di parte. Scavalcando chi ha strumentalizzato politicamente la sentenza Cucchi, inciampiamo sulla buccia di banana che ci rivela l’anomalia di un Paese civile e democratico: coprire l’uomo in divisa.

Senza la tenacia di Ilaria e della famiglia Cucchi questo caso sarebbe finito in cantina, tra i faldoni di un archivio impolverato. E non sarebbe né il primo né l’ultimo. Non bisogna ricorrere alle dinamiche narrative di thriller o un giallo per individuare i segni di un pestaggio. Del resto, ce ne sarebbero di casi di cronaca in Italia da citare che hanno portato alla ribalta aggressioni fuori e dentro le caserme da parte di uomini in divisa.

Tornando alla vicenda Cucchi, non si poteva far finta di niente e da qualche parte i colpevoli dovevano saltar fuori. Condannati soltanto i medici. A farla franca sono gli infermieri e gli agenti della polizia penitenziaria perché “il fatto non sussiste”. Lo Stato italiano non può lavarsene le mani perché non viviamo sotto una dittatura.
Proclamare che Stefano Cucchi sia morto per motivi medici e non per altro significa insultare la coscienza civile di un Paese, sempre più prigioniero di uno slogan orrendo. L’ingiustizia, quella sì che è uguale per tutti.

Ròbert a fumetti e il rischio di prendere per il sedere Roberto Saviano

Rosario Pipolo

In Italia dovrebbe funzionare così: o stai con lui o contro di lui. La stessa regola vale anche nei confronti di uno scrittore osannato come Roberto Saviano. Il fumettista Vito Manolo Roma ha espresso la sua posizione in maniera netta: l’autore di Gomorra, la penna che ha smascherato la malavita organizzata, è vanitoso e vuole la scena tutta per sé.

Essendo il pamphlet anti-Saviano un volumetto disegnato a matita, chi lo prenderà in considerazione? “Ròbert”, questo il titolo della storia a fumetti (Antitempo edizioni) di uno scrittore anti-mafia infettato dal narcisismo dei tempi nostri, soffia tra le nuvole parlanti i difetti di un personaggio molto apprezzato anche dentro e fuori i social network.

Già prima dell’apparizione delle strisce satiriche di Manolo Roma, sapevamo che Roberto Saviano non era stato né il primo né l’ultimo ad occuparsi dei temi che gli hanno dato fama e successo. La differenza rispetto ai predecessori è una sola: la penna di Saviano è arrivata diritta al cuore del lettore proprio come quelle canzoni che, pur assomigliando al replay di qualcosa altro, diventano colonna sonora della nostra vita.

Io personalmente non sto né con Roberto né contro Saviano, ma con chi difende la propria dignità per riflettere sulla giustizia. All’ultimo Salone del libro di Torino ho visto centinaia di ragazzotti in fila per strappare a Saviano una dedica o una battuta e non per divorare le solite brioche indigeste della tv alla De Filippi. Pertanto, anche se lo scrittore di Gomorra fosse l’alter-ego a fumetti del Ròbert di Vito Manolo Roma, questi difetti sono passabili. Riguardano un trentenne che ha rinunciato a un comodo paio di pantofole e un sofà, ha messo in pericolo la sua vita per scacciare l’insidiosa massima andreottiana che “i panni sporchi si lavano in famiglia”.

C’è un rischio nel prendere per i fondelli Roberto Saviano: essere scambiato per la voce stonata fuori dal coro che vuole guadagnarsi un minuto di popolarità, anche se di mezzo c’è il tratto di una matita.

Bella ciao: L’elogio funebre a Franca Rame che oggi non leggerò allo Strehler

Rosario PipoloUna mattina mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, una mattina mi sono svegliato ed ho trovato i violentatori. Pensavo tu fossi a teatro, immersa tra copioni e maschere, nella lunga notte che non vede mai il giorno arrivar. Invece eri lì sotto il branco, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, ma io quella mattina non mi ero svegliato per venirti a salvar.

O partigiana del teatro portami via che mi sento morir quando picchiano una donna, quando la schiaffeggiano, quando la sottomettono, quando il maschilismo arrapato ne mercifica il corpo, quando non ne riconoscono l’intelligenza, quando una carezza dell’alba diventa il pugno di ferro della sera.

E se io muoio da partigiano del teatro, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, tu nella Palazzina Liberty mi devi seppellir: tra quelle mura in cui l’urlo col megafono ti ha trasformata da dea della bellezza a dea dei diritti civili, portandoti tra le piazze dietro gli striscioni, perché solo gli imbecilli pensano che il palcoscenico sia fatto di sterili clown.

Mi seppellirai lassù dove resterà acceso l’ultimo riflettore, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao e a tutte le genti che passeranno gli racconterai che sono figlio legittimo di una casalinga appassionata che mi svezzò con il teatro e mi raccontò di te fin da quando ero in fasce.

