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Dopo la morte del sindaco di Cardano Laura Prati non mi sento più “straniero”


Rosario PipoloLa notizia della scomparsa di Laura Prati, il sindaco di Cardano al Campo aggredito lo scorso 2 luglio dal vigile sospeso dal servizio, ha fatto uno strano effetto sulla pelle degli stranieri del territorio. Per “stranieri” intendo tutti coloro che non sono nati o cresciuti in questa zolla del varesotto, ma ci sono capitati successivamente. Mi ci metto pure io. Del resto fino ad un paio di settimane fa per me Cardano era il paesotto dove alcuni agenti immobiliari avrebbero voluto convincermi a prendere a casa o il posto dove si era spenta la mia adorata Mimì, Mia Martini.

L’effetto di cui accennavo all’inizio è quello di una rabbia straripante, che dovrebbe diffondersi più spontaneamente tra quelli del posto, che conoscevano da vicino l’impegno di Laura. Questo ritaglio di cronaca mi ha riportato ad un episodio di cui fu vittima tanti anni fa un medico del paese alla periferia di Napoli dove sono cresciuto. Fu aggredito da un paziente e scampò alla morte, ma con il prezzo di un’invalidità ad una gamba. La situazione è molto diversa, ma il contesto provinciale sembra simile. Sdegno iniziale, accompagnato da una punta pressapochismo che, il più delle volte in periferia, si trasforma in omertà mostruosa. E qualche volta occorre ingoiare pure il rospo di chi ti rimprovera dietro le spalle: “Se fosse stato più accondiscendente o avesse fatto finta di niente, non gli sarebbe accaduto nulla”.

La morte ingiusta di Laura Prati mi ha fatto sentire improvvisamente parte della comunità che l’ha vista crescere e occupare il ruolo di primo cittadino. Tenendo a bada il risentimento vendicativo che ci porterebbe al linciaggio del malfattore, penso che sia lecito chiedere giustizia. Nel nostro Paese purtroppo la giustizia è così opinabile da portare una “perizia psichiatrica” ad essere l’escamotage per alleggerire la pena. La famiglia di Laura Prati non ha bisogno del folclore scenografico che qualche volta prende piede ai funerali, come ho visto anche alla periferia dove sono cresciuto, ma di un supporto che si evolva nel tempo per evitare la vera tragedia: vestire gli ignudi, assiepati intorno al colpevole, con la follia pirandelliana e lasciare che il futuro abbia memoria corta*.

*Questo articolo è stato pubblicato anche dal quotidiano on line Varese News. Ringrazio il direttore responsabile e i colleghi della redazione.

40 anni di sogni da vagabondo

Io e mia sorella Rossella nei primi anni '80

A modo mio lo farò in questo giorno che non assomiglia a nessun altro. Forse solo a quello in cui soffiai su una barchetta di carta e la feci andare a largo, appesantendola con i sogni di un bimbo occhialuto. 40 anni di sogni da vagabondo, duellando con il destino che mi voleva ragazzo rammollito di periferia nella landa della provincia, che predilige il vivere per apparire, lungo gli argini della desolazione dei ruoli sociali.

I parenti mi hanno insegnato che i legami e gli affetti non si sottoscrivono all’ufficio anagrafe, ma negli incontri casuali lungo la strada della vita. Perciò non si può restare nello stesso posto. Quello che per gli altri sarebbe stato un privilegio, per me sarebbe stata la peggior condanna che possa accadere ad uno zingaro felice.

Gli angeli, che da bambio incantato osservavo affrescati sulle pareti, mi hanno insegnato che non hanno le ali, non volano in alto, camminano nel basso, ci restano accanto e sono coloro a cui spesso neghiamo l’attenzione. Perciò si deve sempre “restare con i piedi per terra”.

I ribelli mi hanno insegnato che la sottomissione è dei vili e che dobbiamo tirar fuori l’urlo rabbioso affinché il prossimo istante sia migliore dell’utopia stretta al cuore.

