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Bersani-Renzi: L’Italia delle “Primarie” è un paese per vecchi?

Dai risultati della primarie del Centrosinistra verrebbe da dire: l’Italia è un Paese per vecchi. Pierluigi Bersani stacca di quasi dieci punti Matteo Renzi. Così la vecchia guardia, acclamata soprattutto nel Centro-Sud, si lascia dietro il guascon fiorentino, senza cantar vittoria: il ballottaggio penserà al resto, accompagnato dalle alleanze insidiose che determineranno l’identikit dell’aspirante Premier.

Niente vittoria netta insomma e, nonostante Nichi Vendola sia fuori dal gioco, vedremo quanto costerà numericamente la confluenza dei suoi voti: se li papperà sicuramente Bersani.
C’è chi parla di dati ballerini, c’è chi è poco convinto che tutte le votazioni siano andate lisce. Un numero è davvero importante: visto il disinteresse e la delusione degli italiani nei confronti della politica, queste Primarie sono in controtendenza. Hanno attirato e armato l’elettorato, al di là dei siparietti folk e delle insinuazioni da fantapolitica di infiltrati di altri schieramenti a danno dei big in pole-position.

Dicevamo all’inizio che l’Italia è un Paese per vecchi. E se fossi Matteo Renzi, ritratterei la dichiarazione che ad “un ballottaggio si parta da zero a zero”. I politici della vecchia guardia sanno bene come smorzare l’entusiasmo di un guascon. Gli slogan non funzionano più e “sono da rottamare”, prima che la patata diventi bollente. E gli italiani disinteressati alla politica dove sono finiti? Li ho visti stamattina in metropolitana a dibattere con accanimento sul litigio pacchiano di X-Factor tra Arisa e Simona Ventura. Hanno la stessa faccia di chi si lamenta che in Italia la politica sia un insulso spettacolo di marionette.

Bersani e Renzi vanno al ballottaggio…

Addio a J.R. di “Dallas”: Larry Hagman è tornato ad essere Larry!

Tocca a tutti gli attori prima o poi sfilarsi di dosso il soprabito dei loro personaggi. Soprattutto a coloro che hanno giocato a fare “i cattivi” attraverso l’unico filtro dell’eterna giovinezza: la finzione. E’ morto Larry Hagman, che mezzo mondo ricorda come J.R. in “Dallas”, il serial tv che meglio di tutti ha espresso il rampantismo americano fatto di allucinogeni petroliferi.

Larry Hagman è stato un talento sprecato, a volte relegato in ruoli marginali, spesso segregato dalla serialità televisiva in angoli che non gli hanno permesso di esprimere al massimo le sue doti recitative.

E’ vero che il ghigno di J.R. Ewing in “Dallas” è diventato famoso quanto quello di Joker in “Batman”, ma anche vero che anche in piccoli camei cinematografici Hagman ha dato sempre il meglio di sé. E per me, nella grande abbuffata cinematografica a tutte le ore del giorno e della notte, è stato un piacere incrociarlo dietro la macchina da presa di Joshua Logan (Una nave tutta matta, 1964), Otto Preminger (Prima vittoria, 1965), Sidney Lumet (Il gruppo e le sue passioni, 1966) e John Sturges (La notte delle aquile, 1976).

Tornando alla televisione, il destino scelto dagli dei per pochi bravi attori come Larry Hagman non è solo quello della personalizzazione della malvagità. In “Una strega per amore”, che andò avanti sulle tv americane senza interruzioni dal ’65 al ’70, Hagman finì al fianco di un genio imprigionato in una lampada (la formidabile Barbara Eden). Il suo personaggio, un maggiore dell’aviazione americana, riuscì a proteggere “l’American dream” con uno spruzzo di magia all’interno della scatola televisiva, mentre fuori c’era solo insicurezza e paura: il fantasma di Kennedy, le lotte razziali, l’instabilità politica, il sangue del Vietnam.

Nel 2005 ho trascorso una giornata al SouthFork Ranch a Dallas, dove sono stati girati tutti gli esterni del famoso serial tv. Ho raccolto diverse testimonianze su Larry Hagman, chiacchierando con chi ci aveva lavorato. Ne è uscito fuori una persona generosa, che faceva tanta beneficenza, disponibile, attenta al mondo che gli stava intorno.

