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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Racconto d’estate: L’ultimo angelo in volo su Istanbul

La nave sbarcò con un quarto d’ora d’anticipo e la donna, puntando il dito sulle cupole che sovrastavano Istanbul, spiegò alla bimba: “Io e papà siamo venuti qui in viaggio di nozze l’ultima volta”. Non fecero neanche in tempo a farsi travolgere dai frastuoni di prima mattina, che un taxi le balzò a fianco. “Dove vi porto?”, urlò dal finestrino un turco sulla quarantina. La donna afferrò la bambina per mano e saltò nell’auto. Diede all’uomo un foglio di carta scarabocchiato con un itinerario, indicandogli di rispettare il percorso.
Mentre l’auto solcava Istanbul, la bimba aveva gli occhi sgranati: il fasto delle moschee, l’eleganza di Santa Sofia, le bancarelle del Gran Bazar che accostava a quel del mercato sotto casa sua, i bistrot sparsi a Beyoglu. Il tassista incrociò gli occhi della piccola attraverso lo specchietto retrovisore ed esclamò: “Sei uguale al professore napoletano!”. La donna saltò dal sediolino e replicò: “No ci credo. Kadir, ma sei proprio tu?”.

Era lo stesso tassista che alcuni anni prima l’aveva portata a scoprire la città turca assieme al suo sposo. E poi solo Kadir lo aveva battezzato “il professore”. Sosteneva che conoscesse Istanbul meglio di lui che c’era nato. La donna gli spiegò perché il marito non fosse con lei, perché si era ostinata a fare quel viaggio, il dolore che aveva avvolto la sua vita a causa di quella perdita. L’uomo raccontò di avere ancora da qualche parte il disegno che il professore napoletano gli aveva regalato: raffigurava un famoso attore napoletano, protagonista di un divertente film dal titolo “Un turco napoletano”.

Questa nube di aneddoti e ricordi fu spazzata via da un uomo che bloccò l’auto: “Mi scusi. Mi fa salire, vado di fretta?”. Kadir gli fece segno di no perché il taxi era già occupato. La donna intervenne: “Fallo salire pure, tanto ormai il nostro tempo a disposizione sta per terminare. La nave riparte alle quattro e mezzo in punto”. Lo sconosciuto restò in silenzio per tutto il tragitto. Aveva un cappello che gli copriva il capo. Con la coda dell’occhio notò che la bambina osservava le sue spalle, erano identiche a quelle su cui si arrampicava quando giocava con il papà.

Arrivarono al porto. Kadir scese dall’auto, abbracciò la donna e la piccola, donando loro un piccolo portafortuna. La donna e la figlioletta si recarono verso la nave. Il tassista si voltò verso l’uomo, chiedendo: “Dove la porto?”. E lui rispose: “Sono arrivato a destinazione”. L’uomo tirò fuori un disegno e lo mostrò al tassista: “Kadir, era questo il disegno di cui parlavi prima in auto? Che sbadato sei, lo avevi perso durante l’ultimo trasloco”. Il tassista con le lacrime agli occhi lo riconobbe ed esclamò: “Professore!”. E lui concluse: “Non tremare, Kadir. I morti non fanno paura, i vivi sì. Quando ero piccolo mio nonno mi disse che quando saremmo andati all’altro mondo, il Signore ci avrebbe concesso un ultimo viaggio qui. Prima del trapasso mi sono ricordato di questa diceria popolare, e ho scelto Istanbul per rivedere la donna che amo e mia figlia. Ho sperato fino alla fine che non annullasse il viaggio. Lei è una testarda, sapevo che sarebbe venuta perché era il mio ultimo desiderio”. Kadir, incantato a guardare il disegno, non si accorse che l’uomo scomparve nel nulla. Lo distolse il fischio della nave che stava salpando e un arcobaleno che avvolse tutta Istanbul, unendo la parte asiatica a quella europea. Dalla nave la bimba disse alla mamma: “Mamma, mamma, mamma. Guarda l’arcobaleno. Ha gli stessi colori che usava papà per dipingere i suoi quadri”.

