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Vincenzo e l’ultima ricetta del medico della mutua

Il medico della mutua dalle mie parti era destinato a diventare un amico di famiglia. Mica è come al di là del Po che ti danno l’orario, giusto il tempo di visitarti con la ricetta alla mano e poi chi si è visto si è visto? Bisogna ottimizzare i tempi mi ripetono continuamente. Dal mio medico al Sud d’Italia c’era sempre coda: diciamoci la verità, ci scappava pure uno scambio di opinioni e questo rendeva più “umano” il rapporto tra l’eloquenza della medicina e i pazienti fifoni come il sottoscritto. Il dottor Vincenzo Bianco è entrato nella mia vita nei giorni caldi della mia adolescenza. In un certo senso ha seguito buona parte delle mie bravate finché, in una mattina di otto anni fa, lo hanno depennato dalla scheda sanitaria e me ne hanno assegnato uno dove abito adesso.
Nessuno lo ha mai cancellato, perché per mia fortuna non assomigliava né al Guido Tersilli di Alberto Sordi né al Nick Riviera dei Simpson. Lo rivedo passare a casa mia nel primo pomeriggio, per la visita domiciliare,  nel suo cappotto marrone e l’inseparabile borsa, senza essersi ancora ritirato o aver pranzato, già pronto per correre allo studio. Io tra me e me mi dicevo: “Come mai un medico così scrupoloso, preciso e appassionato non fa una bella scalata ai piani più alti della Sanità?”. Una persona onesta come Vincenzo non ce la vedevo proprio a fare il Tarzan nella giungla della mala Sanità locale, tra le grinfie dei feudatari potenti della vecchia Balena Bianca, nelle cui mani era deposto il destino tra salti di poltrone, trasferimenti e compagnia bella. Sbarcando nel suo studio, lo trovavo lì alla scrivania, con quell’umiltà e timidezza nascosta dietro gli occhiali. Mi rammentava Charles Bovary, il personaggio di Flaubert che però di professione faceva il veterinario. Vincenzo era uno che difendeva le strutture pubbliche, perché nel cuore era in prima linea al fianco del paziente, con le dovute distanze da chi si era tuffato a capofitto nel feroce business dello “studio privato”.
Tra qualche giorno Vincenzo lascia i pazienti per intraprendere una nuova sfida professionale. Ogni tanto, nel nostro bizzarro Paese, i riconoscimenti arrivano pure a chi fa il proprio lavoro con coerenza e determinazione senza troppi rumori.  Mi piacerebbe che dedicasse “l’ultima ricetta” ai genitori, alla moglie e ai figli, perchè un figlio, un marito o un papà “col camice bianco” è una grande gioia dopo una vita spesa a favore della comunità. E anche per un paziente “anarchico” come il sottoscritto che, mescolati ai ricordi furfanti della provincia, si è portato via l’ultima polaroid di quel medico della mutua del Sud Italia. E forse in quell’ultima ricetta ci sarà anche un po’ di me.

Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più!

Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più perché non capirebbe. Tutti hanno pensato che quel personaggio buffo, nato nel bel mezzo degli anni settanta, fosse stato un capriccio infantile o un passatempo di chi aveva vissuto la gloria del varietà. Nel giorno in cui si svolge il funerale della Mondaini, distraete il malinconico pagliaccio con quelle canzoncine che contagiarono la tv dei ragazzi e i siparietti memorabili che consacrarono l’altra faccia della “dama burlona” dello spettacolo italiano. Sbirulino non ha mai capito chi si nascondesse dietro quel trucco perché hanno provato a convincerlo che il suo “esistere” fosse innocua robetta per far felici i bambini.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più, perché scivolerebbe con prepotenza dalla risata furfantesca alla profondità del dolore. Il “trucco” c’era, ma non si vedeva. Dietro la faccia del clown più famoso del piccolo schermo, si era assiepata l’anima di una donna, che aveva lasciato lustrini e paillette e messo nell’angolo l’egocentrismo della diva per indossare la maschera. Era la maschera a far evaporare il cliché del personaggio, apparentemente burlone, ma trafitto dal cinismo e dalla tragicità della vita.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più perché è l’idiozia umana a farci vedere quanto carnevalesca sia la morte. La donna con la maschera da clown, oggi è tornata ad essere bambina per sempre, come quelli della mia generazione che, col faccino infarinato e in po’ di trucco rubato alle nostre mamme, si sono interstaditi ad essere “Sbirulini” per un pomeriggio, restando prigionieri della bellezza e dello stupore.
Non dite a Sbirulino che Sandra (Mondaini) non c’è più, altrimenti lui smetterebbe di ridere e lei da lassù non si prenderebbe più gioco di noi,  che continuiamo a prenderci troppo sul serio, anche tra le righe di un elogio funebre.

