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Colapesce e Dimartino “vincitori morali” del Festival di Sanremo ai tempi del Covid

Antonio (in arte Dimartino) è cresciuto a Palermo e chissà se l’ho incrociato una quindicina d’anni fa, durante la mia estate a Mondello, dalle vecchiette che friggevano panelle a poca distanza dalla celebre spiaggia custode dei segni delle riprese gattopardiane.

Antonio aveva acceso una fiaccola in memoria dei giudici Falcone e Borsellino cantando in giro per la sua Sicilia insieme ai Famelika, ex compagni di viaggio, un brano a me particolarmente caro, Giovà, scoperto proprio durante quell’estate palermitana.
La canzone, che vi consiglio di ascoltare, sventolava in sordina la bandiera di protesta contro Cosa Nostra, omaggiando il cantastorie siculo Giova ucciso dalla mafia nel 1962.

Lorenzo (in arte Colapesce) è cresciuto a Solarino, ad una ventina di chilometri da Siracusa e come nome d’arte ha scelto quello di un’antica leggenda siciliana e delle gesta del figlio di un pescatore rimasto sott’acqua per non far sprofondare l’isola.

Pochi giorni prima del Natale 2009 mi capitò per sbaglio tra le mani la mitica Merry Christmas Darling dei Carpenter nella cover trasfigurata da una band siracusana, gli Albanopower. Su questa giostra strampalata di indie, new wave e pop c’era salito anche Lorenzo, il futuro Colapesce nel progetto da solista.

Colapesce e Dimartino, proprio in questi giorni Disco di platino per la loro canzone sanremese Musica leggerissima, hanno unito storie personali e artistiche della loro magica isola Trinakria.

Lorenzo e Antonio sono vincitori morali del Festival di Sanremo ai tempi del Covid prima ancora che a decretarlo fosse il Premio Lucio Dalla o il termometro della febbre musicale. Lo sono fin dall’esibizione della prima sera, in cui i baffetti alla Alan Sorrenti di Lorenzo ci hanno catapultati nella freschezza sperimentale degli anni ’70 e tra le elaborazioni melodiche degli anni ’80 di cui è cosparsa Musica leggerissima.

Per non parlare del bellissimo video, un fiume in piena di citazioni cinematografiche tra la poesia visiva di Fellini, il surrealismo di Buñuel infarcito del film beatlesiano di Magical Mistery Tour e l’introspettività di Bergman. Eppure la canzone Musica leggerissima è solo in apparenza il tormentone che ha contagiato i social e farà da colonna sonora alla prossima estate, perché nasconde la drammaticità di questo tempo covizzato sotto le ascelle dello slogan “andrà tutto bene”.

Colapesce e Dimartino hanno vinto Sanremo 2021 perché ci hanno fatto saltellare e ballare con leggerezza sugli assilli amletici del tunnel della pandemia come l’antimilitarismo di “Se bastasse un concerto per far nascere un fiore Tra i palazzi distrutti dalle bombe nemiche”, il precipizio della morte “Per non cadere dentro al buco nero Che sta ad un passo da noi, da noi”, la fede che vacilla “I tamburi annunciano un temporale Il maestro è andato via” o sugli squilibri del tempo della vita che corre veloce “Diventare adulti sarebbe un crescendo Di violini e guai”. Come hanno ribadito Lorenzo e Antonio:

La mortalità è un concetto oggettivo. Tutti vediamo i nostri corpi sparire, disintegrarsi, diventare altro.

Colapesce e Di Martino sono i nuovi outsider della Sicilia, figli della dea Giuni Russo e benedetti dallo Zeus dell’isola di Trinakria Franco Battiato, del quale ci hanno regalato l’emozionante cover Povera patria, dito nella piaga dell’Italia ammalata ancora dei corsi e ricorsi storici e “schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore”.

