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Perché i 40 anni di Candy Candy non possono passare inosservati

Rosario PipoloCandy Candy, l’eroina manga di Yumiko Igarashi che ha fatto da babysitter tv alla generazione degli anni ’80, ha compiuto i primi 40 anni. Le scaramucce legali sulla maternità tra la disegnatrice e l’autrice del romanzo Kyoko Mizuki ne hanno impedito la traduzione e la pubblicazione in Italia.

Tuttavia, furono i 115 episodi a cartoni della Toei Animation – un piccolo gioiello dell’anime giapponese – a rendere Candy popolare nel nostro Paese, nonostante gli snobismi intellettuali addittavano il manga sentimentale come genere per ragazzine brufolose. In realtà non fu così, perché anche noi maschietti, cresciuti all’ombra dei Goldrake e Jeeg di Go Nagai che nascondevano anche lo choc giapponese per l’atomica, seguimmo con interesse le disavventure della “signorina tutte lentiggini”.

Perchè i primi 40 anni di Candy non possono passare inosservati? Hanno un bell’involucro di reminiscenze letterarie che i professori noiosi della mia generazione avrebbero dovuto considerare per movimentare qualche lezione al liceo: dal romanzo d’appendice ai trovatelli della pagine di Dickens che facevano dei Remì o delle Candy i cugini di Oliver Twist; dal romanzo picaresco alla Barry Lindon, che nel nostro caso inizia e finisce alla Casa di Pony; alla letteratura anglosassone rinsavita da scenari storici.

La Mizuki saccheggiò dalla letteratura occidentale e fece di Candy la ragazza emancipata di un lungo pulp-fiction, sventolando valori come amicizia, amore, lealtà, educazione dei minori figli di N.N. in un perimetro narrativo cicolare, dove c’era spazio anche per sentire il rumore delle bombe della Prima Guerra Mondiale.

Mentre la censura della tv dei ragazzi avrebbe voluto tagliare il primo bacio tra Candy e Terence o gli abitini sgargianti, i telespettatori più accorti sbucarono oltre i vezzi sentimentali e intravidero vari spunti: la decadenza dell’aristocrazia americana (le famiglie  Andrew e Granchester) e le vie di fuga dei rispettivi figli ribelli  (Albert usa il viaggio e Terence il teatro ); il maschilismo sottomesso (Anthony); la religiosità disciolta nella concretezza e nella comunione (suor Gray e suor Maria); il principe felice wildiano traslato nel protettore misterioso e generoso (Il principe della collina/Signor Williams); i legami dell’infanzia che ci accompagnano per tutta la vita (Annie); l’aria domestica dell’animaletto fedele (il procione Clean).

Come mi hanno ricordato il regista e il produttore dell’anime I Cavalieri dello Zodiaco, intervistati all’ultima edizione di Lucca Comics, il successo dei cartoni animati nipponici è trattare i bambini come degli adulti, mettendo in conto che non c’è sempre lieto fine nella vita.
Infatti, Candy non sposerà Terence ma Albert, il vero principe della collina. Gli autori italiani fecero soltanto un gioco di montaggio – addirittura nella versione per il cinema riciclarono un bacio di una puntata precedente – pur di farci credere che Candy e Terence sarebbero vissuti felici e contenti.

I 40 anni di Candy Candy non posso passare inosservati perché la signorina tutte lentiggini  ha aiutato i bambini della mia generazione a crescere con la consapevolezza che sfidare il destino è un punto a nostro favore per dare un significato all’esistenza. Oggi Candy Candy aiuta gli adulti, ovvero noi bambini di allora, a ritrovare il sentimentalismo necessario che dà lustro all’immaginazione dei cuori ribelli.

Viva l’Italia, quella dei MasterChef e delle “patonze”

Rosario PipoloAltro che “Viva l’Italia presa a tradimento, l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento” del cantastorie Francesco De Gregori. Piuttosto viva l’Italia dei Masterchef, quella degli indignados del tiro alla fune tra food e tv, tra Striscia la Notizia che svela il nome del vincitore e la concorrenza incazzata nera. Cosa si farebbe oggi per alzare il termometro dello share?

