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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

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La Germania vergognosa svende il Muro di Berlino per case di lusso

The Berlin Wall

Rosario Pipolo“State alla larga da quel muro!”, esclamavano i soldati intorno alla Cortina di Ferro nel tempo furioso della Guerra Fredda che lacerava la Germania in Ovest ed Est. Quel monito militare era rivolto ai tanti che tentavano di scavalcare il “muro mostruoso”, rischiando la vita, per riabbracciare chi stava dall’altra parte.
Oggi ci risiamo. E l’avvertimento non viene dallo strascico di quel dramma in bianco e nero ma da coloro che stanno rimuovendo pezzi del Muro di Berlino per rispettare gli accordi con un palazzinaro: si fa a pezzetti la memoria dell’Est side Gallery, il museo a cielo aperto di un flagello della storia del ‘900, per costruire case di lusso.

Berlino è stata sempre attenta alle invasioni urbanistiche che mettevano a repentaglio il tragitto che, dagli agglomerati di stampo sovietico di Alexander Platz agli slanci moderni della Potsdamer Platz, tracciava il passaggio dall’Est all’Ovest. Oggi sembra pura follia la rimozione di parte del Muro, nonostante le proteste di berlinesi e diverse personalità che si sono esposte contro questa offesa alla memoria civile non solo tedesca.
Il Muro di Berlino non è solo il simbolo della Germania o il santuario del turista invadente che lo fotografa come reliquie folcloristiche. E’ l’ombra spettrale delle cortine di ferro che tutti i santi giorni si alzano in ogni angolo del pianeta, mortificando la ricchezza della diversità e l’essenza di un dialogo costruttore di pace.

“State alla larga da quel muro!” lo urla la mia generazione che ha cominciato a studiare geografia con quel segno divisorio sulla cartina e ha attraversato il liceo, vedendolo scomparire dagli atlanti geografici.
“State alla larga da quel muro!” dovrebbero gridarlo i politici e i governatori di una Germania che vuole essere “europeista” solo quando le fa comodo, perché in questo preciso istante sta svendendo un pezzo del Nobel per la Pace assegnato al Vecchio Continente.
“State alla larga da quel muro!” dovrebbe urlarlo con il megafono l’aspirante cancelliere Peer Steinbrueck, che un mese fa definì l’Italia “un Paese governato da politici clown”. Meglio scimmiottare le gesta circensi e custodire la memoria storica. Da questo punto di vista l’Italia può dare ancora una bella lezione a qualcuno.

  Demolita parte del Muro di Berlino

#DarkSide40: Perché il lato oscuro della luna dei Pink Floyd resiste al voyeurismo degli anniversari

Rosario PipoloHo scampato l’anniversario e me ne sono volutamente dimenticato. Gli americani sulla luna ci avevano messo piede quattro anni prima. L’Inghilterra si mise di traverso tra le navicelle di russi e americani quando il 24 marzo del 1973 uscì The Dark Side of the Moon. Questa volta ad andare nello spazio era la musica, in un groviglio di sonorità ultramoderne, che bilanciavano le intuizioni sperimentali dei Pink Floyd con i presagi del futuro.

Roger Waters e compagni, dopo la separazione traumatica dal pargolo visionario Syd Barrett, calpestarono ciò che l’astronauta Neil Armstrong non vide: Il lato oscuro della luna. Al ritorno da quella missione onirica, che mise in crisi musicologi e musicanti di tutte le razze, i Pink Floyd avevano ricalcato le orme antropologiche del film “2001 Odissea nello Spazio” di Kubrick e catapultato i sogni ingannevoli della generazione post-sessantottina tra le pagine della fantascienza musicale. Il concept album dei Pink Floyd liberò finalmente la luna dalla prigionia del mood romantico, mettendo in castigo evergreen come “Fly me to the Moon” e “Blue Moon” e stritolando i conflitti interiori dell’umanità in loop, ticchettii, scoccare di orologi e nel resto dei rumori che assordano la routine.

Dopo quarant’anni The Dark Side of the Moon resiste al tempo e al voyeurismo degli anniversari, perché è ancora sospeso nello spazio. Quel “disco volante”, una sorta di UFO della discografia contemporanea, ha respinto le minacce retrograde e consumistiche della musica usa e getta, raccontando qualcosa che non è accaduto. E’ l’elastico di un divenire ancora troppo lontano per finire in soffitta assieme ad altro vinile impolverato. Il rebus è tutto lì, nel prisma triangolare in copertina, nel luccichio rifrangente che anticipa quello nell’occhio di Jack Nicholson in “Shining”, perché l’alienazione mentale è vittima anche dell’isolamento sociale.