Viaggio al Club Tenco, in quello scalo merci della vecchia ferrovia

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rosario_pipolo_blogA Sanremo improvvisamente gli spifferi autunnali sono diventati miti. Mi sembra di rivedere mia madre quando ne approfittava per ristendere fuori il bucato. Da qualche anno la nuova sede del Club Tenco, fondato da Amilcare Rambaldi nel ’72 insieme a tanti missionari della cultura per la canzone d’autore, è l’ex scalo merci della vecchia stazione ferroviaria sanremese. Preferisco questa a quella nuova con i binari seminterrati, anonima e amorfa.

Entrando in sede senza pass, nessuno mi riconosce da addetto ai lavori. Sono tutti indaffarati con gli incontri del programma del Premio Tenco. Mi fermo nell’angolo dove ci sono un divano e una libreria. Mi sembra di esserci tornato dopo chissà quanto tempo, In realtà è la mia prima volta al Club Tenco.
Quando non esistevano i blog, noi giornalisti chiudevamo a chiave nello sgabuzzino i nostri diari di viaggio, come se articoli o reportage non avessero un backstage. In realtà non è mai stato così, soprattutto per noi che abbiamo scritto di spettacolo. Nei miei archivi inzuppati di carta giacciono interviste e tra foto e locandine appese alla parete del Club Tenco ritrovo gli incontri con Gaber, Vecchioni, Guccini.

Da una parte su un giradischi danza un vinile con le canzoni di Luigi, sugli scaffali della parete opposta ci sono l ultime annate di Il Cantautore, la monografia che da quarant’anni accompagna il programma del Premio dedicato alla memoria del cantautore scomparso il 27 gennaio del ’67.
La carta ingiallisce, ma non va mai a male, come le riflessioni sulla Resistenza in un numero di qualche anno fa. Tutti “partigiani della cultura” gli affiliati al club Tenco perchè hanno fatto della Resistenza una condizione del divenire, a difesa della canzone d’autore in un’Italia smemorata, che spesso dimentica, a volte addirittura rinnega.

In un certo senso lo è stata anche mia madre partigiana di questa Resistenza musicale: Alla fine degli anni ’70 tra profumi di bucato e detersivo aprì nella mia infanzia il varco sul canzoniere di Luigi Tenco, distillando a misura di bambino la rivoluzione di questo cantautore del futuro. Se non fosse stato per lei, le mie stagioni musicali si sarebbero arenate, per questioni anagrafiche, sul pop degli anni ’80 e sugli ingorghi musicali del riflusso.

Dall’altra parte del divano incrocio lo sguardo di Toni, il papà dell’Ala Bianca che salvaguarda il patrimonio musicale del Tenco. Lo ricordo ai tempi dello Smeraldo a Milano – allora un teatro valeva più di un food store destinato alla Milano radical-chic – in camerino che parlottava con Enzo e Paolo Jannacci.
Tra una polaroid e l’altra, mi avvisano che devono chiudere la sede. Il tempo è volato. Mi sarei fatto rinchiudere dentro, avrei continuato a divagare tra letture o chiacchierando con Enrico De Angelis per farmi raccontare per filo e per segno questo viaggio quarantennale.

All’uscita, mi ritrovo fronte mare sulla riviera ligure tra gli ultimi fili di luce. Ci sono tre coppie su una panchina che chiacchierano. Tiro fuori lo smartphone, colgo uno scatto al volo, lo pubblico senza filtri su Instagram. Mi piace questa foto e la titolo “Ho capito che ti amo”, proprio come la canzone di Tenco che veniva fuori dal giradischi nel vecchio magazzino dell’ex stazione ferroviaria di Sanremo.

“Ho capito che ti amo” non è soltanto la consapevolezza di un sentimento longevo e duraturo alle intemperie del tempo, è anche un lucido riconoscimento verso chi ha nutrito amore nei confronti di una cultura musicale che ci ha fatti tutti militanti dell’esistenzialismo, guardandoci dentro senza i filtri fasulli della vita digitale, prima di approdare a quella gaberiana della “libertà è partecipazione”.