Tutto questo accadde ad Istanbul l’ultimo mercoledì di giugno. E da quella volta si dice che chiunque voglia ritrovare un amore, debba girare in tassì, in questo giorno, attraverso la città turca.  Più che una leggenda, è una speranza. Quella fu l’ultima volta che qualcuno vide un angelo volare su Istanbul.

E il Padreterno disse: “Rispedite Steve Jobs nel futuro. Il Paradiso può attendere!”

Bussarono alla porta del Padreterno di buon mattino, perché l’uomo del futuro era arrivato prima del previsto. Il Padreterno era occupato ad ascoltare i cori degli angeli con il suo iPod. Era diventato così tecnologico, che gli angeli a lui vicino si stupivano giorno dopo giorno: non usava più penna e inchiostro da quando batteva con le dita sul touchscreen del suo iPad. L’età c’era e il Padreterno non lo nascondeva. Quando gli dissero che doveva fare l’ennesimo intervento agli occhi, non volle rischiare di perdere la visione totale del mondo. Si fece inserire due Macbook air al posto delle pupille. Sosteneva che con le app era tutt’altra cosa!

“Padre, è arrivato. Dove lo piazziamo? Qui ci sono sempre meno posti”, chiesero gli angeli sottovoce. E il Padreterno replicò: “Per caso si tratta di quell’uomo magrolino che mi fa divertire come un matto con i cartoni della Pixar e mi tiene in contatto con gli angeli terrestri attraverso quella diavoleria dell’iPhone?”.
Gli angeli annuirono e lui aggiunge: “Rimandatelo indietro. Rispeditelo nel futuro perché il mondo ha ancora bisogno di lui. Prima o poi l’umanità finirà in braccio al futuro e se lo ritroverà davanti”.

Da quel giorno le mele, bandite perché associate al peccato originale di Adamo ed Eva, tornarono sugli alberi del Paradiso e sotto ogni albero c’era scritto: “Grazie, Steve Jobs. Ognuno di noi ti deve qualcosa, persino gli angeli. Il Paradiso può attendere”.

Diario di un blogger attraverso il 2010

Quando un altro anno se ne va via, un blogger ha un vantaggio dalla sua parte: un diario bello e fatto da poter sfogliare per ripercorrere a modo suo questo 2010. La scrittura è sempre farcita di emotività e di vita quotidiana, ma mi pare l’occasione per rivivere gli ultimi 12 mesi dell’anno.
Ricorderemo il 2010 per quella diavoleria tecnologica dell’iPad , ma anche per l’euforia di Facebook che a volte è diventata isterismo da “sindrome del mi piace”, onirico desiderio di calunniare, tenera strategia per corteggiare una donzella  o per festeggiare San Valentino . Le pagine del diario privato hanno preso il sopravvento nel calore della sciarpa di Antonia, nel disegno del dolcissimo Carmine, nei micro viaggi nei miei luoghi natali, in un racconto d’estate a puntate  o su un block-notes dopo la mia estate in Corsica. L’attualità mi ha ricordato la turbolenza della Fiat di Pomigliano , l’uccisione del Sindaco-pescatore, la guerra della monnezza a Terzigno  o la protesta degli studenti a Roma. Le buone o le cattive abitudini (dipende dai punti di vista!) mi hanno riportato nei matrimoni del Sud tra le bustarelle e le reunion familiari.
E poi ancora la delusione per l’uscita degli azzurri dai Mondiali, l’urlo dei ricordi per la Spagna campione del mondo, il sapore dello gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta, Calabria on my mind, ed io autista per un giorno a Brescia.
Mi mancheranno tre volti noti che se ne sono andati nel 2010: Sandra Mondaini, Mario Monicelli e Enzo Bearzot.
Devo eleggere una persona dell’anno, rovistando tra i miei post? E’  Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Con lei e con te, caro lettore, ho attraversato il 2010 e sono pronto per condividere  anche “l’anno che verrà”. Cin cin…

