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Rileggere “La Califfa” ad alta voce è il miglior elogio funebre per Alberto Bevilacqua

Rosario PipoloDovremmo rileggere La Califfa di Alberto Bevilacqua, scomparso poche ore fa a Roma all’età di 79 anni, per indossare di nuovo quella sottoveste che il Belpaese ha bruciato nell’ultimo ventennio di malessere politico e sociale. Ritrovare la sensualità di Irene, la protagonista del bestseller di Bevilacqua, diventato un celebre film, ci farebbe bene per scampare il subdolo pericolo di scambiarla con le nuove vedette alla Ruby che popolano la pattumiera della Seconda Repubblica tutta “Sex and Politics”.

La sottoveste è quella “operaia”, senza fronzoli o doppi merletti, che il Belpaese rinnegò durante i fasulli “happy days” del regime democristiano. La bella Califfa di Bevilacqua, cresciuta nell’Italietta di provincia delle rivolte operaie, protegge lo charme anche quando l’amore la porta in una direzione opposta, verso l’industriale cinico e avaro, che vorrebbe profumarla per toglierle di dosso l’odore sbriciolato di fabbrica.

Alberto Bevilacqua, figlio della Parma che dai granduchi fini nel palmo della mano operaia, ci ha lasciato un bel ritratto femminile, che oggi mette in evidenza lo squallore delle nuove dee della bellezza femminile, sottomesse e svendute agli orchi dei Palazzi di lusso. Vorremmo che da una di queste stanze uscisse l’erede della Califfa, con lo sguardo impavido di chi non si fa sottomettere al potere ed è pronta a ritornare nella terra che l’ha partorita, senza rinnegare le proprie origini.

Alberto Bevilacqua è morto e nessuno riuscirà più a smuovere quella penna per convincerlo che il tanfo operaio della protagonista del suo romanzo sia robaccia di altri tempi. Anzi no, di un solo tempo, quello in cui L’Italia rinnegava di essere stato un paese operaio, mentre noi uomini ci appostavamo ancora all’uscita degli stabilimenti per innamorarci di quelle donzelle che sapevano esprimere la propria femminilità anche sulla catena di montaggio.

Ròbert a fumetti e il rischio di prendere per il sedere Roberto Saviano

Rosario Pipolo

In Italia dovrebbe funzionare così: o stai con lui o contro di lui. La stessa regola vale anche nei confronti di uno scrittore osannato come Roberto Saviano. Il fumettista Vito Manolo Roma ha espresso la sua posizione in maniera netta: l’autore di Gomorra, la penna che ha smascherato la malavita organizzata, è vanitoso e vuole la scena tutta per sé.

Essendo il pamphlet anti-Saviano un volumetto disegnato a matita, chi lo prenderà in considerazione? “Ròbert”, questo il titolo della storia a fumetti (Antitempo edizioni) di uno scrittore anti-mafia infettato dal narcisismo dei tempi nostri, soffia tra le nuvole parlanti i difetti di un personaggio molto apprezzato anche dentro e fuori i social network.

Già prima dell’apparizione delle strisce satiriche di Manolo Roma, sapevamo che Roberto Saviano non era stato né il primo né l’ultimo ad occuparsi dei temi che gli hanno dato fama e successo. La differenza rispetto ai predecessori è una sola: la penna di Saviano è arrivata diritta al cuore del lettore proprio come quelle canzoni che, pur assomigliando al replay di qualcosa altro, diventano colonna sonora della nostra vita.

Io personalmente non sto né con Roberto né contro Saviano, ma con chi difende la propria dignità per riflettere sulla giustizia. All’ultimo Salone del libro di Torino ho visto centinaia di ragazzotti in fila per strappare a Saviano una dedica o una battuta e non per divorare le solite brioche indigeste della tv alla De Filippi. Pertanto, anche se lo scrittore di Gomorra fosse l’alter-ego a fumetti del Ròbert di Vito Manolo Roma, questi difetti sono passabili. Riguardano un trentenne che ha rinunciato a un comodo paio di pantofole e un sofà, ha messo in pericolo la sua vita per scacciare l’insidiosa massima andreottiana che “i panni sporchi si lavano in famiglia”.

C’è un rischio nel prendere per i fondelli Roberto Saviano: essere scambiato per la voce stonata fuori dal coro che vuole guadagnarsi un minuto di popolarità, anche se di mezzo c’è il tratto di una matita.