Fottuto “cuore” ci porti via Mango, gran bella voce della musica italiana

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Rosario PipoloLa notizia di Mango stroncato da un infarto mi è apparsa come uno scherzo di cattivo gusto. Non volevo crederci. Forse ha ragione Enrico Ruggeri a tuonare dalla sua pagina Facebook: “Ora leggo belle frasi da giornalisti che non andavano da anni a un suo concerto, radio che non passavano le sue nuove canzoni e discografici che non avevano più voglia di investire su di lui”. Parto proprio da questo misto di dolore e rabbia.

Giuseppe Mango, una delle vocalità più interessanti del panorama musicale italiano, è rimasto l’outsider per eccellenza al tempo in cui la musica si è liquefatta e Lei verrà, che fece fare un botto di soldi ai potenti della Fonit Cetra, conserva nel suo isolamento musicale i canoni della ballata pop che si veste di world music.

Ho conosciuto Mango al Festival di Sanremo del 2007. Ci incrociammo per strada e mi restò impressa questa sua dichiarazione: “Devo molto al palco dell’Ariston. Penso che chi faccia il mio mestiere debba tenersi alla larga da ogni forma di snobismo”. In questo Mango aveva proprio la veracità dei lucani che sanno apprezzare le occasioni della vita. Mango si era portato con sé la Basilicata, proprio in quella vocalità capace di smuovere i sassi di Matera per fare della sperimentazione il punto di congiuntura con la voce che si fa strumento.

Detesto i famigerati “coccodrilli”, che fanno a volte di noi giornalisti, allevati nello spettacolo, dei viscidi avvoltoi. Lo tiravi fuori appena giungeva in redazione la triste notizia e ti affidavi a parole surgelate piuttosto che a riflessioni postume. Nel caso di Pino Mango il “coccodrillo” è stato utile a tutta quella ciurma, a cui Ruggeri in parte faceva riferimento, che lo ha dimenticato strada facendo.

Pino Mango non ha bisogno del rimorso post-mortem che scatta tra gli addetti ai lavori. Le dimenticanze si pagano e a caro prezzo. Perciò è giusto che le sue canzoni ora stiano alla larga dalle penne avvelenate dei giornalisti, dai microfoni delle radio distratte o dagli elogi funebri dei discografici che prima o poi ti lasciano crepare nella fossa dei leoni.

Le canzoni passano in eredità al pubblico che lo ha amato, che ha colto la spiritualità dietro la sua maniera di fare il musica, che ha legato gioie e dolori del privato ai versi di Mediterraneo, Oro, La rondine o agli atti di generosità come Io nascerò per la Goggi.

E pensare che Pino Mango il suo testamento lo aveva filato nei versi di questa poesiola musicata: “Nella mia città c’è una casa bianca con un glicine in fiore che sale, sale, sale su. Sulla mia città c’è un cielo grande che ti spalanca il cuore e non ti delude mai”. Ed è proprio in direzione di tale città che ricomincia il suo nuovo viaggio. Ci mancherà.