Su Twitter, con l’hashtag #DarkSide40, sono partiti per altre galassie migliaia di pensieri che hanno trasformato una ricorrenza in una presa di coscienza: il lato oscuro della luna è l’unica terra straniera meritevole di ulteriori esplorazioni filosofiche e peotiche. E forse non sarebbe stata un’idea bizzarra tweettare qualche verso di “Alla luna” di Giacomo Leopardi, perché più di un secolo prima lo sguardo dell’anima di un poeta italiano aveva dato il via a questa missione esplorativa. Chi ama stare alla larga dagli anniversari, che come le parole lasciano il tempo che trovano, può sempre farlo senza il ricatto del calendario.

Custodi del creato: Il Sudamerica di Papa Francesco come l’Est Europa di Giovanni Paolo II

Rosario PipoloDopo una settimana dall’Habemus Papam, ci sono gesti a sufficienza per riflettere. Papa Francesco ha conquistato tutti, credenti e non. In volo tra le parole del primo Angelus e quelle dell’insediamento di ieri davanti ai capi di Stato, diciamolo pure: Abbiamo un pontefice spirituale, umile, concreto e persino ambientalista.
Ciò che sta accadendo in Italia in questi giorni, rievoca una polaroid che mi passò dinanzi agli occhi di bambino alla fine degli Anni di Piombo: un Papa polacco a San Pietro e un Presidente partigiano al Quirinale. Forse qualcosa sta cambiando. Nel 2013 il risveglio con Francesco a capo della Chiesa e la coppia Boldrini-Grasso ai timoni di Camera e Senato; nel 1978 Giovanni Paolo II e Sandro Pertini, quest’ultimo tra l’altro con il fardello della Prima Repubblica corrotta e melmosa, lasciato dal predecessore Giovanni Leone.

Tornando a Jorge Mario Bergoglio, pardon Papa Francesco, non avevamo bisogno del bisbiglio della presidente Argentina e della richiesta di mediazione per le Falkland per abbandonarci a vezzi di geopolitica. Alla fine degli anni ’70 i Paesi dell’Est Europa si affacciarono al balcone: l’asse spirituale-politico del sognatore Karol Wojtyla e del visionario Lech Walesa diede i frutti sperati. Oggi a sporgersi allo stesso balcone c’è il Sudamerica. Non le Americhe – la cortina di ferro tra USA e l’altra America è ancora troppo marcata – ma l’America Latina, quella che per decenni agli occhi di europei e italiani è stata beffeggiata dai cliché delle dittature facili, balli tropicali e i faccioni di Che Guevara che sventolavano sulle bandiere. L’Argentina di Papa Francesco non è una pallonata di Maradona, una notte di tango a Buenos Aires, un ululato appassionato di Mercedes Sosa o lo sbuffo a fumetti della Mafalda di Quino che “di questa minestra non ne può proprio più”.

L’Argentina di Bergoglio è quella del Peronismo, della dittatura dal pugno di ferro di Videla e del dramma dei Desaparecidos, delle rivendicazioni colonialiste delle isole Falkland, delle favelas e dell’estrema povertà, tenuta nel pugno da un piccolo branco di ricchi sfondati. Nello sguardo tenero di Papa Francesco si intravede lo sforzo del parroco umile, oggi “parroco del mondo” senza oro né scarpine rosse, che ha saputo affrontare la povertà e camminare a fianco degli emarginati, attraversando sottovoce e con concretezza la storia travagliata del suo Paese.

Il Sudamerica si aspetta che Papa Francesco si faccia umile portavoce della sua identità politica ed economica, soprattutto oggi che gli scenari sono in continua trasformazione: i sogni filo-occidentali delle generazioni cubane che pensano al dopo-Castro; lo stallo del Brasile di Lula; il Venezuela post-Chavéz tra ventate populiste e intrighi di palazzo; gli scheletri nell’armadio lasciati da Pinochet nel Cile contemporaneo (dossier e fiumi di articoli ci dicono che dal Vaticano alla vigilia dell’11 settembre 1973 non mossero un dito per evitare la caduta di Allende); i contributi di Uruguay e Paraguay allo sviluppo dell’economia sudamericana; il filo religioso che lega la comunità messicana alla terra di frontiera tra voltagabbana repubblicani e sognatori democratici.