Tocca a tutti gli attori prima o poi sfilarsi di dosso il soprabito dei loro personaggi. Finalmente Larry è tornato ad essere Larry.

Cartolina da Cameri: Immaginarci

In Italia straripano le mostre, grandi e piccole che siano. Il vantaggio di quelle piccole sta già nell’itinerario che fai per raggiungerle, magari allestite in un piccolo centro. Come quella di Cameri, un piccolo paese piemontese del novarese, che raccoglie scatti di aspiranti fotografi o di coloro che si dilettano con l’obiettivo.
Incrociando per caso “Immaginarci”, mi è venuto da pensare che la fotografia ha davvero il potere inespugnabile di farti sentire in più luoghi nello stesso tempo. Come questo scatto malinconico di Maria Cioffi che mi ha riportato nei miei sopralluoghi dei cimiteri da guerra. Una ventina d’anni fa ero di ritorno da Cassino e ne ho visitato uno.

Certo non uno di quei posti dove vai a fare una scampagnata, ma il luogo che ti fa avvistare la crudeltà della guerra, attraverso l’apparente geografia dell’anonimato riservata ai caduti. I veri eroi non hanno bisogno della notorietà. La cerchiamo noi nel folclore di alcuni nostri cimiteri civili, dove sostituiamo la semplicità di una lapide all’ostinazione di rendere pacchiana persino la caducità della morte, abbassando il capo al tornaconto per far spazio alle cappelle-bunker private.

La morte è una cosa seria. E il fiore sulla tomba di questo soldato, seppellito nel cimitero di Minturno, ci ricorda che l’eroismo si nasconde tra i petali di un fiore.

  Immaginarci

Parolacce in dialetto e l’incomprensibile insulto

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Quando alcuni anni fa mi capitò in redazione il libro “Parolacce” di Vito Tartamella, avvitai l’idea che tutto sommato, senza trascendere nella volgarità, ogni sintomo di turpiloquio si porta dietro pezzetti di storia, aneddoti divertenti e i colori del belpaese.
Il piccolo vangelo di Tartamella, in alcuni punti quasi scientifico, mi raccontò che “le parolacce” le dicevano pure Big come Mozart, Leonardo Da Vinci, Dante e Shaskespeare.

Eppure, viaggiando nel regionalismo del Belpaese, capisco pure che una parolaccia, beeppata o no, sfiora l’incomprensibile quando di mezzo c’è un dialetto. Una ventina d’anni fa, lavoravo come capo animatore ad Otranto. Eravamo in una meravigliosa spiaggia della Puglia e un mocciosetto gettò palle di sabbia ad un dei ragazzini del nostro mini club. Il poveretto rispose all’attacco e al disturbatore toccò la cattiva sorte: la palla di sabbia gli finì in bocca.

Il papà del maleducato ce ne disse di tutti i colori in uno stretto dialetto pugliese, buffa cantilena del tutto incomprensibile. E quando mi è capitato di vedere questo divertente video from Puglia with Love, mi sono detto. Le parolacce in dialetto hanno un vantaggio. Quando non sono blasfeme o volgari, al posto di un insulto gratuito ci restituiscono il colore della nostra terra!

 Parolacce di Vito Tartamella

L’orgoglio dell’Italia nel fango: Il gruppo Facebook “Emergenza Alluvione Orvieto”

Un pezzo di Italia travolta dal fango oggi, da Grossetto a Orvieto. Un altro pezzo d’Italia messa in ginocchio dal terremoto ieri, da Modena a Rovigo. Blaterale è inutile, perché dobbiamo ammetterlo una volta e per sempre: non siamo un Paese di “prevenzione”.
Non ci mettiamo nelle condizioni di esserlo e passiamo agli occhi dell’Europa dal braccino corto, che ha tentato in maniera ignobile di bloccare i fondi ai terremotati dell’Emilia, come il Belpaese dell’assistenzialismo.