I viaggi mi hanno insegnato che tutto cambia al momento del ritorno, che la diversità è una ricchezza immensa per andare incontro ad un giorno nuovo e che il significato del tragitto è più importante della meta stessa.

I sogni mi hanno insegnato che sanno essere leggeri come i palloncini colorati in volo e consistenti come le emozioni che danno un valore aggiunto alla vita.

I soldati e i civili morti in guerra mi hanno insegnato che Dio, nel tardo pomeriggio, gira le spalle agli altari e va ad appisolarsi in cima alle montagne, tra le trincee. Lì l’ho visto la prima volta con i miei occhi.

L’uomo in croce mi ha insegnato che donare la vita al prossimo può redimere il peggior farabutto pochi istanti prima che tutto sia finito.

Gli amici mi hanno insegnato che non sono fatti su misura per tutte le stagioni della vita. I cambiamenti spazzano via i recinti ed incidono sul bisogno di legami diversi, più acuti e profondi.

I borghesi piccoli piccoli mi hanno insegnato ad accelerare la fuga dalla famigliola alla Mulino Bianco, profumata negli spot pubblicitari, ma puzzolente e fradicia nello scorrere dell’insignificante routine.

I morti mi hanno insegnato che non se ne vanno via, ma ci restano accanto. I fantasmi non esistono, sono le proiezioni delle nostre coscienze indifese. Al contrario le persone che abbiamo amato continuano ad esistere in ogni piccolo gesto che maschera il ghigno della memoria e svela il segreto del nostro destino.

La musica ha sottratto la sordità al mio udito; il teatro ha fatto sì che il legno del palcoscenico fosse la quercia attraverso cui piantare le mie radici; il cinema ha cancellato la cecità della mia coscienza civile.

Il lavoro mi ha insegnato che a spuntarla è colui che non accartoccia la propria essenze e non tradisce mai le proprie passioni.

L’amore mi ha insegnato che non sono le distanze anagrafiche a separare, ma le barriere culturali e sociali. Non bisogna mollare o ripiegare, perché esiste una sola strada per i sentimenti: quella che, attraverso il cuore, conduce alla felicità in uno scintillio che spalanca lo sguardo dell’altro sulla condivisione.

Oggi, 17 luglio 2013, sono arrivato in cima alla montagna, a modo mio. Il sentiero non mi è stato indicato dai “maestri santoni”, ma dalla quotidianità. E da questa posizione guardo sospeso 40 anni di sogni da vagabondo. Li ho vissuti istante dopo istante e provo lo stupore di chi ha dato finalmente un nome allo spettacolo più incredibile dell’universo: la vita. 

E la mia ha 40 anni.

Diario di viaggio: In bici nel parmense con il retrogusto dell’ospitalità

Assieme a Fabio Romani

Rosario PipoloDomenica pomeriggio. Mi perdo nel parmense sotto un sole cocente. 38 gradi e per giunta in bici, alla scoperta di un’altra zolla di terra della regione emiliana. Vengo da Sabbioneta e il traguardo è Parma. Lo stomaco brontola, ma trovare un posto per mangiare sembrava impossibile. E poi mettiamola così. Avendo sforato l’orario del pranzo accademico, chi mi farà mettere qualcosa sotto i denti alle tre del pomeriggio? Mi rassegno a filar diritto verso Parma a stomaco vuoto, quando avvisto un’insegna con una “R” gigante. Sta per Romani, il ristorante di Vicomero di Torrile, e una signora me lo conferma: “Provi lì, hanno la cucina aperta fino a tardi”.

Dopo quindici chilometri sotto il sol leone, me lo merito il pranzetto succulento. Dopo una passerella di affettati e torta fritta (al di là della sponda lombarda del Po è il fratello gemello dello gnocco fritto), ecco che spunta  il gestore. Fabio Romani, mio coetano, è una persona simpatica e a modo. Mi racconta della sua Correggio e di come il papà mise in piedi l’attività. Quando azzanno i miei tortelli alle erbette, Fabio mi guarda con orgoglio, come per dire “ne è valsa la pena arrivare fin qui”. Insiste per farmi assaggiare la punta con patate al forno. Tra una forchettata e l’altra, scopro che il ristoratore di Correggio è un appassionato di dolci. E che dolci! Tira fuori dal cilindro magico il jolly: una torta di mele ricoperta di amaretto.

