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Addio prematuro a Prince, furia del pop che scheggiò funk e soul

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Rosario PipoloCi volle la Svizzera, nei giorni a ridosso del mio compleanno, per farmi incrociare Prince dal vivo. Nel luglio del 2009 al Festival di Montreux ero stato spedito per un reportage tra viaggio e musica, e raccontare  l’atmosfera di una delle vetrine di jazz più prestigiose d’Europa.

Pensavo che il pop di Prince stesse stretto all’edizione numero 43 di Montreux. Dovetti ricredermi durante il concerto, completamente sold-out, quando mi resi conto che le acrobazie musicali dell’icona di Minneapolis sfregiavano il pop tout court per insidiarsi in lapilli di funk, jazz, con un falsetto che mi colse di sorpresa e mi ha lasciato come souvenir di viaggio Somewhere Here on Earth.

Alla fine dell’esibizione di Montreux compresi quanto Prince fosse legato geneticamente al jazz, quanto il suo pop, vagante sulla sponda opposta di Micheal Jackson, avesse scheggiato funk e soul con lamelle di rock.

Prince ha remato controcorrente nelle acque dell’omologazione culturale degli anni ’80, ha guerreggiato contro lo strapotere delle major, si è impadronito della libertà dell’artista a tutto tondo per mantenersi fedele alla pignoleria maniacale del vivere la musica.
Prince si è vestito con un abito ritagliato su misura, quello dell’artista controverso e pieno di contraddizioni che ha fatto dell’incoerenza la linea d’ombra tra presente e futuro.

E’ stato lui l’ultimo uno, nessuno e centomila di fine secolo, saccheggiando nel fluido rovente delle sue canzoni l’instabilità di una generazione dopo la legittima presa di coscienza: gli anni ’70 si erano barricati dentro con la grande musica che mai più sarebbe tornata.
Prince ne rimase fuori e provò a modo suo ad orchestrare per le generazioni avvenire sonorità pulp che resteranno comunque vive, anche nelle perline come Nothing compares to you, donata generosamente a una gran bella voce come Sinead ‘O Connor.

Il pop si è spento. Ecco tutto.

Montreux Jazz Festival ci serva da lezione!

Prince al Montreux Jazz Festival 2009

Rosario PipoloLa Svizzera può insegnarci qualcosa su come si fa un festival. Aggirandomi al Montreux Jazz Festival, ho ritrovato la concezione di “festa”, quella stessa che Gillo Pontecorvo cercò di portare negli anni ‘90 al Festival del Cinema di Venezia. Pontecorvo non tradì la sua indole di “innovatore” perché aveva capito che un festival doveva essere “condivisione” per tutti, e non passerella elitaria di pochi. Ritornando alla musica di Montreux, mi ha fatto immensamente piacere vedere migliaia di giovani assiepati sul lungo lago, nel parco o fuori all’Auditorium ad ascoltare musica, condividere divertimento e un buon bicchiere di birra, senza avere necessariamente il biglietto della grande serata. Chi se ne frega di tirar fuori dalla tasca 120 euro per Prince, quando poi al Jazz Cafè ci danno la possibilità di vederlo in diretta video gratis? Questa sì che è vera democrazia! Ispirarsi ad una manifestazione, non significa copiarne in parte soltanto il programma. E’ lo dimostra la scarsa presenza di pubblico al Milano Jazzin’ Festival che scimmiotta Montreux. Per non parlare delle date annullate, come l’interessante duetto tra Occidente e Oriente con Hancock e Lang lang. Non sono un arcipelago di live a casaccio all’Arena Civica a farci sentire ad un festival. Eppure l’anno scorso il Milano Jazzin’ Festival era tutta un’altra musica. Montreux ci serva da lezione per fare qualche riflessione intelligente, senza piangerci addosso.