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L’orgoglio dell’Italia nel fango: Il gruppo Facebook “Emergenza Alluvione Orvieto”

Un pezzo di Italia travolta dal fango oggi, da Grossetto a Orvieto. Un altro pezzo d’Italia messa in ginocchio dal terremoto ieri, da Modena a Rovigo. Blaterale è inutile, perché dobbiamo ammetterlo una volta e per sempre: non siamo un Paese di “prevenzione”.
Non ci mettiamo nelle condizioni di esserlo e passiamo agli occhi dell’Europa dal braccino corto, che ha tentato in maniera ignobile di bloccare i fondi ai terremotati dell’Emilia, come il Belpaese dell’assistenzialismo.

Ad un anno esatto dall’alluvione che ha risucchiato Genova, siamo messi peggio di prima. Mentre c’è ancora chi piange i morti della sciagura ligure,ci chiediamo cosa faccia operativamente chi ci governa per salvaguardare l’Italia da questi disastri ambientali.
C’è solo un motivo di orgoglio che viene da un grande girotondo di solidarietà, nato nella landa dei social network: gli oltre 1500 utenti che hanno aderito al gruppo temporaneo di Facebook Emergenza Alluvione Orvieto. Per una volta la solidarietà formato “social” non si è ridotta ad un’accozzaglia di status o fotine, ma in un’azione concreta e autogestita di reclutamento di volontari, anche se temporanea.

Ci sono tantissimi giovani che hanno aderito al gruppo Facebook e si danno da fare per ripulire Orvieto dal fango. Se fossi il Presidente della Repubblica di questo Paese, li inviterei tutti al Quirinale per assegnare loro un’onorificenza. Quella che sa riconoscere agli italiani tanta umanità quando la solidarietà parte “dal basso”, senza secondi fini ed interessi. In questo momento affoghiamo in un letamaio, ma Fabrizio De André ci ricorda che “dal letame può nascere un fiore”. Il gruppo Facebook Emergenza Alluvione Orvieto è un piccolo prato fiorito. E non è virtuale.

Troppo rumore per nulla: Fidanzarsi su Facebook

In tv non c’è niente di buono, solita pappa riciclata. Nei feed di Facebook troppo ciarpame, ovvero il qualunquismo social che si sforza di essere “sociale”. A lato della pagina Facebook c’è un cuore rosso e si alternano gli status che raccontano le relazioni d’amour: impegnato, fidanzato ufficialmente, relazione aperta, vedovo. Basta mattersi a giocherellare con il tastino, cambiare status improvvisamente e finire nell’occhio del ciclone.

Roba da “Chi” o “Novella Tremila”? No, siamo gente normale e ci godiamo i picchi della nostra timeline di Facebook, passando da uno status all’altro. Uno scherzetto?
“Vedovo/a” è usato ironicamente dai teenager che sanno come metterci una pietra sopra, quando una storia finisce a puttane. Non tiriamola per le lunghe: Morto un Papa, se n fa un altro. “La relazione aperta” esprime l’ambiguità della globalizzazione: Ci frequentiamo, non sappiamo, tanto sesso e rock ‘n’ roll, poi si vedrà. “Impegnato/a” è mettere le mani avanti, ma con discrezione: son cazzi nostri. E poi arriva “fidanzato/a ufficialmente” in cui “l’ufficialità” si colora in base all’area geografica di appartenenza. Nel Belpaese in canottiera e ciabatte sarebbe stato il “festino” di fidanzamento, pasticcini, qualche scatto delle famiglie dei rispettivi consorti che si conoscevano; nel Belpaese social è togliere da mezzo ogni ombra di dubbio.

Insomma questo status fa notizia come una volta accadeva sulle pagine di Grand Hotel, quando le nostre mamme curiosavano nella rubrica dedicata ai cuori solitari. Nell’epoca dello schiamazzo social, la coppia dovrebbe ritrovare fuori dal bunker facebookiano la fragranza del sentimentalismo, in una relazione che non è stata “annunciata”, ma “costruita”. Comunque vada, possiamo fare ancora a meno del benestare altrui, quello codificato nel clamore di “Stanno proprio bene assieme”.

Modifica i commenti di Facebook: La matita dell’illusione ottica

E’ inutile girarci intorno. Le timeline di Facebook sono diventate per la maggior parte di noi il riflesso della vita. E non solo perché ci sono lapilli cronologici della quotidianità, ma perché il fazzoletto dell’imbarcazione del social network più famoso del pianeta è anche il nostro sfogatoio. Nonostante le resistenze emotive, zac che ci scappa il commento di troppo e lasciamo traccia dello stato d’animo corrente.