Dopo tutto quel ben di Dio e senza alcuna delusione dopo l’arrivo del conto (dall’antipasto al caffè, 33€), penso di non farcela a pedalare. Prima di andar via, Fabio mi infila due bottigliette d’acqua in una borsa di cuoio della mia bici. E poi dicono che gli emiliani sono scostanti! Sono i soliti pregiudizi che i viaggiatori dell’ultima ora come me amano smentire. Il gesto di Fabio mi ricorda quello del giorno prima di Ivana di Rivarolo del Re, ai confini tra il mantovano e il cremonese. La signora mi avevo guidato tra le campagne, offrendomi poi una bottiglia d’acqua fredda a casa sua.

Dobbiamo tornare a vivere “il tragitto” e non la “meta” del viaggio, perché solo così notiamo i dettagli che sfuggono al turista distratto che corre con i paraocchi alla velocità della luce. E la mia bici “Tognazzi” – battezzata così a Cremona tre anni fa – mi ha fatto assaggiare il retrogusto dell’ospitalità, lì in un angolo del parmense.

Diario di viaggio: I bambini ci guardano

Rosario PipoloAvevo pressappoco l’età di Joseph quando vidi la prima volta il film di De Sica I bambini ci guardano. Quel titolo mi rimase impresso e me lo sono ritrovato spesso tra i piedi. Joseph – anglofonizzai il suo nome di battesimo appena lo vidi girovagare per casa a carponi – nacque qualche anno dopo il mio trasferimento a Milano. Conosco sua madre da quando aveva 13 anni e andavo a trovarla con la mia vespa rossa.

Joseph è cresciuto vedendomi comparire a casa sua di rado. Non ero un viso assiduo e riconoscibile. Fino a poco tempo fa pensavo di essere stato negli anni della sua crescita una comparsa. Mi sbagliavo. Il mio andare e venire mi aveva fatto dimenticare una piccola verità: I bambini ci guardano, appunto. Tre anni fa trascorsi una serata a casa sua. Mi staccai dal gruppo e me ne andai nella sua cameretta. Mentre lui giocava alla playstation, gli parlai di me, gli raccontai di ciò che avrei dovuto fare e non riuscivo più a fare. Era tardi ormai. Joseph interloquiva con me, ma mi parlava di tutt’altro: dei suoi giochi, della noia dei compiti nelle vacanze, di sua madre che era in soggiorno con gli ospiti.

Qualche settimana fa mi sono ritrovato Joseph alla presentazione del mio libro. Lo osservavo mentre mi ascoltava. Era proprio lui, era diventato un ometto. E quado abbiamo fatto la foto assieme, mi sono ricordato che “i bambini ci guardano”. Ed è come se il figlio della mia amica avesse compreso che, tra le pagine del mio romanzo, fossero assiepate le confidenze che gli avevo fatto anni addietro. L’indomani sono passato a casa di Joseph. Prima di andare via – non lo aveva mai fatto prima – mi ha afferrato per un braccio e mi ha rimproverato: “Adesso riparti. Quando ritorni?”. Per la prima volta da quando lo conosco, Joseph aveva mollato i suoi giochi e le sue cose per trattenermi.

I bambini ci guardano, appunto. Io e Joseph eravamo cresciuti assieme ed avevamo condiviso un dolore comune: il distacco da ciò che ci apparteneva. Con due significati diversi era successo quando avevamo cambiato casa. Io e il piccolo Joseph non eravamo più comparse, ma eravamo tornati ad essere protagonisti della reciprocità del nostro legame.

I bambini ci guardano, appunto. Mi sono voltato e ho visto scomparire Joseph dietro il cancello. I suoi occhioni scuri mi hanno sussurrato: “Stringi i denti. Vai, insisti. Chi ama, non sbaglia mai.”

