Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

No, non è finita: L’altro striscione per Pasquale Romano

Sabato sera il Napoli ha incassato la sconfitta della Juventus. Avremmo dovuto portare fuori dal campo di Torino l’ultima parola di Mazzarri: “Non è finita”. Avremmo dovuta spruzzarla su uno striscione e appenderlo nel punto dove è stato trucidato Pasquale Romano, ucciso per sbaglio dalla camorra nella faida di Scampia.
Mentre le immagini del match più atteso di questo inizio di campionato passavano sui maxi schermi allestiti nei vicoli di Napoli, saranno stati in tanti a dedicare un pensiero a Lino, che doveva essere pure lui da qualche parte a fare il tifo per il suo Napoli.

Nell’esclamazione dell’allenatore del Napoli c’è la verità che vale nel gioco come nella vita: la singola sconfitta non conta se all’urlo emotivo e rabbioso sostituiamo la riflessione. Che la rabbia per la morte di Pasquale Romano non resti “urlo da megafono” tra le fila di una fiaccolata come è accaduto per le altre vittime innocenti della camorra. Il quartiere di Forcella ricorda ancora la piccola Annalisa Durante, un altro angelo caduto in volo sotto la mano spietata dei killer.

Lo scrittore Roberto Saviano ha manifestato apertamente la sua indignazione dalle pagine di La Repubblica: “Con quel ragazzo ucciso a Napoli è morta anche la democrazia. Ignorato dal governo che non si è presentato ai suoi funerali, in un’Italia che non si indigna più”.
Tenendo da parte i cliché che fanno di Napoli la landa desolata della malavita e dei criminali, dobbiamo interrogarci sul senso di ricominciare una nuova settimana facendo finta di niente. Sarebbe mostruoso lasciare la morte di Pasquale Romano tra le braccia del cinismo, che permette a un fatto di cronaca qualunque di aumentare le vendite di un giornale.

Sarebbe stato sportivo e umano sentire dentro e fuori lo stadio di Torino un coro di voci per Pasquale Romano, invece del brutale razzismo che riapre polemica per il solito cliché.

No, non è finita.

  Razzismo da tifoso

  L’articolo di Roberto Saviano

A scuola di cattivo gusto con le “donne piccanti” di Ryan Air

Qualche settimana fa il Ministro del Commercio svedese aveva dichiarato che “le donne non possono essere cancellate dalla società”. Si riferiva alla scelta discutibile di Ikea di togliere le donne dal catalogo in Arabia Saudita. Ci sono vari modi di colpire il gentile sesso. Lo facciamo anche noi, nella frenetica quotidianità, quando allunghiamo quell’occhiata sconcia con l’irremovibile sospetto del maschio arrapato.

C’è un altro modo di “ridimensionare” il valore delle donne nella società. Ce lo ha insegnato Ryan Air in questi giorni, con uno stralcio di volgarità che può rendere persino un irlandese un gran cafone. E il colosso dei voli low cost non può darci alcuna lezione in termini di buone maniere. Poco tempo fa l’imperdonabile gaffe dell’annuncio su volo per il capoluogo pugliese: “Benvenuti a Bari, la città della Mafia e di San Nicola”. Adesso invece tornano le hostess “in bikini”, “le donne piccanti”, con lo scopo benefico sotto “il sex-appeal”. Pare che le assistenti di volo di Ryan Air facciano pure a gara per apparire sul calendario che le rende “modelle per un giorno”. Pardon, c’è sempre la scusa della solidarietà.

Il banner sul sito italiano insinua il solito pregiudizio d’oltremanica: Mica siamo solo il Belpaese delle veline volgari, che hanno mandato a far benedire le lotte dei movimenti femministi in Italia?

Che senso ha un sequel di “Dallas”? Forse meglio un prequel…

Torna Dallas, di martedì e su Canale 5. Per la generazione 2.0 rappresenta forse solo la città dove assassinarono John Kennedy; per le nostre mamme invece è il titolo di uno dei serial televisivi più famosi al mondo. Spopolò negli anni ’80 e si contese con l’altra saga, Dinasty, lo scettro del prime time.

Torna il malefico J.R., interpretato dall’impeccabile Larry Hagman, ma ormai i tempi sono cambiati per loro come per noi. Torna lo stesso giorno, proprio di martedì come allora, ma in una tv che affoga nell’ingordigia e nello spaesamento del digitale terrestre. L’America degli Ewing, sciabordante dal tubo catodico, rifletteva l’irrefrenabile rampantismo del repubblicano hollywoodiano Ronald Reagan.
Quell’America è roba da libri di storia ormai: siamo in piena recessione, la classe media è stata spazzata via e il Presidente dalla pelle nera, icona del “New American Dream, sta rincorrendo con il fiatone il rivale repubblicano, pronto a scippargli il trono alla Casa Bianca tra meno di un mese.