Ancora tagli di posti di lavoro. Alitalia insegue la Fiat?

Continuiamo pure a far finta di niente, nascondendo la testa sotto il cuscino. Dopo esserci caricati di altre tasse per evitare il collasso di Alitalia, adesso veniamo a sapere per via traverse che la compagnia di bandiera mette a rischio altri 2 mila posti di lavoro. Se facciamo un rapido calcolo su come il mercato del lavoro sia finito sul precipizio nel Belpaese “spaccone”, i conti non tornano. E cioè quelli di chi urla che la recessione si passeggera, mentre, tra licenziamenti e casse integrazioni, potremmo fondare una vera e propria “disoccu-poli”. E di lavoro ce ne sarebbe a bizzeffe per i sindacati se facessero serie riflessioni, mentre i nostri politici sono impegnati a reclutare gli ultimi soldatini per far andare avanti l’armata Brancaleone.
Confindustria si tappa il naso e chi sente odore d bruciato è Sergio Marchionne, che ormai con la sua “sottoveste” politica detta le linee guida agli industriali italiani. Che in ballo ci siano le sorti di migliaia di famiglie dietro il tira e molla degli stabilimenti Fiat di Melfi e Pomigliano d’Arco, poco importa a chi un lavoro ce l’ha e si dondola sull’amaca tutta tricolore del “tirare a campare”.
Marchionne sa pure che il bello o il cattivo tempo – dipende dai punti di vista – dell’assistenzialismo statale a favore della Fabbrica Italiana Auto Torino fa parte dei capricci meteo del Belpaese di ieri. Così nelle giornate uggiose della globalizzazione, scrivere il nuovo Vangelo del Lavoratore non spetta più né ai sindacati né ai lavoratori stessi, bensì al numero uno di un brand (o di una macchina arruginita para-statale?) che con il suo diktat vuole stabilire quale sia il confine tra antichità e modernità. L’errore più grande è quello di accettare in silenzio una “Fiatizzazione” di tutte le industrie italiane, così come due secoli fa il processo di “Piemontizzazione” ci illuse di poter fare un’Italia, giovane e pure bella. Mentre Alitalia pensa che le soluzioni di un malessere sociale siano a Torino,  non sarebbe surreale se i migliaia di disoccupati in Italia si mettessero in coda ai precari della scuola e decidessero di cambiare mestiere. Tra otto anni il ministro Gelmini un posto in cattedra ce lo ha assicurato. Basta solo capire come impiegare il tempo fino ad allora!

Stefano di X Factor: “Le parole non contano, ma conta la musica!”

Qualche volta succede che “le parole non contano, ma conta la musica”. E’ una rarità che accada sotto i riflettori di un realty show. Le parole pronunciate da un balbuziente sono come pagine di un quaderno, strappate da suoni prolungati e riscritte da una ciurma di ripetizioni involontarie. Per diamine, lo avremmo avuto almeno una volta nella vita un amichetto affetto da questa “malattia della parola”! Vederlo lì in un angolo, emarginato dalla prepotenza degli altri compagni di giochi, ci stritolava il cuore.
La musica ha riscattato la parola e così l’esibizione di Stefano Filipponi nella seconda puntata di X Factor è stata una delle cose più emozionanti che la tv generalista ci abbia regalato negli ultimi tempi. Nell’interpretazione della dolcissima Quanto t’ho amato di Roberto Benigni, l’aspirante cantante di Macerata ha dimostrato che l’emotività può rimbalzare sui tecnicismi, mettendo a tacere chi come noi fa il difficile e l’arrogante mestiere di valutare un interprete o una canzone. Ha fatto bene il giudice Ruggeri a non pronunciarsi sulle imperfezioni, perché ogni commento sarebbe stato fuori luogo o sindacabile.
Stefano è riuscito a rincollare i pezzi di quel quaderno strappato in un canto che si è innalzato a “cantico”, con il supporto di un sobrio istrionismo che apparteneva ai grandi artisti circensi e da strada, e non di certo a questo equipaggio di buffoni che affolla il piccolo schermo nell’epoca del digitale terrestre. Quanto t’ho amato è una delle dichiarazioni più sincere da donare alla propria donna. Quel cantico non ha libertato Stefano Filipponi dalle sue balbuzie, ma noi, prigionieri di un paroliere che non sa più comunicare emozioni, perchè sottomesso alle dure leggi di un nuovo linguaggio: quello che ha fatto naufragare la semantica dell’anima dietro il rebus dell’apparire a qualunque costo.