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Niente mare a Sharm El Sheik. Estate in Egitto tra golpisti militari e finta democrazia

Rosario PipoloQuesta sarà un’estate calda in Egitto. E non perché i tour operator spediranno tra gli scenari finti di Sharm El Sheik il vacanziero italiano medio con infradito e panza al sole. Persino i napoletani dalla filosofia della “mappatella”, che importarono in riva al Mar Rosso lo stile pacchiano dei lidi di Varcaturo e Mondragone con le canzoni dei neomelodici ad alto volume, dovranno tornarsene in riva alle spiaggette del litorale domitio.
Questa non è più l’estate dell’Egitto da cartolina, della luna di miele lungo il Nilo, questo è un luglio da golpe militare. Gli spettri gloriosi dei faraoni e il bagliore dell’antica civilta egizia, imprigionata tra sarcofaghi, antichi papiri e piramidi, aleggia nelle ore calde che smantellano il mito della Primavera araba.

L’America di Barack Obama, che aveva sposato il patto d’acciaio con Morsi e i fratelli Musulmani, dovrà fare retrofront. A pochi mesi dal quarantesimo anniversario del golpe militare che portò Pinochet al potere in Cile – in una geografia diversa di vicende e colpi di scena – la politica estera degli USA, dal ghigno malefico di Nixon al pacifismo di Obama, ha fatto un buco nell’acqua per il suo trasformismo. Le pagine della storia degli ultimi 50 anni ce lo ricordano. Accade a chi alterna ruoli e posizioni, stando con o contro i golpisti militari. E anche quando la bandiera a stelle e strisce sventola come un vessillo di pace e salvezza, è come quando sbarcò il primo uomo sulla luna. Sotto il casco di Neil Armstrong era scritto lo slogan: “Il piede sulla luna lo abbiamo messo noi. O con noi, o contro di noi”.

Tornando in Medio-Oriente, gli egiziani, con la fame di chi vuole abbuffarsi di “libertà, dignità e riscatto”, si stanno lanciando tra le braccia dell’esercito, perché sopravvivono ancora le dicerie che la democrazia possa indossare una divisa militare. I nuovi salvatori dell’Egitto, che hanno sotto le ascelle il sudaticcio dei vecchi raìs, nel caos dell’euforia, hanno messo già mano alle prime azioni di imbavagliamento, bloccando l’emittente televisiva di Al Jazeera. Basterà l’urlo dei social network a trasformare l’esultanza popolare in acuta riflessione? C’è un cambio di stagione. La primavera ha ceduto il passo ad un’estate piena di contraddizioni. E il Medio-Oriente lo capirà presto.

L’ultima neve alla masseria alla Feltrinelli: Il girovago metropolitano torna nel “piccolo mondo antico dell’infanzia”

In occasione della presentazione del mio romanzo “L’ultima neve alla masseria” a la Feltrinelli di Caserta, il collega Ernesto Ferrante, moderatore dell’incontro, ha voluto lasciare sul mio blog una polaroid scritta a mano che mi ripaga della fatica legata a questo racconto.

Ernesto FerranteIl giornalista con i lacci delle scarpe sciolti, con la penna nel taschino e l’iPad sotto il cuscino, è tornato a “casa”, in una città a cui è affettivamente legato fin da bambino, per presentare il suo lavoro, “L’ultima neve alla Masseria”, edito da Demian. Un romanzo autobiografico, in cui si mescolano senza sbavature, realtà e fantasia, percorsi interiori e chilometri macinati per davvero, in sella alla sua mitica vespa rossa. Sullo sfondo di quest’opera densa di significati ed emozioni, si staglia il suo vissuto, guardato e rielaborato a volte con occhi bambini, altre con lo sguardo disilluso di chi ha qualche primavera in più alle spalle. Sfogliando le sue centotredici pagine, si respira l’aria fresca dei sogni ma anche l’odore forte della terra, delle radici, dell’appartenenza. Il girovago metropolitano torna nel “piccolo mondo antico dell’infanzia” ed osserva da una prospettiva diversa cose e volti, dando un senso nuovo a ciò che nuovo non è. Pietro degli Orsi, Rosina Miletti, Zi’ Santuccio, il maresciallo Amorosi, Silvio il guardastelle, la piccola Giulia o le sorelle Spadafora, non sono solo semplici personaggi ma anche prospettive sulla vita. E’ troppo semplicistico per non dire scontato, pensare alla partenza unicamente come uno strappo, una fuga. La partenza, tante volte, è arricchimento, sia che si tratti di un viaggio reale sia che si tratti di un percorso intimo, immaginario.