Il Southfork Ranch di Dallas, location del serial, che ho visitato nel 2005, si è trasformato in un mini resort per cerimonie e meeting, nonché meta di pellegrinaggio per i più fanatici. I curiosoni, attratti dalla mega piscina in cui Bob e Pamela si tuffavano, si sono dovuti ricredere. Tanto rumore per nulla. Si trattava di piccola pozzanghera nel cemento, simile alla piscina gonfiabile della mia vicina di casa.

Nelle nuove puntate la famiglia Ewing è quasi decimata e dei nuovi rampolli forse non ce ne fregherà più di tanto. Forse più di un sequel, sarebbe stato proficuo scrivere e mandare in onda un “prequel”, per capire come i petrolieri più famosi del piccolo schermo yankee fossero arrivati al potere e con quali appoggi. Avremmo riletto l’America degli anni ’70, flagellata dai traumi post-Vietnam, dando una bella lezione anche all’oratore Clint Eastwood. Il monologo della sedia vuota, inscenato alla Convention Repubblicana, avrebbe dovuto dedicarlo a Richard Nixon. E un prequel di “Dallas” gli avrebbe dato indicazioni precise.

Breakfast al McCafè di Porta Romana: Quando lo staff fa la differenza

Quando si va a bere un caffè in un franchising, non è come andare al bar sotto casa. Pertanto, il gadget può pure starci. In questo periodo ad esempio il McCafè di McDonald’s propone una raccolta punti per un mini set di tazzine da caffè.
L’omaggio può attirare, ma non valorizza una location in particolare, perché in questo caso a far la differenza ci pensa lo staff. Ci affezioniamo al barista simpatico, perché non potremmo farlo anche con quello di un McCafè?

Il mio cornetto & cappuccino mattutino l’ho dirottato al “solito posto”, in un McCafè di Milano. E ad attirami lì non è né la raccolta punti né la posizione comoda – fronteggia la fermata metro di Porta Romana – ma la simpatica combriccola che ci lavora. Ogni mattina gestiscono con garbo e professionalità una coda di clienti, inclusi tanti stranieri, ai quali sanno regalare anche un bel sorriso. Loro non ci fanno caso, ma io in coda, con la scusa di sbirciare il mio Time, li osservo: Fernanda con il suo accento partenopeo mi riporta alle mie colazioni a Napoli; Massimo è lì alla cassa beato tra le donne; Erika, appassionata sfegatata di Biagio Antonacci, sa già che sono allergico al cappuccino troppo schiumoso; Katia lascia la sua firma con uno spruzzo di cacao.

Quando mi siedo a godermi la colazione, mi sembra di essere finito nella vecchia sitcom americana Alice in cui, alla tavola calda di Mel, a dar gusto al cafferino americano erano le storie dello staff che vi lavorava. A furia di fare file e bere cappuccini, con alcuni di loro condivido via social pezzetti della mia quotidianità.
Questo per dire che con me il marketing cervellotico farebbe un buco nell’acqua, se la mattina al McCafè di Porta Romana non trovassi più Fernanda, Massimo, Erika, Katia e gli altri dell’allegra brigata. Grazie a loro mi sembra di rivivere la mia traversata di settemila chilometri in autobus attraverso gli USA: raccoglievo storie con la scusa di mettere qualcosa sotto i denti. Queste storie invece sono tutte italiane e mi danno il buongiorno nel verso giusto.

  Alice (CBS TV, 1976-1985)

Parole di rabbia: Dieci anni senza Pierangelo Bertoli

L’Italia ha bisogno di anniversari per offuscare la lucida smemoratezza che la rende insopportabile. Le mie sono “parole di rabbia” oggi, in una puntualità che assomiglia a quella di un orologio svizzero. Sono dieci anni esatti senza Pierangelo Bertoli, uno dei cantautori più dimenticati dal Belpaese. Al diavolo gli anniversari, le belle parole dell’Italietta che storse il naso quando vide “il poeta musicista” in carrozzella al Festival di Sanremo, in contrasto con i filantropi dell’estetica e delle veline dell’Ariston. I più cafoni pensarono che il duetto con i Tazenda fosse un esordio; i più arguti si commossero a rivederlo, perchè sapevano la lunga strada discografica di Periangelo Bertoli.