E’ vero, Papa Francesco lo ha ribadito: “La Chiesa non ha natura politica ma spirituale”. Lo sosteneva anche Giovanni Paolo II, ma poi accadde qualcos’altro. Oggi il Sudamerica aspetta il suo riscatto, come accadde ieri per l’Est Europa. E nella “custodia del creato” rientrano anche i passi silenziosi della storia, che a volte non fanno rumore come quelli del Padreterno.

Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino Jorge Mario Bergoglio

Rosario PipoloL’agognata fumata bianca del primo Conclave invaso dai social network ha fatto sventolare qualche bandiera tricolore di troppo. L’Arcidiocesi di Milano non ha cantato vittoria neanche questa volta. Il cardinale Angelo Scola era troppo schierato con i ciellini per aggiudicarsi l’ambito pontificato dopo le dimissioni del principe Ratzinger. C’è chi ha creduto fino a pochi istanti prima dell’Habemus Papam che dietro la finestra sarebbe apparso un successore in toto di Benedetto XVI. I movimenti conservatori che animano la Chiesa cattolica hanno subìto il contraccolpo perché ad affacciarsi alla finestra c’è stato un gesuita, per giunta per niente Ratzingeriano, per giunta argentino, la cui elezione riscatta la memoria di Carlo Maria Martini. Habemus Papam: è il moderato Jorge Mario Bergoglio, che da arcivescovo di Buenos Aires sale al pontificato con il nome di Francesco I.

Sostenuto dallo stesso Martini al precedente Conclave, la scelta di Bergoglio mantiene da una parte il passo della transizione e dall’altra porge un segnale moderato di cambiamento nella Chiesa dilaniata da scandali, misteri di Vatileaks, abusi sessuali, intrighi di palazzo, complotti della curia, senza menzionare gli scheletri nell’armadio (da Emanuela Orlandi alla Banca Vaticana). Francesco I non sarà il pontefice progressista che qualcuno si aspettava, almeno che non ci siano sorprese lungo il pontificato, ma sarà il Gesuita rigoroso e severo che potrebbe scuotere persino le fogne dei sotterranei vaticani. I bookmaker e i sondaggi hanno fatto l’ennesima figuraccia allontanandosi dai pronostici, ma era qualche decennio che ci aspettavamo un Papa dell’America latina.

Si finisce nell’incappare nel solito luogo comune: Abbiamo un Pontefice di destra o di sinistra? Direi che abbiamo un Papa Argentino che, nella sua terra, si è distinto per aver difeso i poveri e gli emarginati. Sarà dura fargli indossare il mantello e le scarpine da principe. Quando lo hanno annunciato come Francesco I, non ho pensato per riflesso al piccolo grande uomo di Assisi, nonostante il nome scelto indichi chiaramente che Bergoglio farà sentire il profumo di povertà a gran parte della curia asservita dal potere.
Mi è venuto in mente Francisco, il pastorello portoghese che nelle campagne sperdute di Fatima vide un raggio di luce bianca. E forse è la stessa luce che si sforzerà di farci intravedere Jorge Mario Bergoglio, senza le vesti dell’alto porporato, perché dopo duemila anni sopravvive ancora una grande testimonianza. Quella di un “povero tra i poveri”, sfidante agguerrito di principi e regnanti e urlatore, in una zolla del Medio-Oriente, di un principio che non appartiene soltanto ai naufraghi della spiritualità: l’amore è l’unica via che può dare un senso alla nostra affannata esistenza.

Jorge Mario Bergoglio è giunto al Pontificato in punta di piedi proprio come potrebbero essere i cambiamenti che si prospettano. E se così fosse, il Padreterno ci ha messo del suo.

  Il Paradiso può attendere? Il Sudamerica no!