Viva l’Italia dei Masterchef perché una trentina d’anni fa volevamo i nostri figli tutti bacchettoni al liceo e snobbavamo l’istituto alberghiero. Allora andava di moda scaccolare con la puzza sotto il naso. Oggi chi di noi non sognerebbe un figlio “divo chef” in tv.
E allora tutti dietro i fornelli perché vuoi mettere “farsi il culo come papà sulla catena di montaggio” anzichè lottare per guadagnarsi un bel mestolo d’oro? Se arrivasse il podio, i nostri pargoli campioni metterebbero la firma culinaria sotto una patatina industriale.

Altro che “Viva l’Italia, l’Italia che lavora, l’Italia che si dispera e l’Italia che s’innamora”. Viva l’Italia delle intercettazioni e delle “patonze”, perchè se non ci fossero bisognerebbe inventarle. Fanno vendere qualche copia di giornale in più, rendono euforico il popolo dei social network, annacquano con il gossip quelle che di certo non sono riflessioni politiche e, per giunta, mortificano il giorno della memoria profumato dalla mimosa dell’8 marzo.
Le nostre nonne sognavano un figlio partigiano come presidente; le nostre mamme un figlio laureato in economia; noi abbiamo capito che è meglio un figlio puttaniere, perché se gira la patonza, gira pure l’economia.

Viva l’Italia dei MasterChef e delle patonze, quella che cammina per strada e non si accorge che un giovane su quattro si è ridotto a fare il neet; che si tappa le orecchie quando la sopravvivenza per la globalizzazione fomenta disagio sociale; che preferisce un comodo lento nostalgico su Felicità di Albano & Romina piuttosto che un tango sovversivo, taccheggiando sul letale luogo comune del “si stava meglio quando si stava peggio”.

“Viva l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare, l’Italia metà giardino e metà galera, viva l’Italia, l’Italia tutta intera”.


Non occorre “il boss delle cerimonie” di Real Time per sentirsi Kate alle nozze

Eugenia Sposa

Rosario PipoloPer sentirsi come Kate Middleton nel giorno del proprio matrimonio non ci vogliono di certo i docu-reality, imbevuti di folclore napoletano, che propone Real Time. E non è necessario “il boss delle cerimonie”, alter ego del wedding planner in stile meridionale, portavoce del solito e volgare “facimme a chi mette ‘a copp”. Come se poi la grande abbuffata del banchetto nuziale, l’arrivo della sposa con carrozza e cavalli o il giro in elicottero circoscrivessero il significato di un matrimonio nel cerchio dell’essenziale.

Real Time dovrebbe racimolare le storie dei matrimoni delle nostre nonne napoletane, quando sposarsi non si riduceva ad una becera e volgare pagliacciata. Le nonne che si facevano cucire il vestito nel secondo dopoguerra, quelle che promettevano amore per l’eternità, che andavano a fare il viaggio di nozze nel raggio di pochi chilometri in groppa ad un asino o su un treno, quando andava di lusso. Ci sono ancora nonne disposte a svelare i loro pudici segreti e non per smania di protagonismo da reality, ma perché sanno che il dono della memoria è impagabile.

Per sentirsi come Kate Middleton nel giorno delle nozze non occorre neanche piegarsi ai ricatti del vivere per l’apparenza. Basta sentirsi come Eugenia, la sposa di questa immagine, avvolta nella semplicità del suo abito, che ha rateizzato l’attesa per il giorno più bello della sua vita nel significato del rito, sia esso religioso o civile. Il banchetto nuziale è passato in secondo piano rispetto all’atto della promessa, alla gioia di vivere ogni attimo assieme al suo sposo, nel sogno che, come in una fiaba, ha accompagnato il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

“I reality sono tutti di gran moda in tv in questo momento, ma non si tratta di realtà: è solo un’altra forma estetica della fiction”, ha ribadito il regista Steven Soderbergh. Perciò è necessario toccare la realtà con mano propria. La sposa pensosa, colta in questo scatto di raccoglimento come in un fotogramma del cinema di Pupi Avati, sveste la volgarità del nostro tempo e la riveste con la memoria. Perciò Eugenia sarà ricordata come l’ultima Kate che ha inorgoglito le vecchie nonne napoletane, spose “finché morte non ci separi”.