L’ultima estate di Leopold, nona puntata

La fine di settembre si portò via l’estate, ma restituì tranquillità all’isola di Fehmarn. La casetta della famiglia di Beatrice era in centro, con vista mare, a pochi passi dall’hotel Ulysse. Beatrice non fece in tempo a mettere le chiavi nella porta quando sentì una mano appoggiarsi sulla spalla. “Mamma, cosa ci fai qui?”, sussultò voltandosi di scatto. “Sono venuta a portarti questa lettera. Te l’ha spedita Leopold Muller. Perchè non me ne hai parlato?”, rispose l’anziana signora.
“Mi avresti giudicata una sgualdrina – continuò Beatrice – perchè agli occhi nostri sei sempre stata la madre che si è sacrificata per la famiglia. E pensi che io non ti abbia vista piangere quando papà rincasava tardi e tu mandavi giù brutti rospi per amor nostro?”.
La signora von Bernstein abbassò la testa e si voltò verso la finestra. “Mi sono sempre chiesta perchè papà non abbia mai acquistato questa casa – aggiunse Beatrice – In trent’anni d’affitto c’è costata un occhio della testa. Forse perchè voleva sentirsi inquilino a vita e non avere vincoli”.
“E questo cosa c’entra con il tuo amore per Leopold?”,
replicò la madre. “C’entra, mamma. Tu e qualcun’altro mi avete sempre fatta sentire affittuaria della mia vita. Ho 34 anni e non sono più una bambina. Voglio essere padrona delle mie scelte. Mamma, non voglio più vivere, adesso voglio volere, voglio esistere”, concluse Beatrice.
Uscì fuori sul terrazzino e, mentre Klaudia giocava, aprì la lettera di Leopold. Ogni parola galleggiò sulle sue lacrime perchè mai nessun’altro le aveva scritto parole così dense. Leopold le confessò della sua malattia rara che lo portò a dimenticare tutto in brevissimo tempo, ma anche della sua permanenza all’hotel Ulysse a Fehmarn . Era lì che aveva vissuto l’ultimo mese e mezzo di vita, osservando i quadri di Beatrice e il terrazzino della sua casa. La brezza marina le accarezzò i capelli e Beatrice lasciò che gli occhi inzuppati di lacrime si alzassero verso il mare. All’orizzonte trovò depositata la quiete. Questa volta niente sarebbe stato più come prima. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, ottava puntata

Al centro del palcoscenico c’erano uno a fianco all’altro i dieci quadri che Beatrice aveva dipinto per lui. Le luci colorate si incrociavano e li illuminavano come se fossero gli attori protagonisti della scena. Una voce dalle quinte lesse queste parole: “Non volevo dimenticare le cose belle della mia vita. E una sola donna lo è stata. Desideravo invecchiare con lei. Questi acquerelli mi hanno aiutato anche quando si spenta la luce e c’è stato il buio. E spero che da quel buio, in cui adesso galleggio, esca ancora il suo sorriso”.
Fu in quel momento che Beatrice si ricordò delle parole inquietanti farfugliate da Leopold al parco alla fine di luglio. Scoppiò in lacrime tra le braccia del signor Muller. Il trucco si sciolse e le colò sul viso, facendo scivolare via quella maschera che la rendeva donna e moglie felice agli occhi di tutti.
Andò via di scatto e nel foyer si imbattè nel marito, che aveva in braccio la piccola Klaudia. Federick le gridò contro: “Dove vai adesso?”. Beatrice gli rispose: “Federick, faccio quello che avrei dovuto fare tempo fa. Me ne vado. Non mi fai più paura. Non ti amo più”. E lui afferrandola per un braccio urlò: “Cosa farai? Vivrai con il ricordo di un fantasma? Beatrice, lui è morto”. “No, ti sbagli – replicò Beatrice –  Il morto vivente se tu, Federick. Il mio amore per Leopold vivrà per sempre in quei quadri”. E poi decisa come non lo era mai stata aggiunse: “Ti dirò di più. La notte di San Lorenzo, in cui mi obbligasti a fare l’amore con te, pur di restare fedele a lui, ho prelevato dalla tua carta di credito. Ho distribuito duemila euro tra le prostitute di Schöneberg e Tiergarten. Ho preferito sentirmi una di loro, piuttosto che donarti me stessa. Federick, quella notte hai comperato il mio corpo, ma non la mia anima”.
Beatrice gli strappò di mano Klaudia e corse via. Il marito rimase imbambolato. Per la prima volta vedeva quella donna, da sempre sottomessa e impaurita, così decisa e ribelle. Beatrice si precipitò in un taxi e si fece portare alla stazione. Prese il primo treno per raggiungere in fretta il litorale orientale di Schleswig-Holstein e rifugiarsi nella casa di vacanza di famiglia sull’isola di Fehmarn. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, settima puntata