Molto spesso si torna più forti e più affamati di quei sapori e di quei colori prima impolverati dall’abitudine. Sguardo al cielo d’Europa, quello di Rosario, ma radici dalle gambe lunghe che, come egli stesso dice, se ne vanno in giro trascinandosi dietro i mondi, familiari e professionali, da cui è stato allevato. Con Shakespeare, Kerouac e Bukowski sul comodino ed una fetta di migliaccio sul tavolo. Il presidente della giuria di CinemAvvenire del Festival del Cinema di Venezia cammina a braccetto con il ragazzino con l’Invicta sulle spalle e la scrittura matura del giornalista di formazione tradizionale lascia di tanto in tanto il posto alle istantanee del social reporter.

Ricordo ancora il giorno in cui, appena dopo pranzo, il comune amico Cesario mi fece omaggio del libro, parlandomene entusiasticamente. Avevo dei word aperti davanti ed una pagina del giornale per cui lavoro tutta da chiudere ma dopo appena poche righe ne fui rapito, incamminandomi con Pietro lungo il sentiero che portava alla collinetta cara a Silvio il Guardastelle e commuovendomi davanti agli occhi lucidi di nonno Pietro da piccolo di fronte al ritratto di quella regina che, al buio di una stanza dell’istituto in cui era rinchiuso, aveva iniziato a fargli da mamma.

Le stelle di Silvio e l’atto d’amore della loro adozione, la terra messa nel pugno di Pietro dal nonno, quale simbolo di appartenenza e di un legame che trascende il tempo, il missionario turco e la solidarietà tra camminatori lungo i sentieri della vita, al di là del colore della pelle e delle sigle sui documenti di identità, con un piccolo paese del Meridione sullo sfondo che diventa un universo intero, sono, a mio avviso, delle autentiche gemme in uno scrigno ricolmo di emozioni e sogni, brividi e sospiri, di cui Rosario che ringrazio di cuore, ci ha fatto dono.

E’ bello, infine, che un emigrante ritorni nella sua terra, in questa difficile terra, con un libro di ricordi e di sentimenti, senza piombi e mattanze, con al centro il cuore piuttosto che i forzieri da riempire con le copie vendute.

Ernesto Ferrante
Giornalista*

Classe 1978, Ernesto Ferrante è giornalista professionista e notista politico del quotidiano “Rinascita”. Dopo la maturità classica al Liceo Domenico Cirillo di Aversa, ha collaborato con il network di intelligence economico-politica del Baltico-Adriatico “Osservatorio Italiano” e con il sito Nuova Polonia.

Paul McCartney all’Arena di Verona: Quando le canzoni cambiano il finale di Romeo e Giulietta

Rosario PipoloUn concerto può fare quello che il tempo non ha saputo fare, forse per pigrizia interiore o mancanza di coraggio. Uno sciame di canzoni dei Beatles, eternamente in volo, è diventato una massa di fili di perle grazie a Paul McCartney all’Arena di Verona. I fan all’occorrenza si perdono sempre il più grande spettacolo emozionale. Lo hanno avvistato coloro che sono cresciuti con i concerti di Macca in Italia, come chi vi ha depositato negli ultimi 25 anni i sogni, le speranze, gli schiaffi del passato e le carezze del futuro.

