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Vent’anni fa la mia “notte prima degli esami”: La maturità arriverà…

Fu vent’anni fa. Come se oggi si trattasse di chissà quale anniversario o ricorrenza speciale. Sì, vent’anni fa la mia maturità, che alla fine mi giocai in quella “Notte prima degli esami”. Lo cantava Antonella Venditti nella canzone che ci ha attraversati, chi più o chi meno, tatuando sulla pelle la svolta di una generazione.

Eppure rivedendo le facce sgomente dei miei compagni di classe – io passavo per lo strafottente di turno – sorrido al pensiero della convinzione che circolava: la commissione ci aveva in pugno, come se il nostro destino si fosse impigliato tra spasimi nozionistici, versioni di latino andate a male, temi scopiazzati. La sera prima degli scritti, a cavallo di una Vespa rossa PK 50Xl, mi sentivo come John Wayne in un vecchio Western.
Nella cartucciera non avevo piombo a sufficienza da spiattellare in faccia al nemico, bensì temi d’italiano in miniatura che erano passati per tante altre mani. Sarebbe bastato l’inchiostro di una biro, lo stesso che avrei sparso anni dopo per scrivere i primi articoli, per affrontare gli esami. In quell’inchiostro erano diluiti i sogni e le passioni, che avrei difeso anche fuori dalle mura di quel liceo di periferia.

Torno a ripeterlo la partita me la giocai nella “Notte prima degli esami”, nelle ore intessute di magia che segnarono il mio destino: restare un maturando a vita. Infatti, fu proprio questo stato di sospensione emotiva a convincermi anni dopo che io gli esami di maturità non li avevo sostenuti, che quel diploma non mi apparteneva. Piuttosto sarebbero stati parte di me i compagni di classe, ad uno ad uno; i professori che avevano mandato al diavolo il nozionismo per ricostruire un amarcord del pensiero; le mura imbrattate di quel liceo su cui avevamo scarabocchiato la voglia di continuare ad esistere.

Vent’anni fa come se oggi si trattasse di chissà quale anniversario o ricorrenza speciale. Sì, una ricorrenza speciale, perché gli esami di maturità devo sostenerli ancora. Chi non svuota mai la biro di sogni e passioni, avrà tante altre “notti prima degli esami” da affrontare. Nel 1992 guardavo il Monte Somma dalla finestra e mi chiedevo cosa ci fosse al di là. Oggi ho la pianura sterminata di fronte e non mi interrogo più su cosa ci sia al di là dell’orizzonte della mia esistenza, perché è tutto sospeso qui, nella magia della “notte degli esami che non sono arrivati ancora”.

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Professò, lo sapete dei cinque arresti al Villaggio dei Ragazzi di Maddaloni?

Non c’era via di scampo perché la provincia pacchiana era lì che ti spediva. Quando nei paesotti alla periferia di Napoli si chiedeva ai santoni locali quale fosse il miglior percorso di studi per i figli, ‘o Professore rispondeva: “A Maddaloni al Villaggio dei Ragazzi”. L’unica alternativa poteva essere il liceo “Giordano Bruno” e nessuno poteva fiatare. Per fortuna c’era chi come me aveva una mamma napoletana, guerriera tra l’altro, che in una furibonda litigata con mio padre nel 1987 si fece afferrare per pazza. Per mio figlio nessuna divisa, nessuna scuola privata, nessuna atmosfera soffocante e limitata nel feudo della periferia casertana tra i vassalli e i valvassori delle scolette locali. Mamma picchiò duro e alzò la voce: “Piuttosto se ne vada al Garibaldi o al Genovesi a Napoli, ma io lì non ce lo mando”.
E adesso chi glielo dice a ‘o Professore che il mito del Villaggio dei Ragazzi di Maddaloni è crollato con un soffio di vento? Lunedì scorso la notizia è balzata sulle cronache di tutti i giornali, incluso il Corriere del Mezzogiorno: Abusi al Villaggio dei ragazzi, i prof cattolici chiedono la testa di don Cavallé, il presidente della fondazione dell’istituto casertano. La sconfortante notizia corre veloce e lascia tutti sotto choc, soprattutto il mondo cattolico e clericale. E adesso stanno sbiancando tutti i genitori sbruffoni, figli della piccola borghesia locale, che una ventina d’anni fa lasciavano con orgoglio i  pargoli “in divisa” sulla banchina delle stazioni della linea Napoli-Caserta via Cancello. Far frequentare quell’istituzione voleva dire appoggiare la religione meschina  “del vivere per apparire”, che nei piccoli centri si trasforma in sindrome che ammazza e mortifica le coscienze e gli intellettuali autentici.
Ahimè, caro Professore, mammà ci aveva visto lungo e lei si è fatto mettere in saccoccia da una casalinga, una croce per mio padre  in 36 anni di matrimonio, perché è stata capace di smantellare uno per uno i falsi miti paesani, inclusa un’istituzione scolastica che per fortuna non compare nel mio percorso di studi.

La rivolta degli studenti “spogliarellisti”

Sono passati quaranta anni dal 1968, l’anno dei cambiamenti e delle rivolte per eccellenza. Mi sembra che nulla sia mutato da allora vista l’aria che tira in questi giorni: in tutta Italia gli studenti sono tornati ad occupare scuole e università per protestare contro l’ultima manovra del Ministro Gelmini. Quale è stata in concreto la via del dialogo al fine di evitare “mani e scazzottate”? Le urla del coro della protesta viaggiano in autonomia senza una controproposta concreta. Ho terminato l’Università dieci anni fa e, ahimè, non sono più studente da un bel pezzo. Tuttavia, il mio rammarico resta sempre lo stesso. Si fa davvero abbastanza – pur alzando la voce col megafono – per cambiare le cose? Ho lavorato diverso tempo all’università e ritrovo ancora ex colleghi che si lamentano per le misere paghe. Alcuni hanno il coraggio di andare all’estero, altri si consolano con la filosofia del “tiriamo a campare”. In giro c’è puzza di troppe contraddizioni perchè alcuni studenti – al di là delle scenette, degli spogliarelli o delle istrioniche mazzate tra bande di sinistra ed estrema destra – fanno parte del “popolo dei parcheggiatori degli atenei”.  Il Senato ha appena trasformato in legge il decreto 137 e domani i Sindacati sono pronti a scendere in piazza. “La piazza” è davvero la più grande conquista di una democrazia, ma rischia di trasformarsi in un cortile di caciaroni se non c’è continuità di proposte. A questa riforma perché non c’è una controriforma? Gli eroi del ’68 sono svaniti. Il pressapochismo dei giorni nostri servirà davvero a salvare il mondo della scuola dalla catastrofe ipotizzata?