Ad un anno esatto dall’alluvione che ha risucchiato Genova, siamo messi peggio di prima. Mentre c’è ancora chi piange i morti della sciagura ligure,ci chiediamo cosa faccia operativamente chi ci governa per salvaguardare l’Italia da questi disastri ambientali.
C’è solo un motivo di orgoglio che viene da un grande girotondo di solidarietà, nato nella landa dei social network: gli oltre 1500 utenti che hanno aderito al gruppo temporaneo di Facebook Emergenza Alluvione Orvieto. Per una volta la solidarietà formato “social” non si è ridotta ad un’accozzaglia di status o fotine, ma in un’azione concreta e autogestita di reclutamento di volontari, anche se temporanea.

Ci sono tantissimi giovani che hanno aderito al gruppo Facebook e si danno da fare per ripulire Orvieto dal fango. Se fossi il Presidente della Repubblica di questo Paese, li inviterei tutti al Quirinale per assegnare loro un’onorificenza. Quella che sa riconoscere agli italiani tanta umanità quando la solidarietà parte “dal basso”, senza secondi fini ed interessi. In questo momento affoghiamo in un letamaio, ma Fabrizio De André ci ricorda che “dal letame può nascere un fiore”. Il gruppo Facebook Emergenza Alluvione Orvieto è un piccolo prato fiorito. E non è virtuale.

Cartolina dal Moulin Rouge di Parigi

Al Moulin Rouge a Parigi il tempo si è inchiodato. Il celebre manifesto di Toulouse-Lautrec, esposto nel foyer come una reliquie, lo sussurra al pubblico eterogeneo in coda per lo show: il curioso, l’appassionato, il fricchettone, l’innamorato perso della Ville lumière. Al Moulin Rouge ci avevo messo piede la prima volta nel 1996. Ero un giornalista alle prime armi allora. Non c’erano i tablet e i miei appunti finirono tra le pagine di un bloc-notes.

Ritornarci dopo tutto questo tempo mi ha convinto ancora una volta che qui non si viene per denudare la vanità e la goffaggine del turista comune, ma per saccheggiare la memoria storica che ogni viaggiatore che si rispetti dovrebbe portarsi via dalla capitale francese.
Si beve una coppa di champagne e si sente aleggiare lo spirito di Edith Piaf; si scorre lo sguardo lungo le mura e sembra che fuori ci sia un lungo flashback su più di un secolo di storia cittadina: dai bombardamenti tedeschi del ’18 alla sommossa contro la corruzione parlamentare del ’34; dall’arrivo degli Alleati del ’44 al Maggio francese del ’68.

L’idiozia comune dell’italiano medio associa il palco del Moulin Rouge al cabaret fatto di tette e culi. Siamo a Parigi, non in Italia, lontani dalla volgarità che ha fatto delle “veline” le piccole stellette della scena comune.
Dopo più di un secolo, il famoso locale di Pigalle sa darci ancora una lezione di stile. Si possono mettere in scena ancora spettacoli come Féerie, in cui un bel corpo femminile, tra stile, brio, musica e coreografie, può soccorrere la memoria. Il miglior modo per respirare l’atmosfera magica è assosciare la sgonnellata di un balletto al rumore delle bombe; le fantasticherie di un artista di strada alle fantasie dei film muti di Mèlies; la melodia di vecchie e nuove canzoni all’urlo delle nuove generazioni francesi, che non ne possono più di politici incapaci.

Ci sono locali che passano di moda; ce ne sono parecchi che svendono la loro anima per stare a passo con i tempi. Il Moulin Rouge non ha fatto nulla di tutto questo. Resta un tempio, anzi no “il tempio”, perché ha capito che il rumore dei passi della storia si può ascoltare anche dentro il perimetro di un can-can indiavolato.

 Moulin Rouge

Il ritorno di Obama, da Superman a Peter Parker

Lo sciamano ci aveva azzeccato. Barack Obama è stato rieletto alla Casa Bianca. Il buongiorno dell’America intona “Working on a dream” di Bruce Springsteen e fa scivolare la speranza e la fede in questa preghiera ruggente, piuttosto che nelle intuizioni di uno stregone qualunque che vide Romney messo in un angolo.
I social network sono stati decisivi in questa campagna elettorale: hanno smascherato i numeri gonfiati di una  “rincorsa affannata” alla Casa Bianca; hanno permesso agli americani di spiaccicare le loro piccole storie quotidiane in faccia ai due candidati; hanno filtrato in un ring alternativo l’atteso duello televisivo che forse non ha più ragione di esistere; hanno allungato fino all’ultimo spicciolo il fund-raising elettorale.

