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Scuola di vita e teatro con Luigi De Filippo in quindici anni di camerino

Nel 1984 mia madre, che aveva una particolare adorazione per Eduardo, Peppino e Titina, mi regalò un biglietto per lo spettacolo Non è vero ma ci credo di Peppino De Filippo. Ci andai con la classe delle medie al teatro Diana di Napoli. Fu la prima volta che vidi sul palco Luigi De Filippo e non immaginavo di certo che anni dopo sarei tornato come giornalista in quei camerini ad intervistarlo.

In realtà con Luigi è accaduto qualcosa di diverso rispetto agli altri attori teatrali incontrati sul mio cammino. Tra il 1987 e il 1992, negli anni in cui da adolescente vagavo da abusivo nei camerini teatrali con un mangianastri fregato a mia sorella, ho conversato ogni stagione teatrale con l’ultimo erede dei De Filippo.

Al termine dello spettacolo mi appostavo davanti al suo camerino come un cane fedele che scodinzola e aspetta che il padrone gli dia un osso. Attraverso lo specchio mi riconosceva e puntualmente ripeteva: “Stai ccà ‘nata vota. Assiettete”. Prendevo la seggiola, mi sedevo accanto a lui, azionavo il mangianastri e lo ascoltavo mentre si struccava.
Luigi De Filippo aveva la stessa sagoma di mio nonno Pasquale, per giunta baffuto con lui, e mi trattava ogni volta con lo stessa attenzione di un nonno verso il nipotino che con devozione ha una voglia matta di raccogliere memorie per crescere. Poi arrivava uno dei suoi attori preferiti in compagnia, il garbato Oscarino Di Maio – indimenticabile in una messa in scena di fine anni ’80 di La lettera di Mammà – che mi faceva sentire come uno di famiglia.

Riascoltare oggi sui nastri del mio archivio alcuni frammenti delle nostre conversazioni di allora mi commuove profondamente e non per quell’alone romantico di noi testardi pronti a fare del teatro l’unica scuola di vita.
Gli occhi severi ed entusiasti di Luigi De Filippo hanno accompagnato la mia crescita perché il teatro, quello fatto di sacrifici e anche di “umiliazioni” come gli aveva insegnato suo padre Peppino, resta l’unico impermeabile per sottrarsi alle piogge acide che avvelenano chi guarda al futuro facendo della memoria un gomitolo di cartapesta.

L’ultima volta che incontrai Luigi De Filippo fu a Roma nel ’98 per una ripresa di L’amico di Papà. Quella volta non ero “l’abusivo del camerino” ma un giornalista accreditato. In quell’occasione Luigi mi ricordò che l’universatilità della napoletanità, ereditata dal palcoscenico di nonno Scarpetta e papà Peppino, era il valore che la mia generazione doveva difendere a denti stretti affinché Napoli non perdesse lo scettro di culla del teatro.
Si infilò il soprabito, mi diede un pizzicotto, entrò in un’auto e scomparve come un puntino su via Nazionale.

 

Senza la tradizione teatrale che la mia famiglia ha costruito nel tempo non sarei quello che sono diventato. Luigi De Filippo (1930-2018)

Gaia e il teatro delle meraviglie

Sono finito nell’aula di un corso ed è rispuntata un’ala della mia vita: il Teatro. Il trainer di comunicazione, Gaia Catullo, mi ha involontariamente fatto un dono, quello di farmi ripescare il palcoscenico dal fondo della mia anima, in un fase di transizione: dall’esibizione all’espressione. E’ scoccata come una scintilla al pensiero che le vite possono incrociarsi. Nel 1993 Gaia era sul palco del Piccolo assieme a Strehler, io facevo su e giù Napoli-Salerno con pochi spiccioli in tasca, ripassando stralci da Molière e Shakespeare. Mi sforzavo di preparare il mio primo esame all’università e, accompagnando a casa la mia ragazza, sapevo che alle spalle dicevano: “Lascialo perdere quel clown, non farà mai nulla di buono nella vita”. L’arte dell’attore – colui che viene dal teatro e non dai riflettori degli “Amici” della De Filippi – ti aiuta ad esplorare te stesso ed il mondo che ti circonda. Gaia e il suo “teatro delle meraviglie” è stato un fulmine a ciel sereno per risollevarmi dalla “ripetitività della quotidianità” e farmi ritrovare “il teatro perduto”. Possiamo sempre trovare un compromesso tra routine e creatività, ma chi sceglie la seconda via è destinato a stare fuori dal coro. Al termine del corso, ho ripensato ad una massima di Giorgio Gaber: “Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo”. Grazie a Gaia mi sono allegerito come un gabbiano, “ma con l’intenzione del volo”. E’ questo l’effetto di chi ha continuato a fare del teatro il suo mestiere?