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Il Capitale umano e la Brianza ferita nell’onore da Virzì

Rosario PipoloQuando nelle sale uscì il film “Benvenuti al Sud”, i brianzoli se la ridevano sui pregi e difetti dei simpatici terroni. I protagonisti della divertente commedia non misero giù il muso, anzi ne apprezzarono il colore. Non a tutti veste bene l’umorismo e così l’ultimo film di Paolo Virzì ha suscitato il patatrac. Non l’avessero mai visto “Il capitale umano” i monzesi e i politici locali. Non l’avessero mai proiettato nel feudo della Brianza, in cui l’isolamento dalla milanesità è così marcato da voler apparire un piccolo cantone svizzero in terra lumbard.

Se la provocazione fosse arrivata da un regista milanese, i brianzoli avrebbero replicato con la solita filastrocca: “È solo invidia. Il Duomo di Monza non ha niente a che vedere con quello di Milano.” Invece arriva da un toscano, anzi no da un livornese. Come replicare? Avessero l’inguaribile umorismo in stile Vernacoliere, potrebbero prendersi meno sul serio e scrollarsi di dosso i tipici pregiudizi dei provinciali che vogliono passare per quelli senza la puzza sotto il naso.
Ricordo la battuta di un agente immobiliare di Lissone qualche anno fa: “Dopo aver visto al cinema Gomorra, non volevo più vendere case ai napoletani”. Meno male che non aveva visto il meraviglioso “Io speriamo che me la cavo” della Wertmüller, altrimenti chissà quale altra idea si sarebbe fatto di noi meridionali

La Brianza non è abitata solo da disonesti, così come la mia Napoli o la Livorno di Virzì, ma anche da tanta gente semplice e perbene. Ci mancherebbe. Tuttavia, ricordiamo a chi lo avesse dimenticato che il cinema non è un passatempo qualsiasi, ma un osservatorio privilegiato di ciò che accade intorno a noi. Il polverone e le polemiche dei giorni passati mi risultano inutili e sterili così come, negli anni del potere andreottiano, si diceva che le pellicole del Neorealismo erano state nocive per l’Italia, perché “i panni sporchi si lavano in famiglia”.

Nel 1997, al Festival del cinema di Venezia, feci sorridere Paolo Virzì. Alla mia bizzarra richiesta di mangiare assieme un piatto di cacciucco a Livorno rispose: “Quando farò un film con tanti spunti di riflessione”. E’ arrivato il momento.

#Sanremo2013: Il vittimismo dei vecchi BIG e la nociva “sanremosità”

La polemica della Oxa su Twitter

Rosario PipoloIn giro dicono che Twitter sia diventata la nuova guida tv. Commentare via social la televisione confusa dei giorni digitali vale forse più degli stessi programmi che la affollano. E a questo non si sottrae neanche il Festival di Sanremo, asservito dall’era baudiana ai canoni dello zapping, che oggi riscuote interesse nella landa dei cinguettii attraverso l’hashtag frequentatissimo #sanremo2013.

Vogliamo parlare di ciò che accadrà all’Ariston in alternativa al miserabile teatrino politico da campagna elettorale? Facciamolo pure, ma tenendo presente che Sanremo è musica. Fabio Fazio ce lo ricorda, facendo un passo in avanti proprio verso la generazione musicale “social” con una scelta di BIG che non hanno niente a che vedere con il solito dejà vu. Qualche anno fa volevano farci credere che il Festival lacrimogeno del Belpaese dovesse spingere l’acceleratore sul talent show per guardare al futuro. I talent non hanno avuto sempre fiuto, imponendo delle stellette divenute dalla notte al giorno delle meteorine.

Dicevamo che Sanremo è il festival della musica, anzi no delle canzoni. Al tempo dei nostri nonni era così: quando a cantare c’erano nomi che non vi dicono niente, da Nilla Pizzi a Gino Latilla, più canzoni in gara passavano per il timbro della stessa voce. Con l’avanzare dell’età, il festivalone ha imposto l’egocentrismo dell’interprete sul brano e l’imperialismo televisivo, a partire dai primi anni ottanta, ci ha messo il resto, creando una scuderia di cantanti sanremesi. Come se poi certi nomi vivessero discograficamente dentro il contenitore dell’Ariston. E se Anna Oxa facesse parte di questa scuderia, la sua polemica di vittimismo da grande esclusa sarebbe fuori luogo. La sua “sanremosità” – pardon per questo orribile neologismo – non la mette su nessuna corsia preferenziale. L’indimenticabile “Un’emozione da poco” e la trasgressiva performance della Oxa, alla fine degli anni di Piombo, nel piccolo televisore in bianco e nero della cucina di casa sembra ormai una polaroid in stile retrò.