Non hanno vinto né Democratici né Repubblicani, perchè l’America disillusa dalla recessione agghiacciante non pende più da nessuna parte. Ha vinto Barack Obama, il presidente che ha appeso al chiodo il mantello e la calzamaglia da supereroe, ammettando le sue colpe e rafforzando il coraggio che manca in questo momento all’Europa: tornare a puntare sul “Pubblico”.

Passata la baraonda elettorale però, gli americani dovranno convincersi che il Presidente degli USA non è più il Superman dai superpoteri stratosferici. In questo secondo mandato gli toccherà essere Peter Parker, il volto umano dell’Uomo Ragno di Stan Lee, perchè “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. E adesso abbiamo la certezza che la “sedia vuota”, a cui si è rivolto Clint Eastwood nella folcloristica sceneggiata repubblicana, era già occupata da Peter Parker, l’alter ego a fumetti del neo vincitore.

Barzelletta all’italiana alla Fiat di Pomigliano d’Arco

L’Italia è un terreno fertile per aggiornare un barzellettiere. Ahimè, se fosse vivo Gino Bramieri ne inventerebbe una garbata da dedicare al braccio di ferro Fiat-Fiom nello stabilimento di Pomigliano D’Arco. Un altro colpo basso nella stagione grigia per la Fiat di Marchionne, che non può succhiare più finanziamenti statali: i 19 operai reintegrati da Fiom sul posto di lavoro sono compensati da Fiat con altri 19 licenziamenti. La Procura apre un’indagine e una nuova bufera si abbatte nella cittadina alla periferia di Napoli in pieno decadimento: invivibile, sporca, vittima di un piano di viabilità che la rende impraticabile, per non parlare delle strisce blu di cui è stata tappezzata ovunque.

La Pomigliano lustrata degli anni ’80 è roba di tempi andati e lo sa bene pure il sindaco della vecchia guardia socialista che strizza l’occhio alle scelte dell’imperatore Fiat. Morale della favola: Marchionne, teniamocelo buono. Meglio 19 famiglie in mezzo alla strada che rischiare di fermare una volta per tutte la produzione di Pomigliano d’Arco e seguire le sorti di Termini Imerese. Dall’altra parte della barricata, sul filone di una sceneggiutura alla Peppone e Don Camillo, c’è il parroco di frontiera don Peppino Gambardella che chiede “un equilibrio tra capitale economico ed umano”. Scusate, ma i preti non dovevano starsene buoni buoni a dare lezioncine di catechismo dagli altari? Voce fuori dal coro di una diocesi conservatrice come quella di Nola, il parroco della chiesa di San Felice non ne vuole sapere di farsi gli affari suoi e continua la battaglia al fianco delle famiglie degli operai di Pomigliano con questo slogan: “Il lavoro è un diritto di tutti. Quando manca, bisogna spartirlo in parti uguali. Questa si chiama solidarietà”.

Tornando al nostro barzellettiere. A chi spetterebbe di scivolare sulla buccia di banana per far scattare la risata convulsa come in ogni barzelletta che si rispetti? Non sempre accade che funzioni il meccanismo della risata. Questa volta si tratta solo dell’ennesimo ricatto da “riso amaro” e dei mutamenti tropicali del mercato del lavoro del Belpaese.

  Fiat di Pomigliano: Petizione Anti Fiom

  Procura in campo per 19 licenziamenti

Il Belpaese titolato: Prefetto, dottò, ingegnere?