El nuevo Papa es el argentino Jorge Bergoglio

  Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

iPhone low cost: Se la Apple conquista il ceto medio-basso

Rosario PipoloIl profeta Steve Jobs se n’è andato all’altro mondo e gli apostoli infedeli hanno deciso di fare a meno della sua spiritualità visionaria e raffinata. Siamo in tempo di crisi, anche per la “Mela” di Cupertino. Con la scusa di aggredire il mercato indiano e cinese, la Apple abbandona il pubblico di sempre, quello smanettone ed elitario, possibilmente chic, tecnologicamente inserito, fanatico all’occorrenza e qualche volta con la puzza sotto il naso, per non dire sotto il touchscreen! Strizza l’occhio al ceto medio-basso e chissà che non vedremo persino in Italia un metalmeccanico cassintegrato o un pensionato andare a zonzo con il primo iPhone low cost.

L’iPhone 5 è stata “una mezza sola”, come direbbe un venditore ambulante romano, e in più il suo prezzo si è rivelato un insulto, se pensiamo a quanto prende mediamente un operatore call-center in Italia. Il luminare Jobs si starà rivoltando nella tomba, ma la Apple ormai è sulla via del lowcost: i rumors del 2012 sono confermati e possiamo cominciare il conto alla rovescia per l’iPhone a basso costo, il melafonino semi-plastificato per la tasca nazional popolare, che dovrebbe oscillare tra i 200 e i 300 dollari.

Direi che possiamo dargli anche il nomignolo di iPhone giocattolo. Finirà prevalentemente nelle mani degli stessi cinesi, che avevano intrapreso indirettamente la crociata contro Apple con i cloni del phone più ambito del pianeta. E chissà che la stessa sorte non tocchi prima o poi anche ai MAC, sui quali sventola la bandiera bianca di un’antica leggenda: pur di non dar via a prezzi stracciati i modelli andati fuori produzione, la Apple li seppelliva in chissà quale angolo sperduto del pianeta.
La mela “morsicata” non è più l’oscuro oggetto del desiderio in tempo di crisi. Se la Apple di Tim Cook conquisterà il ceto medio-basso, riuscirà a compensare la perdita di Jobs? I profitti non sono tutto, almeno non sempre. E questo il predecessore di Cook lo teneva a mente.

Tutto pronto per l’iPhone low cost

Le fiamme alla Città della Scienza e l’oltraggio al riscatto di Bagnoli

Rosario PipoloIl Belpaese aveva troppi “grilli” per la testa dopo lo stordimento post-elettorale e non ci ha fatto caso a quelle fiamme sul mare di Coroglio. Edoardo Bennato dovrebbe aggiungere una nuova strofa al ritornello della sua “Campi Flegrei”, perché l’incendio alla Città delle Scienza di Napoli è uno degli oltraggi più mostruosi nei confronti del nostro Mezzogiorno. Mettiamo subito le cose in chiaro. Napoli ne ha le scatole piene di essere trattata come la “Cenerentola” d’Italia, vestita con i rattoppi dei suoi cliché.

Dopo quelle fiamme da rosso fuoco Technicolor, che sembravano strappate alla sequenza dell’incendio di “Via col vento”, è cominciato il cantico nostalgico degli imperatori. Tutti a ricordarci che la mega struttura polivalente di Bagnoli è un fiore all’occhiello dell’Europa. Gli stessi, che fino a qualche giorno prima neanche sapevano cosa fosse, si sono improvvisamente ringalluzziti con il sermone all’italiana e il piagnisteo per la grande perdita.
I nostalgici della Sinistra chic hanno evocato l’illuminismo bassoliniano finito “in manette” e il gemellaggio della Città della Scienza partenopea con quella parigina; i misantropi della Destra popolare si sono mangiati le mani per aver snobbato in diverse circostanze il polo scientifico che guardava a Nisida.

Le amministrazioni scialbe che hanno governato Napoli negli ultimi vent’anni , hanno trattato i Campi Flegrei con una strafottenza tale da lasciare alla deriva il territorio che circondava la Città della Scienza. Per chi ha memoria corta, ricordiamo che la mia generazione è cresciuta con lo sguardo rivolto ai fumi tossici dell’Italsider. Era quello che vedevo dal balcone dei miei nonni, che affaccia su quella zolla di terra a partire dal 1956.

La prima pietra della Città della Scienza me la ricordo. Simboleggiò il riscatto di Bagnoli, la salvaguardia della memoria nel cuore del futuro di una generazione pronta a riprendersi ciò che le era stato tolto. Poi venne il tempo delle promesse elettorali e della mancata bonifica del territorio e del recupero di un mare, che non è quello che appare nelle cartoline turistiche di Napoli. E’ il vero mare di Napoli, è quello interno, discreto, che parla ancora della memoria dei vecchi pescatori, ammazzati dalla volubilità del bradisismo di Pozzuoli.