A casa non la riconosceva più nessuno, persino il marito che era sempre distratto. Beatrice era diventata irascibile, irrequieta, non faceva altro che andare su e giù. Anche sua madre notò che la figlia fosse turbata e mandava la nipotina Klaudia a sorprenderla mentre singhiozzava in ogni angolo della casa. Erano più di due settimane che Leopold non si faceva più vivo.
Sì è vero, Beatrice si sentiva di averlo ferito con il rifiuto di intraprendere una vita assieme alla luce del sole, ma questo non era un buon motivo per scomparire così. Alla fine di agosto iniziò a cercarlo, ma nessuno sapeva dirle niente. I vicini di casa di Leopold le dissero che l’appartamento era disabitato da un pezzo, ma avevano intravisto qualche settimana prima un furgoncino che caricava alcuni quadri. Erano quelli che Beatrice aveva dipinto per lui. Una sera si prese la briga di assistere ad uno spettacolo al Volksbühne con la speranza di trovarlo all’uscita. Sul manifesto c’era scritto che il tecnico delle luci fosse Leopold, ma a teatro le assicurarono che era stato sostituito all’ultimo momento. Fu in quel periodo che Beatrice capì quanto Leopold fosse importante per lei e visse uno stato di depressione emotiva che le rallentò la vita.
Nella seconda metà di settembre era al parco con la piccola Klaudia, sulla stessa panchina e fu avvicinata da un signore di mezza età che le chiese “E’ lei la signora von Bernstein? Io sono Marc Müller, il papà di Leopold”. Beatrice si alzò di scatto e chiese con impazienza: “Cosa gli è successo? E’ più di un mese che non ho più sue notizie”. “Venga con me”, le chiese il signor Müller. La portò al Volksbühne. Lì, nella sala del teatro, c’erano solo pochi addetti ai lavori e il papà di Leopold disse a Beatrice: “Mio figlio ha voluto che gli ultimi fasci di luce fossero per lei”. Si alzò il sipario, mentre si sentiva in sottofondo un’armonica che suonava il motivetto che Leopold le aveva dedicato all’inizio della loro storia. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, sesta puntata

