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Helsinki e una vecchia foto del mio amico Pasquale Mautone

nonno1501Cosa hanno in comune Helsinki e Napoli? Praticamente niente, a parte il mare. Adesso queste due città così diverse si spartiranno una foto antica in bianco e nero: è quella di Pasquale Mautone, un mio vecchio e caro amico. L’ultima volta l’ho visto l’8 novembre 1992. Ci siamo salutati con un tenero abbraccio e la mattina dopo mi hanno avvisato che se ne era andato per sempre. Da allora porto con me quella foto. Nel mio 2008 ricco di viaggi, io come un pellegrino in Europa l’ho ritrovata nel taschino della giacca. A Helsinki fa freddo. In questa grigia domenica mattina finlandese mi sono fermato dinanzi al mare. E’ stato Pasquale a presentarmi il mare tantissimi anni fa, a Coroglio nel Golfo di Napoli, guardando l’isoletta di Nisida. E sono tornato davanti al mare, quello freddo del Nord, per ricordare la nostra amicizia: spontanea, sincera e ricca di complicità come quella del vecchio pescatore Santiago e il ragazzino Manolin, i due protagonisti di Il vecchio e il mare di Hemingway. Ho messo questa fotografia su una piccola barchetta, lasciandola galleggiare alla deriva, per iniziare quel viaggio mai fatto, ma che io e Pasquale Mautone abbiamo sognato per una vita intera. Caro Pasquale, oggi sono sedici anni che sei partito e per me non è cambiato assolutamente niente. Caro amico mio, in questa domenica ad Helsinki continuo a cercarti tra gli odori, le vie e il brusio della capitale finlandese perché aveva ragione Freddy Mercuri a cantare: “Gli amici saranno amici fino al fine”. Anzi, caro Nonno, adesso che mi ritrovo qualche capello bianco, mi convinco sempre di più che l’intensità del dolore giace negli abissi del cuore e dell’anima. Per fortuna c’è la memoria, la cui luce fa brillare il faro della speranza di ritrovarsi con un filo di voce e un sussulto del cuore. Mi manchi.

Barack Obama, il Presidente dell’altra America

obama150Negli ultimi anni qualcuno ci ha ricordato sottovoce che l’America non era solo quella guerrafondaia di George Bush, del potere dei petrolieri che si erano giocati a dado le sorti di John Kennedy, della superpotenza che voleva imporre a tutti costi il suo “regime democratico” ovunque e a qualsiasi costo. Avevamo dimenticato l’America di Joan Baez, Bob Dylan e Bruce Springsteen, quella dei raduni sotto il cielo utopico di Woodstock, quella che aveva protestato conl megafono per fermare il genocidio del Vietnam, quella incantata per “I have a dream” di Martin Luther King, quella letteraria della Beat Generation tra le pagine irriverenti di un Kerouac o un Bukowski. C’era e c’è un’altra America: è quella che oggi entra alla Casa Bianca con l’elezione di Barack Obama a Presidente degli USA. La vera vittoria non è nei confronti del soldato McCain e della sua spalla Palin, ma verso la lobby della spietata Hillary Clinton, simbolo fallico dell’ipocrisia democratica statunitense. Nessun candidato alla presidenza ha attirato così l’interesse dei giovani di mezzo mondo. La raccolta di fondi sul web, l’uso calibrato di You Tube e Facebook hanno trasformato Obama nel “Cavaliere di Internet”. Nel giorno dell’euforia, non tralasciamo un particolare. Barack Obama è il primo afroamericano, il primo “nero” ad entrare nella camera del potere americano. Un riscatto storico e sociale per “i neri” di tutto il mondo, quelli schiavizzati dall’America contradittoria che mise contro Nordisti e Sudisti, quelli discriminati dall’America razzista che fece del colore della pelle il passepartout per avanzare o retrocedere. La vittoria di Obama cambia il destino di questa America, nonostante siano tante le ferite da rimurginare in Medio Oriente, in Economia, nell’Ambiente, in Politica Estera con l’espansionismo minaccioso di Russia e Cina.  Gli americani si aspettano dal nuovo Presidente la fine di un sistema sanitario che non tutela i deboli, facendoli divorare dalla brama delle compagnie assicurative. Per adesso godiamoci l’aria di festa perché la sfida è davvero più difficile di quello che immaginiamo.