Rivogliamo la Città della Scienza, restituendo al mittente l’imperdonabile cecità delle istituzioni, e chiediamo che a pagare il conto siano gli artefici di questo scempio criminale.

La Chiesa senza Papa e il fulmine di “Ritorno al Futuro” su San Pietro

Rosario PipoloIl fulmine sul Cupolone di San Pietro, scattato nel giorno delle dimissioni a sorpresa di Benedetto XVI, ha fatto il giro del mondo. Nessun fotoritocco per quell’immagine che involontariamente cita una delle ultime scene del film “Ritorno al Futuro” di Zemeckis: assomiglia al fulmine che riporta Marty e la sua DeLorean nel 1985.

Sembra un confronto inadeguato ma è come se questa saetta lampeggiante, più che rappresentare una sculacciata del Padreterno, segnasse lo sforzo della Chiesa per un “ritorno al futuro”. Da giovedì scorso la Chiesa non ha più il suo Pontefice e, nel sotterfugio della nostra contemporaneità, non si erano viste ancora le dimissioni di un Papa. E’ accaduto. Qualcosa cambierà, anzi è già cambiato.
Ratzinger non è stato il principe del Vaticano che si è guadagnato il consenso popolare e la simpatia di Karol Wojtyla. Mettiamo pure in conto che un tedesco parte in netto svantaggio rispetto ad un polacco. La sua statura teologica non è bastata a reggere un pontificato, dilaniato da scandali e ombre all’interno di una Chiesa, in difficoltà a dialogare con gli stessi fedeli.

Il ritiro dalla scena di Benedetto XVI fa riflettere tutti, dai teologi agli storici, dai dissidenti ai laici. E lascia stupiti persino “i movimenti”, nati tra i cattolici, che si spartiscono consensi tra i progressisti e i conservatori, facendo il bello e il cattivo del tempo ai margini del porporato. Chi non crede al Conclave baciato dallo Spirito Santo sa che la differenza la fanno i numeri: Ratzinger, sostenuto dai conservatori, è stato sul trono papale meno del previsto. Chi sarà il successore?

“Ed oggi, a causa di una recente intervista, tutti dicono che il Papa è diventato comunista”, cantava Giorgio Gaber nella graffiante “La Chiesa si rinnova”. Benedetto XVI “dimissionario” ha raccolto nel suo gesto, pregnante di umiltà, un consenso generale che in questo momento non hanno neanche i nostri vecchi e volubili politici, che si ostinano a voler restare. Papa Ratzinger se n’è andato in punta di piedi, senza lo scettro e il mantello da principe. Se il fulmine su San Pietro fosse davvero preso in prestito dalla sequenza famosa di “Ritorno al Futuro”, potrebbero venir meno i sospetti di complotti, di raggiri diabolici, dell’ingratitudine della curia. Il gesto del successore di Karol Wojtyla, incauto per i conservatori, ha forse già spianato la strada per un nuovo Concilio e spetterà al Conclave non renderlo inutile.

  Papa Ratzinger “superstar” tra cinema, musica e fumetti – Tiscali Notizie

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Regionali 2013: Al Pirellone the winner is Bobo. Chi, Craxi? No, Maroni!

Rosario PipoloLa fiaba “lumbard” ha un nuovo incipit: “Missione compiuta”. Bobo è il nuovo principe del Pirellone. “Bobo chi? Bobo Craxi?”, chiede un vecchio addetto alle pulizie del palazzo della Regione che, come in ogni fiaba che si rispetti, si era addormentato tra vecchie scartoffie per oltre vent’anni. No, Bobo Maroni, la faccia della nuova Lega che ha mandato a casa il vecchio Carroccio del Senateur e del Trota. Nonostante l’emorragia di voti a livello nazionale e regionale, la Lega si tiene stretta la Lombardia e Roberto Maroni si sveglia Presidente della Regione.