È questo il fiore della partigiana del teatro, bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, che con Enzo (Jannacci) e Giorgio (Gaber) ha già scatenato in uno spettacolo lassù la gioia di tutti gli angeli, alla faccia del clero benpensante convinto che finisse diritta all’inferno. E’ questo il fiore della partigiana della libertà, che adesso dorme tra le braccia di Dio.

Grazie, Franca.

Addio “Cuore matto”. L’Italia di Little Tony non abita più qui

Rosario PipoloAntonio Ciacci sognava l’America, affacciato dalla finestra dell’Italia paesana e di periferia della fine degli anni ’50. Sognava un ciuffo cotonato alla Elvis Presley al posto della capigliatura sottomessa alle forbici dei barbieri del Belpaese degli anni del Boom. Gli affibbiarono un nome per scimmiottare il Little Richard d’oltreoceano, senza pensare che tradotto all’italiana rischiava di essere buffo e provinciale: Toniuzzo, Tonino, piccolo Tonio, fate voi. Senza lo scempio della traduzione suonava meglio perchè sembrava venuto da lontano: Little Tony, appunto. Agli inizi i suoi movimenti non ancheggiavano alla maniera spudorata dell’Elvis di Hound Dog – l’Italia democristiana bigotta e clericale non lo permetteva – ma fecero pensare a qualcuno che l’Elvis italiano sarebbe sopravvissuto nell’iconografia pacchiana e folcloristica dell’Italia da balera, risucchiato dal cinema dei musicarelli a cui prese parte.

Non fu così, perché “Cuore matto”, “24000 baci” e “Riderà” fecero di Little Tony il paladino del rock all’italiana, quello che mischiato al pop melodico fece sognare e innamorare le ragazze Yeah Yeah, tra cui mia madre. Molte di quelle ragazze qualche decennio dopo si diedero a nuove frequentazioni, dietro i movimenti femministi. E dentro quell’urlo da megafono non potevano esserci più le canzoni di Little Tony, ma quelle impegnate dei nuovi cantautori. Alcune lo rinnegarono, in tante lo tennero stretto al cuore, proprio come mia madre che la sua rivoluzione la fece tra quattro mura domestiche. Come mamma, moglie e casalinga agguantò le note della melodia di “Riderà” e le trasformò nello striscione su cui era scritta una parte della sua vita.

L’Italia di Little Tony è morta almeno tre decenni fa, forse negli stessi anni in cui la voce di Antonio Ciacci intonava “Profumo di mare”, la sigla del famoso telefilm Love Boat. Ci resta però in questa galassia di canzoni orecchiabili e disimpegnate il poster gigante di una generazione che non tradì mai le proprie origini, perchè sapeva da dove veniva e dove voleva andare. Proprio come Little Tony, con cui trascorsi un intero pomeriggio a Bologna venti anni fa. Poi scomparve sfrecciando su un’auto sportiva prima che calasse il sole, come ora viene meno una promessa che non posso più mantenere. La dedica in sospeso ad una fedele fan delle mie parti, a cui avrebbe dovuto scrivere: “A zia Angelina. Un bacio, Little Tony”.

Don Andrea Gallo, il prete scomodo tra gli emarginati cantati da Faber

Don Gallo recità De Andrè

Rosario PipoloUn prete non dovrebbe mai assecondare i propri bisogni, ma fiutare i limiti di far parte del coro, magari pure stonato. Don Andrea Gallo, che sembra uscito da un verso del canzoniere di Fabrizio De André, è stato una gran bella voce fuori dalla mischia. La sua visione profetica del buon pastore si è fatta portatrice di laicità per strada, tra gli ultimi e gli emarginati, tenendo gli altari e i clamori del clero alla giusta distanza. Eppure “il don” genovese, scomparso mercoledì scorso all’età di 84 anni, non è stato mai un solista. Ne aveva le capacità, ma conservava l’umiltà di chi sapeva che “lottare assieme” per il bene del prossimo era una scorciatoia per accostarsi allo sguardo del Padreterno.

La Comunità di San Benedetto al Porto Di Genova raccoglieva le Marinelle, le Bocca di Rosa e i Michè di Faber, mentre nelle pupille di Don Gallo era tracciata la spina dorsale di un pensiero: “Ce ne sono tanti, purtroppo, che sognano una casa, una famiglia, invece trovano l’abbandono, la disperazione. Non sono loro le vittime, sono io, siamo noi, perché non ci rendiamo conto dell’indifferenza”.

Don Andrea Gallo è stato amato senza distinzione da credenti e miscredenti perchè al posto della tonaca indossava umanità. I giovani sapevano ascoltarlo perché le sue preghiere, prima di alzarsi verso il cielo, attraversavano il cuore della sofferenza che ci circonda ogni giorno e che noi puntualmente facciamo finta di non vedere. Per ricordarlo non servono più i suoi inseparabili compagni di viaggio – la sciarpa rossa, la Bibbia, la Costituzione e la bandiera della Pace – ma non perdere l’orientamento per continuare a percorrere il sentiero dei preti scomodi, quello ci fa sentire accanto il soffio di Dio.