Una volta a prendersi a zuffa erano il parroco e il sindaco. Anche senza stare per forza dalla parte di uno dei due, il Peppone e Don Camillo di Guareschi facevano straripare la simpatia. La settimana scorsa si sono presi a zuffa un prefetto e un prete di frontiera perché “il don” si era permesso di chiamare una “prefetta” – pardon, “un prefetto donna” – con il titolo di “signora”.
I social network sono stati al gioco, hanno preso le difese del parroco bastonato e così abbiamo avuto ancora materia di discussione “a fil di rete”. E’ arrivato l’happy end: pace fatta tra il prefetto di Napoli Andrea De Martino e il parroco di Caivano don Maurizio Particiello

Forse ha ragione Roberto Saviano a scrivere “i cafoni cambiano, i potenti no”. E quando si tratta di buone maniere, mi capita di sentire le vicende strampalate: dal funzionario pubblico, incazzato nero se lo chiamano “signore” al posto di “dottore”, al militare zeppo di medaglie, pronto a farti finire sotto processo se scambi un colonnello per un capitano.

Al di là di quanto valga un titolo in momenti istituzionali, è chiaro che il Belpaese titolato si senta più a suo agio. Fino a questo momento il governo Monti non vi ha applicato nessuna tassa. E sono convinto che se li tassassero, “i titoli blasonati”, anche nel mio Sud dove su citofoni privati e campanelli delle porte abbondano i “dott.”, “ing.”, “prof.”, “cav.”, sparirebbero da un giorno all’altro. Persino quelli fuori posto incisi sulle lapidi del camposanto.

Torniamo al Peppone e Don Camillo di Guareschi. Ci hanno dato una gran bella lezione di umilità e saggezza: riconoscere dalla personalità e dal rispetto reciproco lo spessore dei propri ruoli  e non dal bigliettino da visita.

  I cafoni cambiano, i potenti no!

Cartolina da Torino: Il “razzismo” di un cronista e “la puzza dei napoletani”

I social network lo hanno linciato, l’azienda in cui lavora si è limitata a sospenderlo. Giampiero Amandola era un giornalista anonimo fino alla settimana scorsa. E’ riuscito finalmente a guadagnarsi un pizzico di celebrità, firmando un servizio “razzista” per il Tg3 Piemonte in occasione della partita Juve-Napoli di sabato scorso. Nel mirino non c’erano gli extracomunitari o i vucumprà, ma coloro che dagli anni’ 50 del secolo scorso hanno dato al capoluogo piemontese, assieme agli altri meridionali, la più grande forza lavoro dal secondo dopoguerra ad oggi: i napoletani.

“I napoletani che puzzano” sembra un vecchio slogan stampato sui volantini anonimi lasciati all’entrata della fabbrica che produceva le automobiline del Belpaese del Boom. L’urlo e le definizioni della rete bastano e avanzano per sintetizzare la meschinità di Amandola e l’accaduto non merita neanche di essere commentato.
Tuttavia, bisognerebbe fare un passo indietro e capire come possa accadere che vada in onda sul Servizio Pubblico televisivo marciume di una tale portata. E’ legittimo chiedersi, senza per forza fare il mestiere di giornalista: Chi ha dato il benestare per mandare in onda il servizio? Se fosse accaduto all’epoca della lottizzazione RAI del Pentapartito sarebbe scoccata la bufera: Democristiani e socialisti  con il dito puntato contro i comunisti che occupavano il suolo del terzo canale.

Se ciò accadesse in Gran Bretagna, nel tempio della BBC, vedremmo “il cronista d’assalto” sbattuto fuori dalla porta con una lettera di “licenziamento” tra le gambe. Ahimé, siamo in Italia, dove riusciamo a far passare per “un servizio giornalistico di colore” qualcos’altro.

I tifosi che sono stati al gioco, dovrebbero farsi raccontare dai genitori e dai nonni che “i napoletani puzzavano” quando uscivano dalle fabbriche di Torino. Di quell’odore ne andavano orgogliosi perchè, rincasando, potevano guardare negli occhi mogli e figli con la dignità di chi conosce i sacrifici e lo sfinimento della fatica.
Chi ha lanciato invece la scialba provocazione, dovrebbe imparare a memoria un’affermazione di Elsa Morante, che in questi dieci anni in cui vivo lontano da Napoli, recito tutti i santi giorni mentre mi guardo allo specchio e mi sento orgoglioso di essere stato partorito dalla mia terra: “Grande civiltà di Napoli: la città più civile del mondo. La vera regina delle città, la più signorile, la più nobile. La sola vera metropoli italiana”.

 

  Juve-Napoli, Rai sospende giornalista Tg Piemonte