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Stai con me, Sakineh!

Il passaparola su i social network, Facebook in testa, è stato un uragano: tutti solidali con Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio e aver ucciso il marito. La rete si muove alla velocità della luce e, intanto, da Teheran arriva una buona notizia. La condanna è stata sospesa e sarà sottoposta a revisione. Non dobbiamo abbassare la guardia, ma possiamo tirare un sospiro di sollievo. Sakineh è il personaggio-simbolo di una pratica mostruosa come la lapidazione, che in questo momento mette in pericolo la vita di tante altre donne. Sakineh è diventata un’icona e il taglio del suo viso senza velo, rimbalzato da una parte all’altra del pianeta, restituisce sobrietà e dignità all’universo femminile.
Noi, drogati da paillettes da rotocalco, ci stavamo convincendo che tutto si riducesse a letterine, subrettine, culi e tette rifatte. Abbiamo riscoperto la bellezza della donna, con Sakineh, lì nella penombra della sofferenza, sotto il velo del dolore. Come se poi spettasse a noi condannare – la pena di morte è la più grande offesa rivolta all’umanità – qualunque cosa ci sia in ballo, anche l’adulterio, punibile tra l’altro in Italia fino al 1968. Il peccato di aver amato un altro uomo, in una cultura che organizza le unioni matrimoniali come se fossero contratti, si imbriglia in una visione romantica e poetica di questa triste vicenda? Perlomeno mettiamo nero su bianco l’unica parola per cui vale la pena lottare: l’amore.
E allora come accenna quella dolce canzone che ti è stata dedicata, ti dico “Stai con me, Sakineh”. Lo so, è paradossale. Dovrei essere io a fare il contrario, ma non ne sono capace. Stai con me, Sakineh e rivelami il segreto che tutti hanno tentato di nascondermi da quando sono al mondo. Il tuo Dio è uguale al mio perché dove c’è amore non può esserci condanna, ma solo la certezza che la disperazione resiste tra gli scheletri dell’armadio, quelli occultati dalle nostre coscienze.