Beatrice era al settimo cielo perché quei biglietti erano il regalo più bello che avesse mai ricevuto: non aveva visto mai un concerto di Eros Ramazzotti. Le venne in mente di quando ancora studentessa, prima del crollo della cortina di ferro, ricevette in dono da un’amica il primo disco del cantante italiano. Leopold la convinse ad arrivare all’arena O2 World con largo anticipo perché voleva farle respirare l’atmosfera. Lì a Mildred-Harnack-Straße, nell’area del nuovo palazzetto dello sport, mangiarono un invitante panino al wustel bianco, prima che le canzoni diventassero il miglior pretesto per coccolarsi con le tipiche tenerezze da innamorati.
“Leopold, mi hai regalato la serata più bella della mia vita. Non la dimenticherò mai!”, esclamò Beatrice, guardandolo diritto negli occhi e sforzandosi di superare la sua incalzante timidezza. Poi Leopold la portò a Friedrichshain, a passeggiare lungo gli ultimi chilometri di Muro che sopravvivevano in città. Era la notte di San Lorenzo. Mano nella mano trovarono la loro stella cadente ed espressero un desiderio. Poco dopo la mezzanotte, Leopold guardò Beatrice e un fitta di rabbia attraversò il suo sguardo. Le sussurrò con determinazione: “Tesoro, non ne posso più di questa sopensione. Fuggiamo, andiamo via. Portami a vedere il mare dal terrazzino della casa delle tue vacanze. Vivremo felici lì e poi il resto verrà da sé”. E Beatrice rispose con un tono velato di rassegnazione: “Leopold, una fuga così precoce porterebbe alla distruzione di tutto ciò che c’è intorno a me. Ah, se ci fossimo conosciuti prima del mio matrimonio o magari ai tempi del liceo…”. E lui replicò adirato: “Saremmo nella stessa condizione perchè questo maledetto muro su cui sei appoggiata ci avrebbe separati comunque, tu da una parte ed io dall’altra”.
Beatrice singhiozzò e lui la strinse forte a sè. Si sentirono avvolti da un silenzio profondo attraverso cui Leopold le disse tutta la verità, quello che sarebbe successo. Quel silenzio parlò più di quanto non avrebbero mai fatto le parole. Beatrice prese un taxi e corse a casa. Si voltò indietro e Leopold era diventato già un minuscolo puntino nero, risucchiato dal buio luminoso della notte del 10 agosto . (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, quinta puntata

Quando si chiuse quella porta Leopold sentì come se qualcuno gli avesse dato un ceffone che lascia un livido. Lui che era un catalogatore di ricordi, lui che trasformava ogni briciola del suo presente in un granello di sabbia della memoria, doveva rinunciarvi. E tutto questo perché? Per un gioco beffardo del destino a cui ogni uomo tenta invano di ribellarsi.
Beatrice capì che c’era qualcosa che non andava, ma lui fu bravo a sdrammatizzare. “Non voglio dimenticarti. Facciamo un gioco. Immagina che il mio cervello si svuoti ed io diventi muto e sordo. Cosa potrebbe aiutarmi a ricordarmi di te?”, chiese improvvisamente Leopold. Lei stette al gioco e replicò: “Vediamo un po’, fammi pensare… Che ipotesi bizzarra, amore mio! Potrei dipingere una serie di acquerelli per te che riscrivono a colori il diario di noi due”.
Leopold fu entusiasta e non se lo fece ripetere, mentre lei sbigottita pensava che fosse uno scherzo. Il giorno dopo fu lui a presentarsi al Volkspark Friedrichshain con tutto l’occorrente, dai colori al cavalletto. Era da prima del suo matrimonio che Beatrice non prendeva in mano un pennello. Dopo tutto questa richiesta insolita non era forse il miglior modo per riportare in vita una delle sue passioni? Lui raccontava, ricordava ogni particolare, dal loro primo incontro su quella panchina, e lei traeva ispirazioni per le composizioni.
Giorno dopo giorno, fino alla fine di luglio, Beatrice realizzò una mini galleria e il risultato fu così sorprendente che qualche passante osò chiedere: “Sono in vendita?”. Dopo tutte quelle pennellate Beatrice era tornata ad essere raggiante più che mai. E lui per ringraziarla di quell’opera d’arte a puntate, una mattina si presentò con due biglietti. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, quarta puntata