Amare è un’arte, da “Wall-E” a “Mamma mia!”

Amare è un’arte, al cinema come nella realtà. Lo sa il buffo robot Wall-E, l’ultimo eroe del nuovo film Pixar (più per adulti che per bambini!) impegnato a ripulire la terra dalla spazzatura. Wall-E è il prototipo del principe azzurro di un futuro lontano, fatto di pezzi meccanici, ma con un’anima capace di far germogliare sentimenti dalla robottina Eve. Amare è un’arte sullo sfondo di una Torino scontornata da una nebbia che ci confonde, come quella dei racconti di Hesse. E’ il dolore di lasciare o essere lasciati a mettere in moto L’uomo che ama di Maria Sole Tognazzi, che scimmiotta troppo il “Saturno Contro” di Ozpetek, nonostante la bravura di PierFrancesco Favino. Amare è un’arte anche se volete avere un relazione a tre, fuori e nello stesso letto. Consultatevi con Woody Allen, sceneggiatore e regista di uno dei peggiori film della sua carriera: Vicky Cristina Barcelona con una Penelope Cruz da souvenir in un bacio saffico o in una scena cult da “vaiassa da cortile”. Amare è un arte nelle fantastica pellicola tratta dal musical Mamma mia! di Phillyda Lloyd con le musiche degli Abba. Qui l’amore si propaga in diverse direzioni e la lezione ce la danno alla fine i due personaggi Donna (Meryl Streep è da Oscar!) e uno dei padri della sposa (Pierce Brosnan). Un rapporto si può recuperare anche nella mezza età. Amare è un’arte al cinema come nella realtà. Al cinema è più semplice, nella realtà è più complicato. Chissà come ci si deve sentire a cinquantanni a ritrovare un amore perso ed avere il coraggio di farlo rientrare nella propria vita dal portone principale. Amare è un’arte comunque vada, nella spavalderia del grande schermo così come nella vigliaccheria della quotidianità.

‘A livella e gli eccessi del 2 novembre

“Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll’adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.” Per chi non li avesse riconosciuti, questi sono i primi versi di ‘A livella, meravigliosa poesia scritta da Antonio De Curtis, in arte Totò. Il Principe del sorriso ci ha donato una suprema riflessione in versi: volendo o non, dinanzi alla morte torniamo ad essere tutti uguali. Per me il 1 e il 2 novembre sono giorni particolari. Nella mia famiglia li dedicavamo ai nostri defunti, non tanto per fare “lo struscio” al cimitero, ma per pensare ai nostri cari che non c’erano più. Nei cimiteri del Sud vivevo quasi un’aria di festa, vedendo fin da piccolo migliaia di persone assiepate ovunque. Peccato però che poi durante l’anno c’era il deserto. Non sono qui per discutere sulla scelta di visitare un defunto al cimitero, piuttosto sulle lotte inutili per acquistare la cappella di famiglia, per avere la lapide più bella o svuotarsi il portafogli a tutti i costi per il sovraccarico di fiori. Questo atteggiamento tra folclore e mania di protagonismo – per non parlare dei titoli ed appellativi che notavo sulle lapidi- mi ha sempre stizzito, anche oggi che vivo lontano da Napoli. De Curtis concludeva così: “Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… appartenimmo â morte!”. Nel piccolo cimitero della provincia di Napoli, dove sono sepolti i miei nonni paterni, ho osservato anno dopo anno gente che voleva affermare il suo ruolo sociale anche al di là di quel cancello. Alla faccia di quella mentalità feudale e delle famiglie borghesotte e provinciali, io preferisco ancora un petalo di rosa e un crisantemo per ricordare che la morte è una cosa troppo seria. Smettiamola di trasformare il 2 novembre in una farsa carnevalesca!