Ci vuole costanza e determinazione per trasformare una passione musicale in sacrosanta verità: Let It Be sfila l’anello dell’anulare e mette in ginocchio la promessa; Hey Jude squarcia il velo del tempio nel coro che esplode e taglia le distanze; The Long and Winding Road ferma il dondolo del tempo nell’istante preciso che dà voce al silenzio; Live and Let Die è una scusa bella e buona per uno spettacolo pirotecnico; Yesterday non è il manifesto della nostalgia, ma la presa di coscienza della determinazione della memoria futura; Maybe I’m Amazed è lo stupore di fronte alla magia di come l’amore possa dare una svolta alla vita; The End è l’iniezione della fine nel principio di un solco verso l’eternità con l’epitaffio “l’amore che dai è uguale all’amore che ricevi”.

Vallo a dire alla luna che Paul McCartney a 70 anni suonati ha sbeffeggiato la Big Moon di domenica scorsa. La luna è esplosa martedì sera su Verona, non era un effetto ottico e la hanno vista tutti coloro che c’erano. Lo sciame di canzoni dei Beatles ha rimesso mano alle pagine shakespeariane di Romeo e Giulietta, cambiando il finale. McCartney sussurrava al piano My Valentine e Giuletta, che tutti credevano morta, volava come un angelo sull’arena di Verona. Sapeva che Romeo era lì, vagabondo su quelle note musicali, a scacciare i demoni della vita che vorrebbero irridere il potere miracoloso della musica.

Nella sera dei miracoli di Macca gli dei si sono dovuti ricredere su quell’accusa di chi vorrebbe che la musica fosse l’oppio dei sognatori. Se pure fosse, lasciateci sognare. Lasciateci ricordare gli amici di gioventù come John e George in nome di quelle schitarrate tra il tanfo del porto di Liverpool. Lasciateci continuare a credere che, in un misto di laicità e religiosità, queste canzoni cambieranno il nostro destino, senza essere più vittime o carnefici di rimorsi e nostalgie.
Nel coro finale di Hey Jude ognuno ci ha infilato la sua smisurata preghiera, come l’urlo più esteso per arrivare alle orecchie di Dio. Da qualche parte c’era l’adolescente che scappò di casa per ascoltare Macca nell’89 al PalaEur di Roma. Romeo e Giulietta lo hanno riconosciuto e lo hanno fatto alzare in volo sull’Arena di Verona, appendendolo ai fili invisibili dei suoi sogni per trasformarlo in un uomo dai capelli brizzolati. Quello ero io.

Diario di viaggio: La lezione del libraio e del lettore alla Mondadori di Rivoli

Rosario PipoloAntonella Menzio, direttore della libreria Mondadori di Rivoli, alle porte di Torino, mi ha dato una lezione. Il mio doveva essere un viaggio di andata e ritorno per presentare il mio romanzo L’ultima neve alla masseria. E’ stato un viaggio di sola andata per imparare che, nel tempo del ciclone digitale e social, il libraio fa ancora la differenza, perché non è un negoziante. Si va oltre l’insegna della libreria o il catalogo in vendita. Sono proprio i librai come Antonella a trasformare un punto vendita in un salotto, in cui le pagine di un libro si annusano attraverso la conversazione.

Pensavamo di aver abbattuto dei processi nella giungla dei mega store online con i libri che bussano alla nostra porta di casa. Invece ripercorriamo la strada al contrario. Torniamo noi tra gli scaffali di una piccola libreria a bussare alla porta di quei chili di carta che hanno i sogni a forma d’inchiostro. Tornare a fare un viaggio in libreria è una grande occasione per il lettore, ma anche per l’autore. Ogni presentazione è un evento unico ed irripetibile perché la platea è sempre diversa, il dibattito prende pieghe imprevedibili ed escono fuori riflessioni che aiutano lo stesso autore a sprofondare meglio in ciò che ha scritto.