Nei dieci anni senza il cantautore di Sassuolo, l’Italia non è cambiata. Continua a mentire, ad essere più corrotta di prima. Bertoli lo urlò a squarciagola venti anni fa, con “Italia d’oro”, pochi mesi prima che annegassimo nel letamaio di Tangentopoli. Intanto gli intellettuali di carta pesta si ostinavano a politicizzare musica e canzoni: Fabrizio De Andrè era di Sinistra; Lucio Battisti era di Destra. Il pregiudizio è la malattia cronica del Belpaese, incapace nel tempo debito di valorizzare – tranne qualche rara eccezione – colui che seminò senza fronzoli la ballata folk nella terra modenese, che lo aveva allevato e nutrito.
Pierangelo Bertoli aveva capito che la canzone, per restare “popolare”, non dovesse essere “musica leggera”, ma entrare nel cuore della gente con uno stile intimo. Bertoli impastò storie di vita vissuta e paesaggi sfuggiti alle nostre distrazioni; riabilitò riflessioni sociali sfuggite dal qualunquismo degli anni del riflusso; scaraventò “a muso duro” la verità in faccia ai bugiardi per cui i deboli, gli emarginati, gli ultimi potessero essere gettati nel fuoco del dimenticatoio. Il coro di voci amiche che lo ha ricordato a Campo Volo lo scorso 22 settembre impugni una promessa: incidere nel prossimo album una canzone di Bertoli per far conoscere il suo verbo tra le giovani generazioni.

Venticinque anni fa, in una sera d’inverno, giravo per Napoli con cinquemila lire in tasca. Le spesi tutte per acquistare un vecchio disco di Bertoli: l’Album. Lo aprii, c’erano foto in bianco e nero di lui assieme alla sua famiglia. Mi venne voglia di marinare la scuola, fuggire a Sassuolo, bussare al campanello e farmi raccontare altre storie, come quelle infilate in quel vinile del 1981. Non l’ho mai fatto. Voglio farlo. Restare in silenzio a casa sua e farmi raccontare dai figli il significato di aver avuto un papà straordinario.

In questa notte guerriera, rispunterà la luna dal monte. E’ la luna di Pierangelo, che continua a farci sognare e sperare.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=PtQuHFJkYAM]

50 anni con i Beatles oggi: Perchè un minorenne scappò a Liverpool

Non c’è nessuna icona della musica contemporanea che sia legata ai luoghi natali come i Beatles. In giro ci sono tante città-santuario, come la Graceland di Elvis Presley, ma non fanno altro che imbalsamare il mito. Per Liverpool invece è tutt’altra storia: quei posti sono vivi, Penny Lane o Strawberry Fields concimano nel territorio urbano la working-class di un tempo, tra dock e “ red bricks on the wall”.
Almeno lo erano fino a vent’anni fa, prima dell’invasione dei pellegrini del low cost di Ryan-air, prima che il comune optasse per la scelta infelice di cambiare alcune strade, di abbattere edifici fatiscenti, di dedicare ai Beatles tributi kitch qui e lì.

Io mi sono perso invece proprio tra quegli edifici fatiscenti, nell’estate del 1990, ancora minorenne, alla ricerca di posti e persone che avevano ruotato attorno ai quattro ragazzotti di provincia anglosassone: dalla vicina di casa di Paul alla birra con Williams, il primo manager; dall’abbraccio con un fantomatico zio di John alla passeggiata assieme ad una donna, figlia di una Anne che in gioventù aveva pomiciato con Pete Best.
Mezzo secolo fa, proprio oggi con il singolo “Love me do”, i Beatles entrarono nella storia personale di più generazioni; venticinque anni fa bussarono alla porta della mia adolescenza: ci sono entrati, ci sono rimasti per sempre, con costanza.

Sono stati la colonna sonora di gran parte della mia vita, ma non mi sono bastate le canzoni, gli album, i cimeli racolti nel tempo. Volevo guardarli da vicino, da giovanotti grezzi di periferia, prima che la Londra di Abbey Road li risucchiasse, trasformandoli in quattro baronetti metropolitani e sofisticati.
Mi accaparrai una mappa e scovai una cinquantina di posti, anche minori, che spesso parlavano più di quanto magari facessero Menlove avenue o il Cavern Club: una scalinata dove John e George si era fermati; il letto di un ospedale pubblico dov’era nato Ringo; un incrocio qualunque che aveva strappato via a John la madre Julia.