Il voltafaccia ai tempi di Facebook

Rosario PipoloIl voltafaccia su Facebook è una ricorrenza di questi tempi. Una volta accadeva in strada, oggi nei vicoli dei social network. Quello più subdolo non riguarda la persona con cui abbiamo tagliato i ponti, ma il contorno. Si tratta di coloro che si intrattenevano a parlare con noi, sull’amaca dei sorrisi compiaciuti, delle pacche sulla spalla, della battuta facile, del “vediamoci più spesso”.

Poi ecco che arriva il primo taglio. Una volta lo notavamo per strada, perché il voltafaccia avveniva con gradualità: prima facevano finta di non vederci, poi fingevano di parlare al cellullare guardando avanti e, infine, passavano alla scelta più drastica, come a dire “chi ti hai mai visto prima”. Con l’avvento dei social network, Facebook ha dettato le nuove regole del voltafaccia, che corrispondono all’ eliminazione dagli amici.
Quelli più “quaquaraquà” però ci arrivano gradualmente con delle fasi intermedie. Basta giocherellare con i tasti della privacy e oscurare la bacheca a pezzetti. La maggior parte anticipa la censura di status e foto con un’altra azione: rendere invisibile la lista degli amici. Insomma, al massimo ci sarà concesso di capire quali siano quelli rimasti in comune.

Quale miglior pretesto per dare una bella sforbiciata alla nostra lista di contatti facebookiani? A parte il gusto di far numero, è inutile avere tanti nomi appesi, di cui magari non ricordiamo neanche il viso. Del resto, come accade in ambito culinario”, il “contorno” non è un piatto indispensabile e se ne può fare a meno, a qualsiasi pietanza appartengano le verdure grigliate.
Le azioni sui social network non fanno rumore, perchè abitano nello spazio invisibile della nullità. Ha valore il rumore dei passi che sentiamo dietro la porta, prima che si riapra, restituendo ad ogni legame il proprio ruolo e significato.

La prima vibrazione del telefonino: Quando gli sms scandiscono il tempo dei sentimenti

Rosario PipoloQuando acquistai il primo telefonino nel gennaio del ’97, gli sms cominciavano l’ascesa per troneggiare la comunicazione in 160 caratteri durante l’exploit della rete GSM. Nel boom di WhatsApp e di app simili, il destino dei Short Message Service sembra avviarsi verso il viale del tramonto. Secondo dati recenti, nel 2012 il numero di messaggi inviati attraverso una chat è stato superiore a quelli tradizionali e, entro l’anno prossimo, il divario potrebbe essere di 50 contro 25 miliardi di invio.

Mentre in versione online questi fiumi di parole sguazzano chissà in quali server, i messaggini finiscono nella nostra sim o smartphone. Alcuni li cancelliamo, altri li teniamo in archivio, senza renderci conto che, ricucendoli, potrebbero scrivere un diario di bordo. Qualche volta sono sgrammaticati, spesso sono frettolosi, il più delle volte così incisivi da scatenare fraintendimenti, soprattuto se ne riceviamo uno non destinato a noi.
Sì è vero gli sms non hanno il calore, sono così freddi che sembrano arrivati dallo spazio, ma sequestrano un lato di un’umanità quando, sbirciando data e orario, li associamo all’evento a cui appartengono.

Accade soprattutto per i sentimenti e riguarda ogni fascia di età.  Non abbiamo scuse. Tutti almeno una volta  nella vita telefonica abbiamo digitato “TVB” o “Mi manki”. Finiamola di dire che gli affari di cuore via SMS sono robetta da adolescenti o studentelli dal cuore traballante.  Gli sms hanno scandito il tempo della nostra vita sentimentale, accompagnando il corso della giornata, nella naturale trasformazione da appuntamento “inaspettato” nella fase di corteggiamento a quello “fisso” della quotidianità, dal buongiorno alla buonanotte.

Abbiamo impiegato anni per capire che la vibrazione di un sms della nostra lei o lui coincideva con quella del battito del cuore. L’iPhone e l’ultima generezione di smartphone hanno sbiadito questo pizzo di romanticheria, uniformando i vecchi sms allo stile di quelli online, dove a farla da padrone sono i touchscreen e il tempo istantaneo della chat di Facebook. I messaggini a cui faccio riferimento sono quelli digitati con la tastiera, generati da uno schermo grezzo di un telefonino, in cui la classidra del tempo batte l’invio della bustina.
Custodire gli sms in una vecchia sim significa ripetere il gesto dei nostri nonni, che tenevano nel primo cassetto del comò le loro lettere d’amore. Tutte le coppie che si separano dovrebbero rimetterli assieme perchè, persino sul filo di 160 caratteri, può restare sospesa la più bella storia d’amore. Imperdibile resta l’sms del primo apputamento: “Dove sei, non ti vedo?”. E lei: “Girati, sono accanto a te. Non mi sono mai mossa”.