Ci sono poi lettori speciali che, attraverso la lettura di una pagina del tuo libro, possono aiutare un autore emergente come il sottoscritto a prendere coscienza dei riverberi che ci sono negli angoli nascosti della storie lasciate su un foglio di carta. A Rivoli è successo con la lettura emozionante del capitolo Silvio il guardastelle. La voce non era di un attore, ma di un lettore appassionato e sensibile come Rinaldo Ambrosia dell’Associazione torinese Formeduca. L’intervento di Rinaldo ha provocato una riflessione: ci sono lettori che hanno il potere di denudare il dolore che ogni autore, sconosciuto o popolare che sia, si porta dentro e diventare proprio loro “i guardastelle” della pagina sconfinata tra il diluito di chi scrive e il concentrato emotivo di chi legge.

Non avrei mai pensato che scrivere un libro diventasse un pretesto per ricominciare a viaggiare, ritrovando luoghi e persone che assomigliano molto a quelli del Sud del mio protagonista. E forse una piccola verità è svelata nella dedica lasciata a Maria. Ci sono persone speciali che “a distanza diventano angeli custodi dei nostri sogni”. Riconoscerle è la vera conquista di chi fa il mio lavoro.

In Italia la fine di Tony Soprano, nel volto di James Gandolfini che schiaffeggiò le mafie con genialità

Rosario PipoloQuella vecchia canaglia di Tony Soprano, protagonista della popolare serie tv, per più di un decennio ha imposto il ritorno del malavitoso sul podio del piccolo schermo. Quando si parla di un malavitoso, l’Italia non ne esce mai pulita perché l’associazione è inevitabile. Sono passati quarant’anni dall’uscita del film Il Padrino e prendiamo ancora a sassate Francis Ford Coppola: il Vito Corleone, uscito dalle pagine dell’omonimo bestseller di Mario Puzo, ha contribuito a gonfiare l’immaginario di un’Italia sbruffona e criminale tra “pizza e mandolino”. La parlata e le movenze di Vito Corleone sono entrate in una sorta di codice mitologico, così come quelle dello Scarface di De Palma, scimmiottato con volgarità da più generazioni. Persino quella dei social network omaggia in giro “il Padrino” con aforismi, iconcine, foto profilo e roba simile.

Tornando a Tony, star di I Soprano, mi vien da dire che per lui nutro una gran simpatia. Gli sceneggiatori hanno abbattuto la corazza del criminale tutto d’un pezzo, tirando fuori i conflitti umani che lo consumavano. Non guardavamo i Soprano per spiare il mafioso in azione, ma per indagare nell’animo dell’ “uomo criminale” tra paure, crisi depressive, ansie quotidiane da padre di famiglia e persino dolcezze. Le parti imperdibili del telefilm erano proprio le confessioni di Tony alla fedele psicologa, che ci spiazzavano non perchè fossimo in preda allo humor yiddish e surreale alla Woody Allen, ma perché ci calavano nella quotidianità che avrebbe potuto bussare alla porta di ognuno di noi.

Perché parlare di Tony Soprano oggi? Per fare la linguaccia ad un’Italia zeppa di criminali, travestiti da “galantuomini”, che si aggirano in piena libertà? No. Per fare la linguaccia all’Italia che per un gioco beffardo sarà ricordata, oltre che per essere stata la madre terra di “Il Padrino”,anche per essere quella in cui si è spento Tony Soprano.
La morte improvvisa per infarto di James Gandolfini, impareggiabile volto di Tony Soprano, non segna solo l’uscita di scena di un bravissimo attore. Ci sono degli interpreti che al di là dello schermo e della macchina da presa hanno saputo schiaffeggiare le mafie di tutto il mondo. James Gandolfini lo ha fatto con intelligenza e genialità.

Diario di viaggio: Elia e Rocco, gli angeli custodi del rifugio Longoni che mi fecero alpino

Rosario PipoloAveva ragione Albert Camus a scrivere che “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”. Questo non è stato un viaggio come gli altri. Sono state 30 ore che hanno segnato il mio percorso di viaggiatore. Mi sono tenuto alla larga dalla montagna del trekking turistico, quello che va tanto di moda oggi, imbalsamato nei sorrisi delle foto che raccontano la passeggiatina in un angolo del Trentino o un’abbuffata in una trattoria montana. Di mezzo ci sono le Alpi e per arrivare in cima mi aspettava una prova che non avrei mai pensato di affrontare.