Le canzoni dei Beatles sono venute prima e dopo. Giusto in mezzo però c’è Liverpool, quella di vent’anni fa, che aveva raccontato un miracolo avvenuto nella Gran Bretagna del secondo dopo guerra: la classe operaria andò in paradiso con quattro sbarbatelli, cresciuti nell’Inghilterra “cafona”, che mischiarono sogni, poesia e musica come se fosse un gran bel gioco, destinato per volontà degli dei a non finire mai.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_xuMwfUqJJM]

Cartolina da Seyne-sur-Mer: Michel è partito senza il bicchiere di Pastis

Ricordo un sabato mattina d’estate, al mercato. Il brusio delle persone, lo schiamazzo dei bambini, i venditori ambulanti che gridavano “Bon prix, bon prix!”. Sembrava di essere a casa, nel mio Sud. Invece ero in Francia, a la Seyne-sur Mer, un paesotto avvinghiato tra Provenza e Costa Azzurra. Gente semplice, alla buona, tanti emigranti sbarcati dal Sud dell’Italia.
Passai davanti a una brasserie. Mi chiamavano. Erano Michel e Vincenzo, i miei zii. Il primo un emigrante italiano; il secondo un francese di quelle parti. Si conobbero negli anni sessanta, diventarono cognati e anche due buoni amici.

Mi offrirono da bere. Mancava ancora un bel pezzo all’ora di pranzo e mi fecero ubriacare con il Pastis, l’irrinunciabile aperitivo alcolico dal profumo d’anice che scioglie Marsiglia e le sue strade sotto il giaccone di un bicchiere. L’anice del Pastis si confondeva con l’odore del pesce fritto venduto in strada e con la salsedine accantonata dal porticciolo poco distante. Michel era un tipo alla buona, alla mano: il suo francese aveva l’inflessione marsigliese; il suo sorriso quello di uomo del Sud che si accontentava di cose semplici.

Michel e Vincenzo mi raccontarono di quando se ne andavano in campagna, laggiù nel cuore della Provenza, a fiondarsi sotto un albero, a bere vino. Condividevano i colori del loro Sud, quello che Nino Ferrer dipinse nella sua splendida canzone.
Michel se n’è andato ed ha lasciato mezzo vuoto il suo bicchiere di Pastis. L’altra parte del bicchiere la riempio io, allungandola con il ricordo di un sabato d’estate in cui, assieme a zio Michel, francesizzai la mia anima meridionale.

[youtube=http://youtu.be/RAKgO2e6rME]

Huffington Post Italia: Arianna e Lucia come Thelma e Louise?

Alla signora nella foto ho chiesto prima dello scatto: “In America chi la spunterà, Obama o Romney?”. Mi ha sorriso come per dire “segua l’Huffington Post”. Arianna Huffington, che si è già rintanata nella storia dei new media per aver creato sette anni fa il più popolare sito all news d’olteoceano, è una donna di spirito che sa come intrattenere una platea.
Certo che qui non eravamo né ad una Convention Democratica né Repubblicana – grazie a Dio abbiamo scampato le pièce teatrali di Bill Clinton e Clint Eastwood – ma alla presentazione dell’edizione italiana di Huffington Post.

Arianna ha lanciato una battuta spiritosa che sembra radiografare alla perfezione il Belpaese, di cui l’edizione italiana diretta da Lucia Annunziata dovrebbe raccontare le gesta: “Il matrimonio dura una volta, il divorzio sempre”. E tutto sommato in Italia siamo un Belpaese di “divorziati”, perché le memorie storiche sballottano da una sponda all’altra della barricata.
Avremmo immaginato mai una joint venture con al timone due donne così diverse tra loro? L’antiamericana Lucia dalle pagine del Manifesto di Pintor nel bel mezzo degli anni Settanta e la greca Arianna, adottata da New York nel 1980, con i suoi flirt liberal e repubblicani.

I tempi cambiano e il business dell’informazione fa ritrovare il “bel tempo delle diversità”. Sì perché fare informazione non è solo una missione, spartita nell’epoca social tra giornalisti, blogger e utenti, ma anche un giro d’affari. Ce lo ricorda la Manzoni Adversiting che gestisce gli spazi pubblicitari per il Gruppo l’Espresso, di cui l’HuffPost italiano è figlio adottivo: senza i soldi degli introiti pubblicitari non si cantano messe.

La partenza è incoraggiante sia dal punto di vista dei numeri (300 mila accessi nel primo giorno) sia in termini di baruffe chiozzotte all’italiana: Monti fa l’offeso perchè l’intervista a Berlusconi, spiattellata nel primo giorno di vita di HuffPost Italia, ha rotto le uova nel paniere nel rapporto delicato con la permalosa cancelliera Merkel. Lucia (Annunziata) e Arianna (Huffington) sono confidenti nel progetto italiano. E se fossero loro le nuove Thelma & Louise?