La rivolta degli studenti “spogliarellisti”

Sono passati quaranta anni dal 1968, l’anno dei cambiamenti e delle rivolte per eccellenza. Mi sembra che nulla sia mutato da allora vista l’aria che tira in questi giorni: in tutta Italia gli studenti sono tornati ad occupare scuole e università per protestare contro l’ultima manovra del Ministro Gelmini. Quale è stata in concreto la via del dialogo al fine di evitare “mani e scazzottate”? Le urla del coro della protesta viaggiano in autonomia senza una controproposta concreta. Ho terminato l’Università dieci anni fa e, ahimè, non sono più studente da un bel pezzo. Tuttavia, il mio rammarico resta sempre lo stesso. Si fa davvero abbastanza – pur alzando la voce col megafono – per cambiare le cose? Ho lavorato diverso tempo all’università e ritrovo ancora ex colleghi che si lamentano per le misere paghe. Alcuni hanno il coraggio di andare all’estero, altri si consolano con la filosofia del “tiriamo a campare”. In giro c’è puzza di troppe contraddizioni perchè alcuni studenti – al di là delle scenette, degli spogliarelli o delle istrioniche mazzate tra bande di sinistra ed estrema destra – fanno parte del “popolo dei parcheggiatori degli atenei”.  Il Senato ha appena trasformato in legge il decreto 137 e domani i Sindacati sono pronti a scendere in piazza. “La piazza” è davvero la più grande conquista di una democrazia, ma rischia di trasformarsi in un cortile di caciaroni se non c’è continuità di proposte. A questa riforma perché non c’è una controriforma? Gli eroi del ’68 sono svaniti. Il pressapochismo dei giorni nostri servirà davvero a salvare il mondo della scuola dalla catastrofe ipotizzata?

Gaia e il teatro delle meraviglie

Sono finito nell’aula di un corso ed è rispuntata un’ala della mia vita: il Teatro. Il trainer di comunicazione, Gaia Catullo, mi ha involontariamente fatto un dono, quello di farmi ripescare il palcoscenico dal fondo della mia anima, in un fase di transizione: dall’esibizione all’espressione. E’ scoccata come una scintilla al pensiero che le vite possono incrociarsi. Nel 1993 Gaia era sul palco del Piccolo assieme a Strehler, io facevo su e giù Napoli-Salerno con pochi spiccioli in tasca, ripassando stralci da Molière e Shakespeare. Mi sforzavo di preparare il mio primo esame all’università e, accompagnando a casa la mia ragazza, sapevo che alle spalle dicevano: “Lascialo perdere quel clown, non farà mai nulla di buono nella vita”. L’arte dell’attore – colui che viene dal teatro e non dai riflettori degli “Amici” della De Filippi – ti aiuta ad esplorare te stesso ed il mondo che ti circonda. Gaia e il suo “teatro delle meraviglie” è stato un fulmine a ciel sereno per risollevarmi dalla “ripetitività della quotidianità” e farmi ritrovare “il teatro perduto”. Possiamo sempre trovare un compromesso tra routine e creatività, ma chi sceglie la seconda via è destinato a stare fuori dal coro. Al termine del corso, ho ripensato ad una massima di Giorgio Gaber: “Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo”. Grazie a Gaia mi sono allegerito come un gabbiano, “ma con l’intenzione del volo”. E’ questo l’effetto di chi ha continuato a fare del teatro il suo mestiere?