Gli elettori lombardi lo hanno preferito al principe poetico e sognatore Ambrosoli e hanno sbattuto la porta in faccia pure al vecchio sindaco Gabriele Albertini, che vedrà il Pirellone soltanto in una cartolina in bianco e nero della vecchia Milano. Rispetto al Lazio, la Lombardia va controvento. Nonostante gli scandali che avevano travolto il Pirellone, l’elettorato medio padano continua a veleggiare nella stessa direzione politica e non scatena nessuno tsunami come è accaduto con Zingaretti a Roma.
Anzi, Roberto Maroni può vantare anche un successo personale. Una lista civica tutta per lui che si è aggiudicata più del 10%, che si traduce in 11 seggi. Del resto perché dovremmo meravigliarci? Nella Sicilia di “Il Gattopardo” la Lega ha scippato 5000 voti non si sa a chi, segno ormai che, persino al di là dello stretto, il carroccio trova sempre un angolo per parcheggiare.

Bobo è il nuovo principe del Pirellone e lo sarà, almeno che non ci siano nuovi colpi di scena, nel fatidico 2015 in cui la Lombardia ospiterà il fantomatico Expo e il suo succulento bottino. Finita l’euforia del voto, bisogna preoccuparsi di governare e fare opposizione, senza dimenticare che anche chi sta dall’altra parte della barricata può darsi da fare per recuperare consensi.
E chissà che Umberto Riccardo Rinaldo Maria Ambrosoli non si svesta dei panni del “principe felice” in calzamaglia per diventare cavaliere agguerrito fuori dalla Tavola Rotonda.

  Io Terrùn? Tu Ladrùn…

Elezioni 2013: The winner is Beppe Grillo, il comico “censurato” da Socialisti e Democristiani

Rosario PipoloGli italiani hanno memoria corta. Me lo ricordo quel sabato sera del 1986 davanti al nostro televisore a colori Voxon ad otto canali. Erano i tempi del gran varietà, erano i tempi di Fantastico. Beppe Grillo fece lo sgarro e Bettino Craxi non gliela fece passare liscia dopo l’insidiosa battutaccia. Da quando i Socialisti erano passati al timone del Pentapartito avevano ereditato la lezione dei Democristiani: meglio la “censura” da leoni che passare per una ciurma di coglioni.

Il comico genovese fu sbattuto fuori dalla RAI – ai tempi i trilli telefonici di Montecitorio e Palazzo Madama facevano tremare viale Mazzini – e il cane bastonato cominciò ad usare il teatro per abbaiare contro la Prima Repubblica. A quasi trent’anni da quel sabato sera, le vecchie glorie del Pentapartito sono roba da libri di storia, il gran varietà televisivo è morto, le zozzerie di Tangentopoli continuano a tentarci, soffia il vento del populismo, ma Beppe Grillo si è preso il tempo necessario per trasformare la rivolta di un comico in una rivoluzione civile: è lui il vero vincitore di queste Politiche del 2013.

Gli istant poll hanno preso una cantonata a parlare di “Terza Repubblica” e il sentiment dei social network per certi versi è stato come la profezia dei Maya. Il “centrismo” tecnico di Mario Monti ha fatto un buco nell’acqua, il “vendolismo” rincasa in Puglia, Silvio Berlusconi è resuscitato e la partita alla Camera, se non fosse per “il contentino da maggioranza”, sarebbe finita in un pareggio netto con Pierluigi Bersani.
Il Senato è completamente paralizzato e la voglia di rottamazione del guascon fiorentino Matteo Renzi (Su Twitter circola la preghiera “Matteo, torna e salvaci tu!”) ha portato iella a qualche “santino” del Paese per vecchi che ci ritroviamo ad essere. Tra i grandi esclusi ci sono Di Pietro, Fini, Bonino e Storace, mentre Casini è salvo per un pelo.

In tutto questo caos, c’è una sola certezza. Il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo è il primo partito in Italia ed ha i numeri necessari per tirare “scappellotti” a destra e sinistra. Gli umori di piazza Affari sono così volubili che mi sembra di essere tornati ai tempi dell’autogestione a scuola. Oggi è così, siamo un paese autogestito, abbiamo mandato a casa i professori, abbiamo le aule tutte per noi, con la verve studentesca di poter mettere nel registro i voti che vogliamo. Tuttavia, l’utopia dell’autogestione scolastica rischia sempre di consumarsi in una bevuta di vino in compagnia o in una partitella a carte. Può succedere anche ad un governo traballante dalle larghe intese, non sempre destinato a fare con coerenza gli interessi degli elettori. Persisterà il tirare a campare del vecchio Belpaese? Oggi è così, domani si vedrà.

  Italy tumbles into ‘chaotic uncertainty