Ai primi di luglio Leopold l’accarezzò con tenerezza e le disse: “Ho avuto un permesso a lavoro. Il pomeriggio è tutto nostro”. Beatrice non se lo fece ripetere due volte, lo stinse forte a sé e dimenticò tutti i suoi impegni. Lei stava per chiamare un taxi, ma lui fece in tempo a bloccare un autobus. “E’ una vita – esclamò Beatrice – che non prendo un mezzo pubblico”. Il respiro di Leopold inciampò tra i suoi occhi castani e mai come in quel percorso Berlino sembrò tutt’altra città. Un’anziana signora bisbigliò al nipotino: “Guarda che bella coppia. Lo capirebbe chiunque che sono due sposi innamorati”. I due sentirono e si donarono un bacio fuggiasco, quello tipico dei due fidanzatini adolescenti che hanno marinato la scuola.
Scesero alla fermata di Alexanderplatz. Si incamminarono fino al numero 12 della Max-Beer-Straße. Al terzo piano, di un tipico edificio della vecchia Berlino Est, Leopold aveva il suo regno, un delizioso monolocale di cui andava fiero. “Scusa il disordine, ma io convivo con le cianfrusaglie”. C’era un piccolo cucinotto, un arredamento minimalista, un letto con una seggiola accanto. Tra i tanti libri sparsi qui e lì a Beatrice balzò all’occhio Casa di bambola. “E’ un testo teatrale di Ibsen. Lo adoro – precisò Leopold – Te lo regalo con la speranza che la tua vita non finisca mai come quella di Nora”.
Bevvero una tazza di caffè caldo e poi il più audace fu lui: la strinse con galanteria, cominciò ad accarezzarla e le baciò i seni. Le lenzuola di quel letto si trasformarono nell’inquietudine di un oceano e la passione straripò in un atto d’amore. Si amarono come non era mai successo prima ad entrambi e si scambiarono vicendevolmente tante promesse: nessuno li avrebbe mai separati e non ci sarebbe stato un giorno che non avrebbero passato assieme.
Restarono a letto fino al tramonto, guancia contro guancia, abbracciati, finché Beatrice interruppe il silenzio: “Quando ho paura, ho un posto segreto dove rifugiarmi. La casa al mare dove vado in vacanza fin da piccola. C’è un terrazzino. Mi siedo, sorseggio un caffè e volano via le mie insicurezze”. Leopold annuì e si sentì assalito dalla paura quando il suo sguardo finì sul post-it che gli ricordava l’appuntamento dell’indomani. (CONTINUA)

L’ultima estate di Leopold, terza puntata

Ogni giorno che passava, Leopold si chiedeva se l’avesse conosciuta in un’altra vita, se si fossero amati in un altro tempo, in un altro spazio, o magari su un altro pianeta. Sì perché quei due si erano innamorati e se lo dissero senza preavviso in una mattinata d’estate.
Lui tirò fuori dalla tasca un’armonica e accennò ad uno strambo motivetto: “L’ho scritto per te – le disse – e volevo fartelo ascoltare”. Poi la prese tra le braccia e la fece danzare. A quel bacio Beatrice non seppe dir di no perché aveva riscoperto l’amore, seppellito sotto terra fino a quando Leopold non era entrato nella sua vita.
Beatrice tornò a ridere, scovò su quella panchina la gioia delle piccole cose della vita mentre quel giovanotto scanzonato strappava dal suo diario pagine della sua storia: l’irrequieta adolescenza nella Berlino comunista; il sogno da liceale di vedere finalmente il Muro frantumato dinanzi ai suoi occhi; l’entusiasmo per il teatro che non avrebbe barattato per nessuna cosa al mondo. E lei gli confessò i suoi piccoli segreti con l’aria di bambina e con il cuore in gola: non si slegava mai le scarpe prima di togliersele, adorava il rosa, non avrebbe mai detto no ad un piatto di tagliolini al tartufo, combatteva l’afa estiva con i ghiaccioli a limone e, quando era felice, si sentiva come un pastello di colore azzurro.
Su quella panchina Leopold e Beatrice dimenticavano chi fossero, almeno fino al giorno in cui quella bambina le saltò sulle gambe: “Mamma, chi è questo signore?”, chiese Klaudia con l’impertinenza tipica di una figlia di sei anni. “Un amico che vuole fidanzarsi con la mamma”, ironizzò Leopold. Klaudia, fulminandolo con lo sguardo, replicò: “Mamma non può fidanzarsi con te perché è già sposata”. Fu in quell’istante che Leopold si sentì crollare il mondo addosso e si ricordò dei tempi goliardici in cui predicava alla combriccola degli amici: “Il primo comandamento è uno solo. Non innamorarsi mai di una donna sposata perché non lascerà mai il marito per te”. (CONTINUA)