Questo è un altro tempo. Il tempo in cui queste benedette o maledette canzoni tornino a resistere ed esistere fuori dall’Ariston. Per far tornare a vivere i nostri sogni di gente comune, un brano deve meritarsi una vita più lunga di un’abbuffata canzonettara in stile Belpaese, bloccata dal colpo della strega nostalgica che ci fa apparire il canzoniere di oggi inferiore a quello di ieri.

Diario d’estate: In spiaggia con “I Promessi Sposi”, ma non ditelo a Umberto Bossi!

Mi ha fatto un effetto strano cogliere in flagrante un ragazzino in spiaggia in compagnia della sua lettura estiva: I Promessi Sposi. Certo che Renzo e Lucia non sono proprio da mare e per questo mi è venuto il dubbio: Chi ha messo in castigo il giovane lettore sulla battigia dell’Adriatico? Certamente non Umberto Bossi, che di recente se l’è presa con Alessandro Manzoni per aver scritto il suo capolavoro “in italiano” e per essersi “venduto al Re d’Italia”.

Si sa che nella Lega non vanno mai d’amore e d’accordo. Mentre il Senatùr sbraita contro i Promessi Sposi, c’è da dire che c’erano pure tanti leghisti tra gli oltre 20 mila accorsi allo stadio di Lecco alla fine dello scorso giugno, per applaudire la versione teatrale di Michele Guardì.
Sarà che il Senatùr non ha colto la tagliente ironia manzoniana – l’ha tirata fuori il trio Marchesini-Solenghi-Lopez nell’irripetibile parodia televisiva – sarà che basta un pizzico di goffaggine e sfrontatezza in Padania per dimenticare che i veri “venduti” sono proprio le vecchie guardie che si infuriavano contro Roma ladrona.

Tornando ai Promessi Sposi, bisognerebbe capire se i leghisti stanno dalla parte di Alessandro Manzoni o Umberto Bossi. Nelle lande verdeggianti tra Como e Lecco, un dì possedimenti feudatari degli acerrimi leghisti, pian piano tira tutt’altro vento. E forse gli stessi contadini comaschi e lecchesi – loro che bestemmiavano contro i terrùn – hanno recuperato il loro rapporto con il lago attraverso lo stralcio poetico dell’Addio ai monti manzoniano. Del resto la cialtroneria al megafono ha contribuito alla fine dei tempi d’oro della Lega. Le prossime generazioni ricorderanno la penna leale di Alessandro Manzoni e dimenticheranno in fretta i cortigiani cafoni della vecchia Padania.

No, Vasco, no! Il rocker di Zocca vuole ritirarsi ed è rivolta su i social network

Un vero fan dovrebbe mettere da parte l’emotività e dire le cose come stanno. Mentre su Twitter lo slogan di questo lunedì è “Vasco, come faremo senza di te?”, fa discutere la notizia a sorpresa: Vasco si ritira e non farà più concerti dal vivo. Uno scherzetto dei primi giorni d’estate o il rocker italiano fa sul serio?
Dicevo che un vero fan dovrebbe mettere da parte la sfera emotiva: nell’ultimo tour abbiamo visto Vasco sottotono. Certo non è più quello di una volta da un bel pezzo, ma Morgan c’è andato giù troppo pesante a farlo morire artisticamente a 27 anni. Se l’ex Bluevertigo voleva fare il maestrino in cattedra, avrebbe dovuto allungargli la vita almeno fino ai 38, quando in classifica impazzava Liberi Liberi, l’ultimo album prima di un altro cambio di stagione. Il popolo di Facebook vascolizzato è troppo giovane per ricordare il battito del rock grezzo dei primi tempi.
Tuttavia, mi piace ribadire che un rocker è il vero “poeta maledetto” della musica e, pure senza l’auspicio degli dei, dovrebbe continuare a salire sul palco fino allo sfinimento. Un musicista ha il diritto di andare in pensione e allo stesso tempo il dovere di stare zitto se non ha più niente da dire.
Vasco è poco credibile quando si mette a fare il predicatore – il sermone a San Siro sugli ubriachi del sabato sera è stato fischiato – ma continua a far furore quando impugna il microfono, perché il fan è disposto a perdonargli la nota stonata di turno, il corpo affaticato, la voce sempre più roca.
“E già” sarà pure eletto motivetto della stagione calda, ma tra le sillabe di “sono ancora qua” nasconde un sibillino campanello d’allarme: la consapevolezza di chi non vuole tirare a campare. E il fan vascolizzato, scalciando l’emotività, lo avrebbe dovuto già capire da un pezzo che questo è lo stato d’animo di una rockstar di mezza età.