Quando una sposa cerca una stella…

Su una spiaggia del Sud, un uomo era accovacciato in riva al mare. Aveva lo sguardo puntato all’orizzonte. Accanto a lui c’era una bimba dagli occhi chiari che faceva castelli di sabbia. Dal mare uscì una voce: “Cosa vorresti per la tua piccola quando crescerà?”.
L’uomo, alzando gli occhi, rispose: “Vorrei fosse felice per tutta la vita”. E la voce replicò: ” Scegli una stella. Veglierà sempre su di lei, quella sarà il tuo dono”. L’uomo sbirciò in cielo e ne scelse una che cascava a pelo sulla linea dell’orizzonte.

Molti anni dopo lo sposo prese per mano la sua sposa* e la portò in riva al mare, su una spiaggia del Sud. La sposa allargò le narici e respirò l’odore del mare. Accanto a lei c’era un piccolo castello di sabbia, ma non lo riconobbe. Incisa nella sabbia c’era una data e lei di chiese come avesse fatto quel castello a restare intatto per così tanto tempo. Dal mare udì una voce: “Questo castello di sabbia è il tuo, dentro vi erano custoditi i tuoi sogni e la luce di quella stella lo ha protetto”.
La luce della stella lasciò due orme di mani sulla sabbia. Erano le stesse mani che da bambina la facevano volare; le stesse mani che l’avevano allevata; le stesse mani che le avevano indicato la via del cuore. Fu allora che la sposa si ricordò e due lacrime scivolarono sulla sabbia. Germogliarono tanti fiori in riva al mare.

Da quel giorno si dice che ogni volta una sposa è sulla spiaggia a cercare una stella, è quella che le ha dedicato il suo papà per restarle accanto nei giorni speciali che la renderanno moglie e mamma. E da quel giorno le fiabe non cominciano più con “c’era una volta”, ma si chiudono come se fossero una smisurata preghiera: Amen.

* Dedicato a Paolo e Adele, sposi il 22 settembre 2012.

Dynamo Camp, l’alternativa intelligente all’inutile bomboniera!

Back in Town Party: Ritorno a California Bakery

Un paio d’anni fa, in uno dei miei viaggi “metropolitani”, incontrai Caroline. Me la presentarono. Doveva essere un’intervista, ma si trasformò in una lunga chiacchierata. Mi raccontò della sua California Bakery, del suo sogno assieme al marito Marco di creare uno spazio che andasse al di là di un food place. Back Town in Party mi ha riportato nella nuova California Bakery di via Tortona a Milano e allora mi sono detto: O la va, o la spacca. Caroline era davvero testarda: voleva declinare il tempio di piazza S. Eustorgio in più quartieri di Milano e ce l’ha fatta; voleva ritagliare un mini cartellone musicale, coinvolgendo giovani emergenti e c’è riuscita; aveva capito che la socialità viaggiava in rete alla velocità della luce e fece bene a fidarsi di un gruppo di neolaureati che, tra Twitter e Facebook, avrebbero raccontato al popolo social tutto questo ben di Dio.

California Bakery mi riporta alla mia traversata on the road di settemila chilometri attraverso gli Stati Uniti, tra cheese cake, muffin e cookies. L’altra America, che non era quella dei fast food, ma quella che sfornava pane caldo come le canzoni di Bob Dylan; l’altra America, che non era quella della grande abbuffata, ma quella che ti serviva un hamburger o un hotdog con il garbo che hanno fatto di Barack Obama il Presidente della multietnicità; l’altra America, che non era fatta di cibo spazzatura, ma di vecchi sapori che riportavano il fremito nostalgico della tv di “Happy Days” nel cinema di “American Graffiti”.

Caroline mi fa venire in mente Jason e Brian che,  a Phoenix nella mia adorata Arizona, rimettono a nuovo vecchie auto yankee  di mezzo secolo fa. In una Milano, afflitta dalla crisi e dall’impoverimento di idee, questo entusiasmo è prezioso, perchè è capace di restituire un’anima anche ad una vecchia “carcassa”. Ho indossato un grembiule e mi sono imboscato tra lo staff di California Bakery. Qualcuno ci è cascato e mi ha chiesto da bere. Ed io sono stato al gioco così come quando mi sono messo a scarabocchiare con un pennarello indelebile sulle mattonelle bianche. Erano le stesse che le nostre nonne avevano in cucina, quando far da mangiare era anche passione. Su una mattonella del wall hanno scritto così: “Un altro posto dove sentirsi a casa. Alice.”

  California Bakery on Twitter