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Cartolina dalla favela Rocinha: il cerchio della vita

Non ero convinto se mettere piede nella favela Rocinha, una delle più temute di Rio De Janeiro. Il dubbio principale, oltre alla questione sicurezza, era finire imbrigliato nell’odioso voyeurismo circense.
Mi era tornata in mente la stizza di quando nel ’92, prima che il polso di ferro di Giuliani rivoltasse come un calzino New York, per andare ad Harlem dovevi per forza fiondarti su un van e tirar fuori quasi 100$. I tour locali ci sguazzavano e facevamo quattrini, trasformando la zolla nera di Manhattan in uno show. Mi rifiutai, ci sarei tornato ventitré anni dopo in autonomia.

Tornando a Rio De Jaineiro, non sono leggende metropolitane le app che ti indicano in tempo reale le sparatorie di una delle metropoli brasiliane più pericolose. Se ne contano decine e decine, una dietro l’altra come i counter dei bimbi morti nel mondo per malnutrizione e la favela Rocinha resta uno dei territori da Mezzogiorno di Fuoco.
Andarci guidato da Be a Local non era soddisfare le curiosità del turista che voleva finire su un set cinematografico come fanno i tanti in visita nella mia Napoli, la cui massima aspirazione è vedere con i propri occhi le ambientazioni della serie televisiva di Gomorra.

Il lungo pomeriggio nella favela Rocinha è stato lo sforzo di guardare oltre la colata di fogna che scorre da su a giù come il potere gerarchizzato dei narcotrafficanti e le loro faide criminali. E’ stata una discesa, anche geografica, di quattro ore di “trekking sociale” dall’altro verso il basso a passo svelto in quelle strettoie, accompagnato dal rumore di una pioggia sottile e tagliente, alla ricerca disperata di quotidianità, di vita normale, di uomini, donne e bambini che sfidano il tutto per tutto per difendere a denti stretti la dignità di essere umani.

Qui dove il sole sembra non arrivare mai, le case si restringono in cunicoli in un contorsionismo di cemento che si rinchiude e si isola dal resto del Brasile, ho vissuto una delle esperienze più toccanti del mio arrembaggio da viaggiatore. L’incontro con artisti della favela, la danza con i bambini, i dolci fatti in casa da Maria hanno alleviato il dolore per i morti prematuri di tubercolosi, per le nefandezze di chi si mette di traverso allo Stato, per le armi da fuoco che ci passavano davanti agli occhi.

Prendendo per mano i bambini che ci venivano incontro e ci abbracciavano, ho toccato il cerchio della vita, è scolata ogni paura, i grattacieli di lusso tra Ipanema e Copacabana si sono improvvisamente sbiaditi e gli abitacoli della favela Rocinha hanno invaso l’impermeabilità del pregiudizio: il Brasile era tutto qui, come i calci magici ad un pallone dei Pelè, figli di un dio minore nelle favelas e molla del riscatto sociale sudamericano. La visita agli asili e le scuole per l’infanzia, supportati da organizzazioni umanitaria, mi ha fatto guardare in faccia gli educatori e i volontari che tutti i santi giorni danno qui il loro contributo.

 

Uscito dalla Rocinha, avevo gli occhiali appannati. Pensavo fosse il residuo della pioggia, invece no dovevo imparare a riconoscere le mie lacrime, in un misto di dolore e rabbia, sciolte in un pensiero che mi ero portato al ritorno dal mio viaggio in Cina:

La speranza è come una strada nei campi: non c’è mai stata una strada, ma quando molte persone vi camminano, la strada prende forma.
(Yutang Lin)

Cartolina da Rio De Janeiro: memorie ritrovate

A Rio De Janeiro c’ero arrivato la prima volta nel 1981, attraverso lo schermo del nostro primo televisore a colori: il lungomare di Copacabana, nelle sequenze della telenovela brasiliana Agua Viva seguita da mia madre,  si era messo di sbieco nell’immaginario della mia infanzia. I personaggi, le storie e la colonna sonora ispiravano disegni di quei luoghi che condividevo con mamma e mi ripromettevo di visitare.

Sarà stato il ricordo di quei tempi a capultarmi subito sotto il Cristo Redentore, simbolo del Sudamerica, che mi fa ritrovare quell’estate di quarant’anni prima  su una 500  rossa con la mia famiglia a Maratea per ammirare il Cristo lucano. Rivivo le stesse emozioni con lo sguardo rivolto a Rio e al Brasile attraverso il belvedere mozzafiato dal Corcovado.

Per entrare nell’anima di Rio bighellono per le stradine di Santa Teresa gemellate con quelle dell’omonimo quartiere nell’amata Lisbona salgo e scendo  come un bambino sulla scalinata Sélaron, mi rilasso nel piccolo eden del Giardino Botanico, osservo la città che va a lavoro nel centro storico in largo Carioca, salgo sul convento di Sant’Antonio per godermi il centro dell’alto.

Bivacco a Botafogo, calpesto pagine e pagine di storia calcistica brasiliana sul campo da gioco del Maracanà, sosto in preghiera nella meravgliosa cattedrale di San Sebastiano, una vera perla architettonica controcorrente, volo in alto come se avessi le ali fin sopra il Pan di Zucchero, da dove ammiro la baia e il panorama più suggestivo della mia vita da viaggiatore.

Rio De Janeiro diventa mia lasciandomi andare in una lunga scarpinata di sei chilometri sul lungomare da Ipanema a Copacabana. Le onde dell’oceano sono più alte del solito, la spiaggia non è gremita, nonostante per i Brasiliani sia un luogo sociale e prolungamento della vita di tutti i giorni. I residence e i condomini lussuosi sul lungomare contrastano le forme presepiali delle favelas avvistate in lontananza. come la Rochinha dove vivrò uno dei pomeriggi più toccanti della mia vita da viaggiatore.

A spingermi a Rio de Janeiro è stata anche la devozione per le poesie e le canzoni di Vinicius de Moraes, il cui ricordo galleggia nel bar e ristorante Garota de Ipanema, ritrovo dei padri della Bossa Nova che ispirò l’omonima canzone. Mi siedo, sorseggio un caffè bollente, mi tornano in mente le parole di Toquinho durante l’intervista a Milano: le canzoni di Vinicius evocano luoghi e viceversa.

Me lo conferma anche Carlos Alberto Afonso, gestore del famoso negozio di musica Toca do Vinicius,  con cui chiacchiero piacevolmente e sbircio tra gli scaffali di quello che è oggi è diventato un centro culturale della Bossa Nova.

Carlos ritaglia ricordi su misura per me della Rio De Janeiro degli anni ’70 e ’80, mi racconta la passione per il canzoniere del nostro Sergio Endrigo, mi aiuta a ritrovare altre strade per una doccia di memoria e musica che si mescola ai crepuscoli avvistati sulla spiaggia di Ipanema, alla luna piena di Capocabana, mangiucchiando calamari fritti e bevendo caipirinha nei tipici chioschi o aggirandomi nel mercatino serale a caccia di cianfrusaglie artigianali.

Quando il tassista mi accompagna in aeroporto e siamo bloccati nel traffico, mi allontano dal centro con la consapevolezza che Rio e Johannesburg sono state le città che nei miei trent’anni di viaggi all’estero non mi hanno rassicurato in tema di sicurezza.
Nonostante tutto Rio De Janeiro mi è rimasta nel cuore: su un cartellone pubblicitario gigante campeggiano una donna e un bambino, assomigliano a me e mia madre su quel divano di periferia mentre sognavamo il Brasile dentro un tubo catodico .