Jamme Ja, lettera aperta a Nino D’Angelo

Caro Nino,
ti scrivo questa lettera e mi scuso anticipatamente per l’approccio informale, che mi porta a darti del “tu”. Dare del “lei” a chi viene ed è rimasto sempre tra le gente mi sembra davvero inopportuno.  Ho apprezzato la tua polemica contro l’inciucio del Televoto al Festival di Sanremo. La tua canzone non meritava di essere eliminata. Per noi partenopei qui al Nord, “jamme ja” è diventato una sorta di sfottò bonario , che accompagna il nostro entusiasmo, il nostro parlare in faccia. E tu sei uno dei pochi in Italia che può permettersi di parlare senza peli sulla lingua. Chi ti etichetta come il ragazzo col caschetto che si veste con “‘nu jeans e ‘na maglietta” si è perso l’album decisivo della tua svolta: Stella ‘e matina. Enzo Ghinazzi, in arte Pupo, deve perdonare la mia arroganza napoletana, ma quel pezzo non doveva proprio arrivare all’Ariston così come la tua Jamme ja non aveva bisogno di sottotitoli, perchè il sound la riportava direttamente ai tempi di Stella ‘e matina, quando l’ondulazione musicale rendeva più corposo il messaggio della parola. Siamo riusciti a liberarci delle fantomatiche schedine del Totip, quelle che decretavano i vincitori a Sanremo negli anni’80, e adesso vuoi vedere che non ci riusciamo con questo maledetto aggeggio elettronico chiamato Televoto? Il Business più del valore artistico? Il festival è finito, le polemiche si smorzeranno e noi staremo punto e a capo l’anno prossimo. Ti chiedo: perchè non può partire da te e da altri tuoi colleghi la battaglia verso questo modo scandoloso di scegliere una canzone? Sì, proprio da te che hai riportato in auge il vecchio teatro Trianon nel cuore della città di Napoli. La canzone napoletana è alla radice della canzone italiana, e tu che ne sei portavoce in Europa e nel mondo dovresti prendere in considerazione questa provocazione. Caro D’Angelo, per fortuna i nostri Principi sono altri, quelli come Totò, che hanno guidato il popolo nell’unica corte che dà un senso alla nostra esistenza, vicino alla filosofia eduardiana e non di certo a quella dei Savoia: il palcoscenico.

Da recapitare a
Nino D’Angelo
c/o Teatro Trianon Viviani
piazza Vincenzo Calenda 9
80139  Napoli

Al cinema con “Il grande sogno”

"Il grande sogno" di Michele Placido

Rosario PipoloMichele Placido si è messo a dura prova girando un film che fotografa il ’68. Nel 1995 la grande sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico mi svelò il limite dei nuovi registi: guardare con insistenza all’Italia delle due Guerre e del Boom economico, quasi fosse un privilegio dei Monicelli o dei Visconti quel vissuto cinematografico. Per fortuna in Il grande sogno Placido esce fuori da quel perimetro storico, ma inciampa in una visione troppo emotiva del ’68 in Italia. Il suo film scimmiotta troppo Mio fratello è figlio unico di Lucchetti (bocciato ingiustamente alle candidature degli Oscar!), persino nello scontro tra i due protagonisti maschili (Scamarcio-Argentero). E’ interessante, nel raggio dell’emotività, la polaroid dedicata a chi sognava di fare l’attore allora, tra le mura di un’Accademia teatrale soffocata dalla sua rigidità. L’unica ninfa reale del film è la brava Jasmine Trinca: mi piace il suo personaggio con quella femminilità decisa e sicura, pronta a lasciarsi alle spalle le certezze del nido familiare per condividere con gli altri un nuovo sogno culturale, sociale e politico (“Mi manterrò facendo lezioni private(…)”. Mi è dispiaciuto della polemica tra Michele Placido e il ministro Brunetta perché l’ex commissario di La Piovra è un attore e regista che si rimbocca le maniche e mette l’anima in quello che fa, anche quando non raggiunge i risultati sperati!