Diario di viaggio: i sussurri di Teresa tra le montagne della Valle Vigezzo

John Ruskin aveva ragione ad affermare che “le montagne sono il principio e la fine di ogni scenario naturale”. Chi viene da una città di mare, scivola sempre sulla stessa buccia di banalità e così tra un tuffo in acqua salata e un passeggiata in alta quota preferisce la prima ipotesi. Il mio mini viaggio on the road tra le montagne della Valle Vigezzo in Piemonte mi ha proposto un’altra alternativa per un intelligente uso del tempo libero: ritrovare il dialogo con la natura, lasciando che la pelle si raffreddi con un’immersione nell’acqua dolce di un lago alpino. Poi lo stomaco ci mette il suo con un piatto di gnocchi ossolani a Druogno; gli occhi si soffermano sulle facciate delle case pittoresche di Santa Maria Maggiore; la fantasia sosta a Malesco dove gli spazzacamini non sono né roba da fiabe per bambini né frullano soltanto sul filo della voce di Mary Poppins. Qui, infatti, nel primo fine settimana di settembre, si svolge da quasi trent’anni un raduno magico che li celebra!
La montagna, quando vuole ed ha voglia, sa lasciarti incontri casuali ed emozionanti. Teresa, l’anziana signora milanese, che da qualche anno trascorre le vacanze qui nella Valle Vigezzo. Ho condiviso con lei un piatto di pasta e melanzane mentre mi raccontava della sua Milano del dopoguerra, di quando il marito le portò a casa la prima lavatrice, delle figliole Laura e Rosanna che scorazzavano per casa, valorizzando la gioia di essere mamma. Ad un certo punto mi ha indicato una montagna e la ha associata al capo di una donna addormentata. A tavola mi hanno fatto cenno di non preoccuparmi perchè era l’avanzare dell’età a guidarla in uno slalom tra realtà e immaginazione. La sera a cena Teresa ha risposto a tono ad una mia battuta con la massima: “Quando il diavolo ti accarezza, vuole l’anima”. E’ la stessa frase che mia nonna Lucia mi ripeteva puntualmente nelle sere d’estate delle nostre vacanze. In quell’istante ho capito che Teresa era la più lucida tra tutti noi, che non aveva né bisogno di medicinali né di compassione, ma solo di amore perché la sua mente si faceva trasportare dai sussurri delle montagne. Chissà se la “donna addormentata” non fosse proprio nonna Lucia, con la sua chioma imbiancata. Chissà se le nuvole che osservava Teresa, a cui dava una forma e un nome, non sono le stesse che guardo io quando vago tra i miei pensieri. Dovremmo tornare a guardare al di là della superfice che ci circonda per non sottometterci alla “resistenza della quotidianità”, ma per mutare il nostro stato d’essere.
Prima di ripartire, non ho detto a Teresa che a me succede la stessa cosa. E se mi reputate un matto, per favore non rinchiudetemi im una casa di cura, ma riportatemi tre quelle montagne piemontesi da Teresa, mia nonna per un giorno, per condividere un altro piatto di pasta e melanzane e divagare con lei, ricordandoci che tutto è superfluo, a parte la nostra anima.

Diario di viaggio: ritorno sui Quartieri Spagnoli

Tornare da viaggiatore nella propria città a fine agosto non so se sia un privilegio o uno svantaggio. Da una parte paghi lo scotto di sentirti un girovago nella tua terra natia, ma dall’altra il tuo sguardo si posa su particolari che prima ti sfuggivano. Napoli è Napoli, ma recarsi su i quartieri Spagnoli è un modo come un altro per tracciare le origini. Certo che questa zona – nel XVI secolo diede non pochi grattacapi al vicerè Don Pedro di Toledo alla prese con malavita e prostituzione – resta una delle aree più seducenti del capoluogo campano. I buoni consigli di mia madre erano “non ti avventurare nei quartieri”, ma io nei primi anni ’90 percorrevo anche al buio via Montecalvario per arrivare a Galleria Toledo, dove mi aspettavano gli spettacoli di Annibale Ruccello, Enzo Moscato e Francesco Silvestri. Una volta ci sono finito per sbaglio pure con la mia prima auto, una 127 bianca, ed è stata un’impresa uscirne.
Ritornarci adesso ha avuto un valore diverso, ripercorrendo quelle strade che non ti capitavano mai sottomano, da via Speranzella fino all’arrampicata di via de Deo, che con disinvoltura volge lo sguardo verso il corso Vittorio Emanuele. Il terrore di tutti: attenzione che adesso arriva lo scippatore di turno! A me nessuno ha messo mai un dito addosso, sarà perché camuffo la mia parlata, sarà perché gioco a fare il pazzariello ambulante che stona vecchie canzoni napoletane. Anche qui le cose sono cambiate: diverse attività commerciali sono gestite da extra-comunitari, in giro ci sono pochi “femmenielli” e dai bassi spuntano gli sguardi spioni di donne di colore. Vincenzo è seduto sulla sua seggiola e fuma l’ultima sigaretta prima del pranzo: mi racconta dei sette figli e dei nipotini; degli sforzi fatti per tenerli lontani dalla malavita (il suo motto è “amico ‘e tutti, ma ‘a distanza ‘o mumento juste”); dei nuovi scugnizzi che rinunciano alle vacanze, fanno i fancazzisti e se ne vanno a giocare al Bingo nei pressi di piazza Carità; dei cinesi che hanno preso in pugno il controllo delle attività clandestine; degli affitti che sono arrivati alle stelle: “Dottò, e mmo mettene ‘a dieci nire dinto e fanne ‘e sorde”. E poi dopo, con aria sospettosa, mi chiede se sono un investigatore privato.
Io sorrido e la butto sull’ironia: “Don Vincé, se fossi un investigatore non sarei uno squattrinato”.  Mi guardo intorno, alzo la testa e mi soffermo sulle lenzuola stese, su i balconi, sulle finestre semichiuse, chiedendomi il perché lì sotto non ci sono mai capitato. Forse venti anni fa sarebbe stato diverso, avrei incontrato altra gente. Prendo una bottiglia d’acqua fredda da un fruttivendolo e da una radiolina una voce canta: “La paura di dividerci per niente, anche fermi volavamo con la mente”. Chiedo alla signora se si tratta di Gigi Finizio, cantante partenopeo molto seguito da quelle parti. E lei mi chiama l’esperta della famiglia, una ragazza prosperosa di una ventina d’anni, che mi rimprovera: “Vuje ‘e musica nun capite niente. Chiste è Natale Galletta, l’idolo mio. Jate ‘ncopp ‘a Youtub…”.  Così scivolando via, mi sono portato come souvenir il motivetto neomelodico di “Vivi”. E pensare che c’ero andato per prendermi qualcosa che credevo fosse mio, invece sono arrivato troppo tardi. Tutto cambia, ma per restare come prima.

