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La grande bellezza, l’Oscar per guardarci intorno

Rosario PipoloLa grande bellezza è la coppia di parole più digitata della rete da stamattina all’alba. Ce ne siamo fregati degli sbadigli del fuso orario pur di sapere se il film di Paolo Sorrentino aveva riconsegnato nelle mani dell’Italia un bell’Oscar.

Ciondolando da un social network all’altro mi è parso di capire che il titolo cinematografico si sia imposto quasi come uno slogan che riguarda ciascuno. È stato come ritrovare una vecchia lente di ingrandimento in un cassetto chiuso a chiave per tornare a guardarci intorno.

La grande bellezza non è lo sguardo cocciuto che rende strabica la nostalgia, nel rimpianto della giostra felliniana che vestiva Roma di sogni ed eleganza. La grande bellezza è piuttosto lo stupore di un Paese che non è soltanto corruzione, mostruosità, rassegnazione. È come se, svegliandoci da un brutto sogno, avessimo messo al guinzaglio l’essere brutti, sporchi e cattivi.

La grande bellezza è nell’arte che popola lo stivale italiano che, quasi come un paradosso, fa andare in frantumi la Pompei archeologica. La grande bellezza è nei sogni discreti di quella minoranza stanca del populismo politico e culturale. La grande bellezza è nelle donne che guerreggiano contro il maschilismo che preferisce un ramo secco al posto della freschezza di una mimosa. La grande bellezza è tra gli impavidi che non ci stanno a vedere il futuro della propria terra crescere sotto il ricatto della diossina e della criminalità. La grande bellezza torna nel palmo della nostra mano, appena stacchiamo la maledetta spina della routine che ci condanna alla distrazione e alla superficialità.

Paolo Sorrentino non ha regalato all’Italia una pregiata statuetta ma uno spunto per tornare ad arare il campo della grande bellezza di cui vorremo parlare. L’euforia passeggera di un trionfo può lasciarci addosso la paura di perderci nel buio; un film che ci fa dondolare come su un’amaca può sottrarci al terrore di guardarci intorno.
E in questo momento ne avevamo davvero bisogno.

40 anni di sogni da vagabondo

Io e mia sorella Rossella nei primi anni '80

A modo mio lo farò in questo giorno che non assomiglia a nessun altro. Forse solo a quello in cui soffiai su una barchetta di carta e la feci andare a largo, appesantendola con i sogni di un bimbo occhialuto. 40 anni di sogni da vagabondo, duellando con il destino che mi voleva ragazzo rammollito di periferia nella landa della provincia, che predilige il vivere per apparire, lungo gli argini della desolazione dei ruoli sociali.

I parenti mi hanno insegnato che i legami e gli affetti non si sottoscrivono all’ufficio anagrafe, ma negli incontri casuali lungo la strada della vita. Perciò non si può restare nello stesso posto. Quello che per gli altri sarebbe stato un privilegio, per me sarebbe stata la peggior condanna che possa accadere ad uno zingaro felice.

Gli angeli, che da bambio incantato osservavo affrescati sulle pareti, mi hanno insegnato che non hanno le ali, non volano in alto, camminano nel basso, ci restano accanto e sono coloro a cui spesso neghiamo l’attenzione. Perciò si deve sempre “restare con i piedi per terra”.

I ribelli mi hanno insegnato che la sottomissione è dei vili e che dobbiamo tirar fuori l’urlo rabbioso affinché il prossimo istante sia migliore dell’utopia stretta al cuore.

I viaggi mi hanno insegnato che tutto cambia al momento del ritorno, che la diversità è una ricchezza immensa per andare incontro ad un giorno nuovo e che il significato del tragitto è più importante della meta stessa.

I sogni mi hanno insegnato che sanno essere leggeri come i palloncini colorati in volo e consistenti come le emozioni che danno un valore aggiunto alla vita.

I soldati e i civili morti in guerra mi hanno insegnato che Dio, nel tardo pomeriggio, gira le spalle agli altari e va ad appisolarsi in cima alle montagne, tra le trincee. Lì l’ho visto la prima volta con i miei occhi.

L’uomo in croce mi ha insegnato che donare la vita al prossimo può redimere il peggior farabutto pochi istanti prima che tutto sia finito.

Gli amici mi hanno insegnato che non sono fatti su misura per tutte le stagioni della vita. I cambiamenti spazzano via i recinti ed incidono sul bisogno di legami diversi, più acuti e profondi.

I borghesi piccoli piccoli mi hanno insegnato ad accelerare la fuga dalla famigliola alla Mulino Bianco, profumata negli spot pubblicitari, ma puzzolente e fradicia nello scorrere dell’insignificante routine.

I morti mi hanno insegnato che non se ne vanno via, ma ci restano accanto. I fantasmi non esistono, sono le proiezioni delle nostre coscienze indifese. Al contrario le persone che abbiamo amato continuano ad esistere in ogni piccolo gesto che maschera il ghigno della memoria e svela il segreto del nostro destino.

La musica ha sottratto la sordità al mio udito; il teatro ha fatto sì che il legno del palcoscenico fosse la quercia attraverso cui piantare le mie radici; il cinema ha cancellato la cecità della mia coscienza civile.

Il lavoro mi ha insegnato che a spuntarla è colui che non accartoccia la propria essenze e non tradisce mai le proprie passioni.

L’amore mi ha insegnato che non sono le distanze anagrafiche a separare, ma le barriere culturali e sociali. Non bisogna mollare o ripiegare, perché esiste una sola strada per i sentimenti: quella che, attraverso il cuore, conduce alla felicità in uno scintillio che spalanca lo sguardo dell’altro sulla condivisione.

Oggi, 17 luglio 2013, sono arrivato in cima alla montagna, a modo mio. Il sentiero non mi è stato indicato dai “maestri santoni”, ma dalla quotidianità. E da questa posizione guardo sospeso 40 anni di sogni da vagabondo. Li ho vissuti istante dopo istante e provo lo stupore di chi ha dato finalmente un nome allo spettacolo più incredibile dell’universo: la vita. 

E la mia ha 40 anni.