Addio a Dario Fo, giullare inviato da Dio a teatro
Non nascerà più un altro Dario Fo. Dio ne ha mandato uno in terra e ha scelto di farlo ramificare in Teatro, come una quercia. La vita è fatta di stagionalità, l’esistenza di più vite, di rinascite e mutamenti, evoluzioni e rivoluzioni.
Fo ha sgominato il tempo facendosi maschera; ha scarnificato la letteratura saccheggiando la commedia dell’arte e ricostruendo nel nostro presente le luci e ombre medievali attraverso il “Mistero buffo”, che ci ha fatto guarire dall’alibi disonesto della rassegnazione.
Dario Fo ha celebrato (San) Francesco come giullare di Dio, noi oggi ne riconosciamo un altro: Fo, giullare di Dio appunto, alla sua maniera di restituire “dignità agli oppressi” o contrastare il Padreterno con delle interrogazioni che hanno reso l’arte del teatro la via paradossale per tentare di capirci qualcosa del mistero della vita.
Da qualche parte sta scritto che “dietro un grande uomo ci sia una grande donna”. Franca Rame è stata compagna, moglie, confidente, prolungamento del giullare che ha viaggiato nel ‘900 senza subire passivamente gli squilibri degli spostamenti.
Prima di essere Nobel per la Letteratura è stato legno del palcoscenico da cui germoglia il gramelot e gli stilemi della lingua fatta di mescolanza di dialetti; prima di essere attore e drammaturgo, è stato il sovversivo contro gli atti intimidatori e censori dei poteri forti e occulti della nefasta Prima Repubblica italiana; prima di essere Dario Fo, è stato “Dario e Franca”, quel duo inscindibile che oggi si prenderebbe burla di tutti gli ipocriti che lo piangono.
Mai come stanotte non vorrei essere lontano da Milano, dal corso di Porta Romana in cui ogni sera rincasava e trovava un bocciuolo nelle piantine che gli aveva affidato Franca. Chi ha fatto del teatro una ragione di vita non deve vergognarsi di versare lacrime, perché Dario Fo è stato il faro nel buio che ha smascherato le nostre coscienze, facendoci vedere in quale “merda” mettevamo i piedi.
Negli ultimi ventidue anni della mia vita ho condiviso diversi momenti con lui tra camerini e teatri, chiacchiere che furono schegge di interviste fino all’ultimo brindisi per i 90 anni al Piccolo di Milano, nella penombra del tempietto di Strehler e Grassi.
La prima volta non si scorda mai, in un camerino del teatro Bellini di Napoli, con Franca che si affaccia e bisbiglia: “Dario, Dario, guarda questo giovane napoletano, garbato e preparato, quanto ne sa su di noi”. Dopo l’intervista, si infilano il soprabito, mi prendono sottobraccio e scendiamo insieme le scale del teatro fino all’uscita sul retro.
È un ritaglio della mia vita che ho sempre custodito senza sgualcire e, nel pieno di questa notte vuota e miseramente silenziosa, ritorna a galla con prepotenza: l’arroganza del memento si porta via con Dario Fo il Teatro che da burattini di legno ci ha trasformato in uomini veri, stessa materia di cui è fatta la coscienza civile.