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Diario di viaggio: la Corsica in “un dito”

Quando vai su un’isola, la traversata ha il suo perchè. In nave, per isolarti dal caos dei vacanzieri, basta incontrare la persona giusta: Lino, il genovese che sognò la Corsica. Lui, dopo tanti anni di lavoro passati al porto di Genova, ha comprato una casetta sull’isola francese e spesso se ne fugge lì con la deliziosa famigliola. Il tempo vola parlando della Genova di Faber e Tenco, delle delusioni della sua generazione, di pesto e farinata, di futuro incerto tra figli e nipoti. A Bastia Lino scompare in auto e per me inizia il viaggio avventuroso alla scoperta del Capo Corso, zaino in spalla e tenda.
Bastia è un misto tra Genova e Nizza, ma la città vecchia è così intrigante da farti perdere tra vicoli e vicoletti. Sentire un papà chiamare il figlio “Gennaro” ti incuriosisce: hai incrociato un Corso con amici a Napoli e quale miglior modo per siglare un patto d’alleanza, se non quello di mettere in mezzo il santo patrono partenopeo? Gli autobus in Corsica sono una rarità, ma il conducente è un tizio alla mano: viene dal “Continent” – così i Corsi chiamano i francesi – e fa l’autista da una vita. Seduta al tuo fianco c’è un’anziana signora che ti racconta la ua “jeunesse” andata in una casetta in riva al mare. Potrebbe essere il soggetto di una canzone da suggerire ai Muvrini, il gruppo musicale che trasfigura in note folk, tradizione e futuro.
Lontano dal chiasso del Belpaese, si resta rapiti della natura selvaggia del paesaggio, da queste spiagge isolate lungo la strada dove non ci sono bagnini, ombrelloni e lidi. Ci sei tu e l’immensità del mare; e non ci vuole tanto per capire che puoi fare a meno di internet, del telefono, dell’iPod, ma non puoi privarti dell’ebbrezza di assaggiatore vagabondo: formaggio locale, pane con le noci e una buona birra Pietra, tanto poi ci pensa il palato a fare il resto, ad indicarti la strada per vivere questo “dito” della Corsica. E vale la pena soffermarsi sui dettagli che la frenesia quotidiana ci sta scippando giorno dopo giorno: il grido del vento, i sussurri delle piogge estive, i cieli stellati che agguantano l’oscurità delle notti d’agosto, le strade deserte che ti fanno sentire un naufrago, metà Robinson Crousoe, metà Corto Maltese.
A Pietranera il mare si stropiccia sugli scogli; a Erbalonga le case diroccate ti spiano; a Porticciolo le discese sembrano gli scivoli che cercavamo da bambini; a Santa Severa le quattro anime che ci abitano entrano a far parte del tuo universo e ti dimostrano che i Corsi non sono così orsi come dicono; a Macinaggio le barche sono alla ricerca di acqua cristallina, quella innamorata della sabbia della spiaggia di Tamarone. L’aria da campeggio, quella al Santa Marina di Santa Severa, fa davvero bene perché ti riporta al minimalismo della vita, in tenda come un nomade, figlio delle intemperie, sottraendoti alle stupide preoccupazioni della vita metropolitana. C’è Freddy, che canta le canzoni di Carosone e Massimo Ranieri, e la sera ti prepara da mangiare: quando diventi grande hai la sensazione che nessuno si preoccupi più di te, mentre il viaggio ti restituisce la certezza che dovunque tu vada ci sarà sempre qualcuno a prendersi cura.
Poi ti improvvisi autostoppista e, da solo che eri, condividi questi giorni d’agosto con tante persone: dal livornese anarchico agli spagnoli che sognano l’indipendenza della Catalugna; dal grande costruttore di auto militari all’anonima coppia anziana; dal parigino, che in auto ti fa vedere i sorci verdi tra una curva e un’altra, al panettiere che ti sforna il pain au chocolat per le tue colazioni. E, quando stai per tornartene a casa e ti scivolano un paio di gocce salate sul viso, capisci che non si tratta né di sudore né di residui marini. Sono due lacrime invisibili che ti fanno tornare ai tempi in cui lasciavi i posti speciali delle vacanze della tua infanzia. “Speciali” perché erano le persone ad aver disegnato i contorni del tuo soggiorno. Gli altri torneranno abbronzati ad immergersi nella loro routine perché hanno fatto vacanza; tu invece non sarai più lo stesso perché hai fatto un viaggio. Un’isola come la Corsica può cambiarti, può fare da ponte nel sinuoso passaggio da vita ad esistenza. Ed io sono tornato ad esistere.