Sanremo Giovani 2011, vince il jazz ruffiano di Raphael Gualazzi

Non c’era via di scampo e quest’anno non ci sono state le solite zuffe per portare una nuova proposta dell’Ariston sul podio. Raphael Gualazzi vince con la sua Follia d’amore la 61a edizione del Festival di Sanremo nella categoria dei Giovani. Badiamo bene una delle peggiori annate, perché all’Ariston gli emergenti sono passati ancora una volta in sordina, a volte troppo insipidi, per niente sperimentatori o progressisti, mandati in onda a ridosso della mezzanotte, senza uno spazio adeguato, e per giunta messi in castigo dal televoto.
In balia della melodia di Micaela o di Serena Abrami, la vittoria del timido e pacato Raphael in stile jazzato mette tutti d’accordo, anche se il dubbio assillante rimane: questo swing ruffiano vuole fare il verso a Micheal Bublé? Dovremmo chiederlo a Caterina Caselli, l’ape regina della discografia italiana, che ha arruolato Gualazzi nella scuderia Sugar. La Caselli non ha sbagliato mai un colpo e nessuno ci vieta di pensare che Raphael diventi un fenomeno jazz da esportazione.
Intanto, mentre di questi giovani “invisibili” ci dimenticheremo prima di quello che possiamo pensare, il Televoto tira l’ennesimo colpo basso: Tre colori, l’intensa filastrocca musicata di Tricarico, è fuori dai giochi, nonostante a mio parare faccia parte del tris delle migliori canzoni sanremesi assieme a quelle di Vecchioni e di Emma & i Modà. Facciamocene una ragione, con o senza il faccione buonista di Gianni Morandi, il Festival di Sanremo riflette l’Italia del suo tempo, arruffona quanto basta per ripescare la Anna Tatangelo di turno e tenersi la lagna melodica di Luca Barbarossa. Mettiamola così: le belle canzoni sono quelle che vanno via in fretta dai riflettori dell’Ariston, dall’euforia popolare, ma restano confinate nell’animo di quel pubblico che sa cogliere in flagrante l’emozione di raccontare una storia accennata, come quella della nostra bandiera.

Sanremo 2011 Atto II: Il soldatino di piombo al Festival della Canzone

Rassegniamoci perché questo è un Festival di Sanremo da dimenticare. Ha deluso persino la categoria Giovani, mandata in onda poco prima della mezzanotte, quando i più insofferenti avevano spento già il televisore da un pezzo: passano il turno, graziati dal fantomatico Televoto, Serena Abrami che fa l’indossatrice per Niccolò Fabi e Raphael Gualazzi con lo swing da faccia da schiaffi che tira un rimbalzo al sound di Bublé.
Svestiamoci di tutto senza tralasciare un particolare: questo è il Festival della Canzone Italiana e non del cantante. E allora se con la dovuta spensieratezza emotiva vogliamo rincorrere un bagliore, stiamo dietro a Tricarico, che nonostante la sua esecuzione traballante, ha azzeccato il brano nel giubileo civico verso l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tre colori è una filastrocca musicale, ben congeniata, perchè disegna i contorni a matita di piccole storie che sono quelle di ognuno di noi. Ho ripensato a mia madre quando una trentina d’anni fa si presentò regalandomi il libro illustrato del Soldatino di piombo. Attraversando la fiaba di Andersen mi ero illuso che chi indossasse la divisa era una miniatura giocattolo, che poi al momento opportuno sarebbe tornata nel cassetto. Altro che soldatini di piombo, quelli erano stati lì armati di fucili a farsi ammazzare per cucire quei tre colori.
E in uno dei tre della bandiera italiana si intrufola, sotto la ballata d’amore, il grido del professor Roberto Vecchioni: “Per il bastardo che sta sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore, per la nostra memoria gettata al vento da questi signori del dolore”. La storia si ripete e noi magari ci accontentiamo di mandarla giù a memoria, come se poi il dovere civico e la coscienza collettiva di un Paese si misurassero con molte frottole che affollano i tanti libri di storia. E qui “Chiamami ancora amore, chiamami per sempre amore” non è la sviolinata ricercata da dedicare a chiunque percorra senza saperlo il nostro cuore in questo momento, ma è il richiamo all’adunata, quella delle coscienze e di una presa di posizione precisa rispetto a tutto il resto, alle oscene banalità che scontornano l’essenza della vita. Cosa ce ne facciamo di un mondo finto, costruito a tavolino tra lacrime da coccodrillo ed euforia virtuale? Cosa ce ne facciamo di un mondo che ha rinunciato consapevolmente al sapore dell’amore? Chi corre troppo in fretta qualcosa se la perderà pure. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e non dei cantanti. Torno a ripeterlo. Così abbiamo l’unica chance di tornare sui nostri passi e accorgerci che dopotutto in qualche canzonetta è ancora nascosto il segreto per riappropriarci della collettività e scrollarci di dosso il nostro miserabile individualismo.

Sanremo 2011 atto I: Che barba, che noia!