Sono in Valmalenco, in un angolo della Valtellina e si parte da Chiareggio per arrivare fino al rifugio Longoni. Non era il percorso che immaginavo, non era per me, non ero preparato. Le prime tre ore di cammino vanno dal bosco ad una meravigliosa piana dell’alta via della Valmalenco. Perdo il gruppo, ma in compenso avvisto un’aquila. Sono sfinito e mi siedo su un sasso. Incrocio un signore di Lecco con la famiglia.Mi offre una barretta di cioccolato, un mucchio di noci. Prende il mio zaino, mi libera da un grosso peso e lo porta agli altri. Vado avanti, ma gli ostacoli non finiscono mai. L’ultima tratta non è percorribile tra sassi e tanta neve sparsa. Ecco che spunta all’orizzonte un ragazzotto occhialuto. Rocco entra in sintonia con me, mi incoraggia, mi invita a non gettare la spugna. E quando le gambe finiscono intrappolate nella neve, il sangue si ferma, non le sento più, sembro paralizzato. Rocco scava due fosse e mi aiuta a tirarle fuori. Mi accascio sui sassi, con l’ultimo fiato tiriamo avanti come due vecchi amici. Mi sembra di sentire la voce del Villani, il carabiniere della Valmalenco che insegnò al figlio Leo a rispettare la montagna e a scioglierlo in un atto d’amore.

Salgo a carponi su quelle rocce. Non è uno scherzo, sono in cima alle Alpi. Si intravede il tetto del rifugio, ma gli ultimi dieci passi sono sui sassi ghiacciati. Sotto c’è il vuoto. Rocco diventa il mio angelo custode, mi indica di seguire la traccia, di poggiare bene i piedi, faccio l’equilibrista e raggiungo il traguardo. Cosa ci facevo a 2450 metri d’altezza sopra il cielo? Da lì forse non sarei sceso più, sarei rimasto al rifugio Longoni se al ritorno non mi avesse guidato Elia, l’altro angelo custode che mi ha fatto alpino.
Legato ad una corda gli sto dietro, seguo le sue indicazioni in quelli che sono stati i quarantacinque minuti più mozzafiato dei miei vagabondaggi. Cammino sul vuoto, intorno a me ci sono le cime che mi sussurrano il risveglio dell’anima. Elia ci crede, sa che posso farcela. La mia gamba destra non tiene, scivolo verso il burrone. E’ questione di secondi, il precipizio è lì. Elia tira la corda e urla: “Non mollare. Muovi i piedi. La montagna è tua, riprenditela”. Nell’istante in cui mi passano per la testa brutti pensieri, lo spirito della montagna soffia le parole di Karol Wojytila: “Queste montagne suscitano nel cuore il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso il sublime”.

Alzo gli occhi verso Elia, mi spingo sopra e risalgo pian piano. Ho il cuore in gola, l’ho scampata. Sono seduto di nuovo con le gambe nel vuoto. La guida alpina del rifugio Longoni mi sorride. Il vento spettina il mio ciuffo brizzolato. Mi alzo in piedi, mi faccio forza, non ho più paura. Guardo avanti e riprendo. Avvisto il sentiero e sento una mano sulla spalla: “Adesso puoi continuare da solo. Vai e non voltarti indietro”. Mi sembra di risentire le parole di mio padre, quando da bambino mi liberò dalla prigionia delle rotelle  della bicicletta. Elia Negrini va via, torna nella sua tana. Per alcuni resterà il gestore del rifugio Longoni, per altri il papà di Rocco, per tanti una grande guida alpina. Per me l’angelo custode delle Alpi che mi ha fatto diventare uomo tra le montagne, indicandomi il sentiero per arrivare con serenità ai miei 40 anni, nell’ultimo grande viaggio che chiude il primo ciclo della mia vita.