Campagna elettorale: La goffaggine dei nostri politici su i social network

Rosario PipoloLe tipografie piangono e in giro, soprattutto nelle grandi città, non tira aria di campagna elettorale: niente santini, pochissimi maxi cartelloni con gli abominevoli faccioni lustrati. I politici e gli aspiranti candidati sono in fuga dalla carta stampata –persino nelle edicole sono scomparsi gli espositori con le prime pagine da campagna elettorale – e stanno sgomitando per ritagliarsi un posto su i social network.

In Italia se ne sono accorti troppo tardi che una condivisione facebukiana o una tweettata lungimirante potevano essere un boomerang contro la solita promessa, il contratto ingiallito o l’orazione funesta. C’è stato pure chi si è sforzato di scimmiottare Barack Obama, ma la nostra classe politica in veste “social” è davvero goffa. E il misuratore di tale goffaggine non sta tanto nel modo in cui si presenta il canale social presidiato , ma come si tenti di portare l’elettore dalla piattaforma social all’unico posto, testimonial della grande illusione del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: la televisione.

Nei ridicoli profili di Google+, spuntati come funghi da un giorno all’altro (Il gigante dei motori di ricerca ricambia la fiducia accordata con uno speciale elettorale), l’unico update più frequente è: “Stasera ti aspetto in tv”. Il teatrino cambia poco o niente: l’altro ieri c’era il salottino di Vespa con il contratto degli italiani, ieri l’agorà di Santoro con il duello da 9 milioni di telespettatori, in cui a parte sguazzi di istrionismo e le solite accuse, non si intravede all’orizzonte nessun programma.

Tornando alla smania social dei nostri politici, mi vien da dire che l’Italia continua ad essere un paese di minestre riscaldate: per certi versi lo sono pure i rottamatori, gli urlatori e gli ammalati di vendolismo. E’ un paese di minestre riscaldate quando il gossip delle veline candidate oscura l’alta percentuale di poveri in Italia; è un paese di minestre riscaldate quando il piagnucolio della banda dei disonesti esclusi dalle liste prende il sopravvento sulle lacrime dei giovani che non trovano un lavoro; è un paese di minestre riscaldate quando il più piccolo dei luoghi comuni diventa una voragine e sgomita con la rassegnazione dei più disagiati che pagano le tasse dei ricconi; è un paese di minestre riscaldate quando i camaleonti vorrebbero darci la lezioncina che non fa più gola a nessuno.

Se questa campagna elettorale avesse davvero una sostanza più “social” e uno sguardo allargato sulla presa di coscienza di una solitaria resistenza da “indignados”, noi elettori non saremmo trattati più come una ciurma di numeri amorfi in balia delle onde.

Grazie dei fior, Nilla!

“Grazie dei Fior, tra tutti gli altri li ho riconosciuti, mi han fatto male eppure gli ho graditi, son rose rosse e parlano d’amore”. Così si cantava l’amore nel secondo dopoguerra del secolo scorso, senza troppi fronzoli, perché anche in un mazzo di fiori si nascondeva  il profumo di un sentimento vero. Chi riascoltò alla radio Nilla Pizzi in quel freddo 31 gennaio del 1951, in occasione della serata finale del Festival di Sanremo, si ritrovava nelle parole che stavano trasformando una litania musicale in un canto d’amore.
“In mezzo a quelle rose ci sono tante spinte, memorie dolorose di chi ti ha voluto bene”: La ascoltò mia nonna Lucia da quella radiolina in un angolo della stanza in affitto a Mergellina. La ascoltarono le sue vicine, riunite attorno ad un braciere, come se poi una canzonetta alleviasse le pene dei venti di guerra che avevano messo in ginocchio l’Italia.
Napoli allora era ancora sull’orlo della disperazione, ma la voce soave di Nilla Pizzi attraversò così in fretta l’Italia che tutti si sentirono uniti, tremendamente vicini. Aspettando l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia, proviamo a dare un volto a quel periodo: un faccino qualunque che rappresentava con discrezione il nostro caro Belpaese. E vedete se non potrebbe essere Nilla Pizza, regina della Canzone Italiana, a prestare la faccia all’Italia, che ha tentato in più occasioni di trasformarla ingiustamente in icona folk e spassionatamente kitch.
I fiori appassiscono, le rose pure, ma chi sa riconoscerle, le restituisce un nuovo profumo che non va più via. Nilla Pizzi, in quell’interpretazione, ci è riuscita e chi la ascoltava, doveva solo scegliere da che parte stare. Mia nonna e le sue vicine  presero le distanze dagli “urlatori” e scelsero quel timbro di voce. Oggi che la Regina della Canzone Italiana è volata in cielo come una colomba, abbiamo capito che nessuno meglio di lei avrebbe potuto sussurrare l’Italia canterina, povera, bella, intonata, composta. E tutto questo ci mancherà.