Abbiamo sperato fino all’apertura del sipario che non fosse catastrofe. Invece questa è davvero la tragedia dell’Italia dalle canzonette che non sa più che pesci prendere. Il Festival di Sanremo condotto da Gianni Morandi è sicuramente il peggiore del nuovo millennio. Chi ha avuto la bizzarra idea di cominciare con la mamma baby-sitter Antonella Clerici, che trasforma un copione da prima serata nella più maldestra cantilena recitata? E’ proprio vero quando si dice che il Festival della Canzone Italiana rispecchi per filo e per segno ciò che siamo in questo momento. Ce lo ricordano i maliziosi siparietti di Luca e Paolo, i veri showmen della prima serata, che sono lapidari tra le belle statuine di Belen e la Canalis.

Gira e rigira la frittata è quella di sempre, con lo spettro del solito intruso, l’innominato ficcanaso che guida l’intera corte a distanza. Questa edizione 61 del festival più amato dagli italiani è così sottotono da sembrare un favore costruito a tavolino per far rallegrare la concorrenza. Gianni Morandi è un pessimo conduttore – perché non ritorna a fare il suo mestiere? – e l’immediatezza scenografica così fantasma da farci scordare che all’Ariston c’è un’orchestra che suona dal vivo.
E delle canzoni ne vogliamo parlare? Quelle dei Campioni le buttiamo tutte giù dalla torre e ci teniamo strette la poesia del prof. Roberto Vecchioni, l’impasse vocalico di Emma & i Modà, la ricercatezza (forzata in qualche punta) di Nathalie, la filastrocca di Tricarico, il folk spedito di Van De Sfroos, la lenta alzata in volo di Battiato. Il brano di Giusy Ferreri non è malaccio, ma l’ex cassiera ha perso così tanta voce da rischiare di tornare tra le corsie del supermercato. Sbadigli a non finire per un Sanremo senza show e senza canzoni. E poi sarà che porta sfiga, ma fa bene una mia lettrice a ricordarmelo. Il Festival non è più lo stesso senza il motivetto della seconda Restaurazione baudiana: “Perchè Sanremo è Sanremo”. Qui c’è poco da ridere e tanto da piangere. Tatangelo via (era ora!), ma avrei tenuto la Oxa cestinando i riciclati Barbarossa e Pezzali, due bidoni in un colpo solo.

Addio a Mino Reitano, voce degli emigranti

mino-reitano150Quando ho saputo della morte di Mino Reitano, mi sono venute in mente alcune sequenze del film di Visconti “Rocco e i suoi fratelli” dove una famiglia calabrese emigra dal Sud al Nord Italia. Mino Reitano era un emigrante e quel suo atteggiamento un po’ saccente era tipico del calabrese purosangue. Nonostante le decine e decine di sfottò di cui è stato vittima, Reitano ha avuto il pregio di restare in disparte dallo star-system musicale italiano. E’ rimasto il semplice “Ragazzo di provincia” che ha inseguito per tutta la vita una passione, riuscire a fare il musicista di professione nel Belpaese canterino. “Avevo un cuore (che ti amava tanto)” resta il suo cavallo di battaglia ed è una canzone conosciuta con la complicità di mia madre. Mino Reitano era uno senza troppe pretese, il suo canzoniere è composto di piccole melodie, niente di più. Al di là della critica che gli si è scagliata contro – Benimamino parlava senza peli sulla lingua – è forse l’ultimo erede della nostra canzone nazional-popolare, giocata sull’emotività e sui veri consensi della gente. Una volta mi hanno detto che Mino Reitano ha aperto un concerto dei Beatles ad Amburgo (allora i Four Fab si chiamavano ancora Querrymen). Credevo fosse la barzelletta del giorno. Mi sono dovuto ricredere perché è stato lui stesso a raccontarlo. Mi mancherai, caro Mino Reitano, e oggi l’Italia ritrova un pizzico di ottimismo nelle parole di una tua canzone: “Quest’Italia che respira, sempre bella e c’è un perché . Questa gente le vuol bene, questa gente è come me”.