Christiania, il mondo hippy e le piccole utopie

Nel 1971 ad occupare un’area della città di Copenaghen è un gruppo hippy, capeggiato dall’anarchico Jacob Ludvigsen. Nasce la città libera di Christiania, destinata ad ospitare fino ad oggi una delle comunità più osteggiate dal governo danese. Quando ho varcato il confine di Christiania, mi è sembrato di essere finito in un altro mondo. Erano le baracche trasformate in casa o la gente testarda ad inseguire un’utopia? Per vivere lì mi hanno spiegato che è necessaria l’approvazione di un consiglio dell’area: “Vogliono farci pagare le tasse, vogliono cacciarci. Noi non molliano”. L’affermazione di questo uomo di mezza età, mi ha riportato ad un’estate del 1981. Io ed un gruppo di bambini, sotto il sole di luglio, avevamo creato la nostra “Christiania”: gli adulti non potevano entrare, le case erano fatte con le cassette della frutta e noi vivevamo liberi tra i nostri giochi e sogni. A Paestum, una sera mi sposai con Benedetta, la mia fidanzatina di 5 anni. Una promessa di matrimonio semplice nella nostra casetta, interrotta da mia nonna che mi chiamava per andare a cena. Finita l’estate, vennero a riprendersi le cassette per la vendita della frutta. Noi protestammo. Benedetta pianse e io la rassicurai: “Un giorno tornerò, dopo aver fatto il militare, e costruiremo una nuova città per vivere felici per sempre”. Ho scampato il servizio militare e Benedetta non l’ho più rivista (Se la trovate avvisatemi!). Le utopie sono indispensanbili, piccole o grandi che siano, ma la “nostra Christiania” si è sciolta sotto il sole, l’ultimo giorno di luglio di ventisette anni fa.

Parco Tivoli a Copenaghen: un’alternativa a Eurodisney?

Bisogna andare per forza in parchi di divertimento modello Disneyland per tornare ad essere bambini? Perché continuare a sottoporci a trattamenti emotivi congelati, sotto l’abbaglio di un effetto speciale o di un’animazione in 3d? Sono anni che mi annoiano i parchi a tema in Italia e all’estero. Eppure visitando il Tivoli Park a Copenaghen, tra i più antichi d’Europa, ho riscoperto la magia perduta: niente maxi schermi, niente robot, niente musical broadwayani. Eccomi nel classico luna park stile ottocentesco con cavalli di legno; auto in miniatura come quelle che si fabbricava mio padre; montagne russe uscite da vecchi film muti; spettacoli tradizionali fatti da attori allergici al portamento da star hollywoodiana. Dove è allora la magia? Nell’atmosfera, nelle centinaia di palloncini luminosi sparsi qua e là, nel mangiucchiare del soffice zucchero filato senza sforzarsi di assomigliare all’ultimo eroe di turno. In giro vedo cataloghi che offrono a prezzi bassi volo e soggiorno a Eurodisney a Parigi, ma poco su un’alternativa intelligente come il Tivoli Park. Perché non lo proponiamo ai nostri bambini? Mettiamoli in guardia perché non troveranno Shrek, ma una punta di romanticismo che li farà apprezzare il divertimento dei loro nonni. Non c’è niente di male perché in fondo si tratta di un naturale “ritorno al futuro”.

Copenaghen, un brivido in bicicletta

Sono un imbranato da sempre, anche in bicicletta. Fino all’età di sette anni marciavo ancora con le rotelle laterali di supporto. In un pomeriggio di luglio del 1980, a Paestum, mio padre mi disse: “Basta!”. Mi fece montare in bici e, dopo vari tentativi, mi lasciò andare lungo il viale. Provai un sottile brivido lungo la schiena quando mi accorsi che stavo pedalando da solo, senza il supporto di quelle maledette rotelle. Quel fremito di libertà l’ho ritrovato andando in bici a Copenaghen. La capitale della Danimarca e’ una sopresa con il suo clima gelido e le sue sfumature autunnali. Le bici al crepuscolo si trasformano in uno sciame di lucciole che anima la citta’. E poi non ne ho mai viste di cosi’ bizzarre e stravaganti: all’alba di questo mio sabato mattina, in centro ce ne erano un paio con una carrozzella per portare a zonzo i bambini. Che spasso sara’ per loro! Tra una pedalata e l’altra non si fa fatica ad amare Copenaghen. Sono qui da ventiquattro ore e gia’ mi sento a mio agio. Quando la luce va via e luna smette di giocare a nascondino, diventa inaspettatamente romantica. Ops, mi sono distratto e la mia bicicletta stava per finire in un canale. Riprendo a pedalare e ritorna quel fremito di liberta’, a cui non rinuncerei per niente al mondo!