Cinque anni con YouTube: sbarazziamoci della tv!

Una parte della televisione ha investito sotto banco su mezzi e risorse per ridurre le insidie di Internet, che portava la brutta nomea di sottrarre l’attenzione popolare per la  fruizione dei contenuti. Poi è arrivata la sorpresa impertinente, destinata ad avverarsi cinque anni fa, nel maggio del 2005,  sotto il fantomatico nome di YouTube. Adesso il tubo catodico siamo noi utenti e, quella che sembrava una bravata di tre ragazzotti californiani destinata a durare poco, è diventata la più grande piattaforma di video del pianeta.  Ci vorrebbero più di 1.500 anni per rivederli ad uno ad uno! Mentre si diffonde alla velocità della luce  il Vangelo della rete, sotto la massima  “Condividete e moltiplicatevi”, persino gli analfabeti del web esclamano con nonchalance: “Lo hai visto su YouTube?”. La popolarità non si misura più in passaggi televisivi, ma a fil di video-sharing; il giornalismo televisivo se la dà a gambe dal piccolo schermo (vedi Michele Santoro che molla la Rai e potrebbe andare in onda dal web); e persino la didattica ha avuto i suoi risvolti: il mio amico Mario ha imparato a stirare prendendo lezioni da una casalinga su YouTube e chi voleva diventare da un giorno all’altro latin lover di professione si è affidato ai nuovi rubacuori della rete.  Il nostro voyeurismo si è esteso come un muro di gomma che ci fa essere “spettatori” e “protagonisti” di questo reality globale. E noi possiamo fare a meno delle tv? Sì, perchè c’è YouTube, ma paradossalmente la televisione non può fare a meno di YouTube per far veicolare i suoi contenuti. Peccato che ci sia ancora chi si ostina a rimuoverli. La mia amica parigina Françoise mi ha chiesto il link del video dell’esibizione di Carmen Masola, la vincitrice di Italia’s got Talent. Era già stato rimosso, perchè violava il copyright o perchè in Italia barcolliamo tra le ombre del Medioevo tecnologico? 

Sophia Loren, da un autografo alla fiction

Si dice che dalla grafia si possa capire l’anima di una persona. Vale anche per l’autografo di una diva? Guardando ieri sera la prima puntata di La mia casa è piena di specchi, la fiction di Raiuno che racconta una parte della vita di Sophia Loren, mi è tornato in mente l’unico incontro con lei, nel 2002 al Festival del Cinema di Venezia. Mi ha fatto tenerezza la Loren in quell’occasione: teneva per mano il figlio Edoardo e gli faceva da “mamma-madrina” per la presentazione del suo film. Di quell’incontro mi resta un autografo su una vecchia videocassetta, quella del film “Una giornata particolare” di Scola a cui mi sento particolarmente legato.  In quella firma tremolante non riesco a leggere niente più di Sofia Scicolone, perchè è come se gli anni da diva d’oltreoceano avessero offuscato la persona. Eppure nel film televisivo diretto Vittorio Sindoni la vera eroina si conferma la mamma di Sofia, donna Romilda Villani. Dietro un’attrice di successo c’è una grande mamma (Romilda) o un grande uomo (il produttore Carlo Ponti)? La fiction si inceppa in qualche stilema troppo edoardiano, tra i traumi di Napoli Milionaria e la leggitimità dei figli di Filumena Marturano, ma ci lascia un interrogativo: Oscar per la Ciciora nel 1962. Sarebbe mai accaduto se dietro la macchina da presa non ci fosse stato un grande regista come Vittorio De Sica? Nel “ph” di Sophia ci sono davvero allora dei grandi uomini, altrimenti forse quella ragazza di Pozzuoli sarebbe rimasta un volto dimenticato di un fotoromanzo in bianco e nero. E non c’era bisogno di questo tributo televisivo per scoprire l’acqua calda!