 

Il diario del blogger e giornalista Rosario Pipolo sul quotidiano francese Le Corse-Matin

Dopo 16 anni di attività giornalistica, condivido questo traguardo con tutti i miei lettori. Il quotidiano francese Le Corse-Matin pubblica il mio diario di viaggio in Corsica, il mio primo articolo scritto in francese. E il mio pensiero va ad un pezzo della mia famiglia che vive a Tolone nel Sud della Francia e alla memoria delle mie zie Santina e Lilina. Spero che anche gli angeli possano leggere il giornale…

L’ultima estate di Leopold, nona puntata

La fine di settembre si portò via l’estate, ma restituì tranquillità all’isola di Fehmarn. La casetta della famiglia di Beatrice era in centro, con vista mare, a pochi passi dall’hotel Ulysse. Beatrice non fece in tempo a mettere le chiavi nella porta quando sentì una mano appoggiarsi sulla spalla. “Mamma, cosa ci fai qui?”, sussultò voltandosi di scatto. “Sono venuta a portarti questa lettera. Te l’ha spedita Leopold Muller. Perchè non me ne hai parlato?”, rispose l’anziana signora.
“Mi avresti giudicata una sgualdrina – continuò Beatrice – perchè agli occhi nostri sei sempre stata la madre che si è sacrificata per la famiglia. E pensi che io non ti abbia vista piangere quando papà rincasava tardi e tu mandavi giù brutti rospi per amor nostro?”.
La signora von Bernstein abbassò la testa e si voltò verso la finestra. “Mi sono sempre chiesta perchè papà non abbia mai acquistato questa casa – aggiunse Beatrice – In trent’anni d’affitto c’è costata un occhio della testa. Forse perchè voleva sentirsi inquilino a vita e non avere vincoli”.
“E questo cosa c’entra con il tuo amore per Leopold?”,
replicò la madre. “C’entra, mamma. Tu e qualcun’altro mi avete sempre fatta sentire affittuaria della mia vita. Ho 34 anni e non sono più una bambina. Voglio essere padrona delle mie scelte. Mamma, non voglio più vivere, adesso voglio volere, voglio esistere”, concluse Beatrice.
Uscì fuori sul terrazzino e, mentre Klaudia giocava, aprì la lettera di Leopold. Ogni parola galleggiò sulle sue lacrime perchè mai nessun’altro le aveva scritto parole così dense. Leopold le confessò della sua malattia rara che lo portò a dimenticare tutto in brevissimo tempo, ma anche della sua permanenza all’hotel Ulysse a Fehmarn . Era lì che aveva vissuto l’ultimo mese e mezzo di vita, osservando i quadri di Beatrice e il terrazzino della sua casa. La brezza marina le accarezzò i capelli e Beatrice lasciò che gli occhi inzuppati di lacrime si alzassero verso il mare. All’orizzonte trovò depositata la quiete. Questa volta niente sarebbe stato più come prima. (CONTINUA)