Il Teatro Segreto di Ruggero Cappuccio: La lezione che segnò la mia vita

Tutto sommato il finale di partita di una fetta della mia vita non si giocò agli esami di maturità, ma l’anno dopo su un palcoscenico. Ad aprirmi la strada fu proprio il Teatro Segreto di Ruggero Cappuccio. Nel ’93 a Napoli molti si erano fermati sulla sponda drammaturgica di Moscato, Ruccello e Silvestri. Pochi di noi avemmo fortuna e attraversammo senza accorgercene il nuovo rinascimento drammaturgico, quello che diede le prime scintille con Delirio Marginale, premio IDI 1993. Attraverso la penna di Cappuccio ritrovammo storie e personaggi sepolti dalla volgarità del nostro tempo.
Dicevo la mia partita si giocò tutta lì, durante una prova generale, da allievo su quel palcoscenico. Ruggero Cappuccio si alzò dalla seggiola e fermò le prove. Salì sul palco, mi guardò diritto negli occhi e disse con tono severo: “Persino un controscena, senza una battuta, ha il suo valore. Basta un dito fuori posto e sarai condannato ad essere guitto per il resto della vita”. Attraversò il teatro con il sigaro fumante e scomparve nel buio.
Quella per me fu come una sberla, ma ne compresi il valore tempo dopo. C’era una sacrosanta verità, che trasformò me e i miei compagni di scena in uomini di teatro, destinati a dare un senso alle nostre esistenze fuori o oltre il sipario. Quel regista e drammaturgo, attraverso il suo Teatro Segreto, ci aveva difesi e protetti dal divismo amatoriale che dilaga ovunque oggi come allora, professato dalla maggior parte dei poveri illusi, destinati ad essere messaggeri di volgarità.
Quando ho visto in Shakespea Re di Napoli il corpo di Claudio Di Palma imprigionato in una cornice, mi sono convinto che la visione di un universo drammaturgico può essere localizzato ovunque – anche all’ombra del Vesuvio Shakespeare alita il suo spirito – così come l’impasto della scrittura si denuda in eternità sotto più sembianze. E la lava che travolge i protagonisti di Fuoco su Napoli, l’ultimo  e acclamato romanzo di Ruggero Cappuccio, mi riporta proprio nella landa della mia infanzia, i Campi Flegrei, dove ho vissuto la paura che il bradisismo capriccioso di Pozzuoli potesse spazzarci via prima di quanto credessimo e farci diventare personaggi dell’ultima tragedia sul Golfo di Napoli. Non è uno stonato gioco di parole: su quel palcoscenico molti scomparvero da personaggi, in pochi invece cominciammo ad esistere, perché Cappuccio ci svelò attraverso il teatro il primo segreto della vita. E quella lezione segnò la mia per sempre.

Io piango: Josè Saramago lo scrittore che volle farsi “blogger”

O lo amavi, o lo detestavi. Non c’erano vie di mezzo. Io sono stato sempre un lettore volubile e scapestrato. Una volta mi è capitato tra le mani Il bagaglio del viaggiatore. L’ho letto con avidità – non perché portasse la firma di Josè Saramago –per la data di pubblicazione: il 1973,  anno della mia nascita. Saramago è scomparso alla veneranda età di 87 anni e a lui devo una cosa, molto prima che mi mettessi lo zaino in spalla per andarmene a zonzo in Europa. Uno spudorato amore per i portoghesi e per la loro terra, che da Porto verso Lisbona, continua a suggerirmi fugaci suggestioni del mio Sud. Quando vado in Portogallo non parlo né in inglese né in italiano, ma in napoletano.  Riesco sempre a farmi capire.
Ho avuto la fortuna di conoscere di persona l’altro grande portoghese, il regista Manoel de Oliveira, ma dello “scrittore scomodo” mi rimane il ricordo di quel libro e, soprattutto, gli interventi da blogger nel marasma della rete. O caderno de Saramago è l’ultimo atto coraggioso del Premio Nobel alla letteratura: un irregolare e poetico diario on line che non risparmia nessuno, neanche il premier italiano Silvio Berlusconi definito “una cosa pericolosamente simile a un essere umano”. Nessuno più di José è riuscito a somministrare una galanteria letteraria su più fronti, dalla poesia al teatro, coinvolgendo a suo fianco i grandi nomi del pianeta, da Chomsky a Pinter, quando c’era da gridare a voce alta.
E’ stato lo scrittore “polemico” per eccellenza, in esilio volontario alla Canarie, ma sempre voce di quel Portogallo che oggi deve riconoscergli un merito: aver innalzato la liricità della lingua portoghese, oggi più di ieri, ad arma di denucia delle balbuzie di questo tempo tenebroso.