Mentre gli update non possono essere modificati – se piangete sul latte versato dovete solo procedere all’eliminazione – i commenti di lunghe e lunghe conversazioni posso cambiare. E così quelle piccole storie da bacheca – ironiche, strappalacrime, smielose, fate voi – da adesso posso ritrovarsi con nuove tonalità di colore. Insomma, facendo un viaggio indietro sulla vostra linea del tempo, troverete sul box del vostro commento una matitina: basta un clic, modificate e il gioco è fatto.

Dal quartier generale Zuckerberg e compagni ci (s)vendono la nuova funzionalità come la grande opportunità per lasciarci alle spalle figuracce imbarazzanti e nascondere sotto terra strafalcioni grammaticali. Il popolo di Facebook è più strafottente – il commento sgrammaticato ha più appeal secondo il breviario social – e quindi potrebbe utilizzare la “matita magica” per modificare riflessioni, pensieri, rinnegando addirittura ciò che è stato.

Attenzione però, Facebook i “rinnegati” non li perdona: resterà per sempre traccia della cronologia delle modifiche. Insomma, sarà un po’ come nella vita reale: modificare resta soltanto un’illusione ottica.

Brindisi e il viso di Melissa: Io (non) ho paura!

Se dovessimo raccontare l’attentato alla scuola Morvillo-Falcone di Brindisi attraverso una serie di tag, potremmo mettere “Melissa” al di sopra degli altri: “Mafia”, “Terrorismo”, “Attentato”, “Brindisi”, “Scuola” sono passati spudoratamente in secondo piano.
Staccandoci dal clima di indignazione generale e dalla voglia di conoscere il mostro esecutore, continuo a chiedermi se a questo tragico evento sia necessario dare un volto: quello innocente di Melissa Bassi, capro espiatorio di un normale sabato scolastico finito in quel maledetto giorno da cani. “I ragazzi non si toccano” e ce lo siamo detti già, a Brindisi e altrove. Tuttavia, questo sacrosanto comandamento non vale soltanto per mafiosi, terroristi o farabutti, ma anche per chiunque faccia informazione.

Oggi portatori sani di notizie, piacevoli o tristi, lo siamo un po’ tutti. Basta lanciarsi sulla pista di pattinaggio dei social. L’emotività è così esplosiva da quelle parti che forse ci può stare una foto di Melissa girovaga da una bacheca all’altra di Facebook. Facciamola passare per una smisurata preghiera in formato digitale, sperando che il Padreterno sia diventato tecnologico e non se la prenda a male se ci siamo ridotti ad invocarlo sotto forma di clic. E ci può stare pure il gossip innocente del fidanzatino di Melissa, che tra brufoli, bacetti e litigate, si porterà dietro la polaroid più dolorosa degli anni scolastici.

Gli studenti, che sabato scorso a Brindisi hanno preso parte alla manifestazione “Io non ho paura”, avrebbero dovuto protestare anche contro quello sciacallaggio mediatico che pianta il dolore e la disperazione nella radice della furfanteria clownesca. Fare zapping e incrociare il padre di Melissa pedinato da una telecamera, con lo stesso stile cinematografico di Gus Van Sant, è l’ennesimo oltraggio ad un dolore pubblico e privato.

Io non ho paura di chi vorrebbe farci credere che in Italia anche la scuola sia diventata una trappola per topi di fogna.Io ho paura di chi si è assuefatto che lo show debba continuare sempre e comunque. Io ho paura di chi ha scambiato una bara bianca per un set da fiction, distruggendo l’incantesimo di una vera preghiera: una catena infinita di parole dell’anima che dovrebbe mettere la piccolezza umana al riparo, tra le braccia del Padreterno.

Il Fu Mattia Pascal tutto social: Non lasciamolo marcire in rete!

Negli ultimi anni è balenata a non pochi l’idea che i profili fake proliferanti su Facebook rappresentino l’anima social di Il fu Mattia Pascal. Il personaggio pirandelliano, che una gran parte dei professori della mia generazione ha fatto passare come un vigliacco del secolo scorso, è stato riabilitato dal popolo della rete. Il sospetto resta: chi non ha mai pensato almeno una volta di taggare il proprio divenire in un’altra identità?

Quando nomino ad alta voce Mattia Pascal, irrompe nella mia mente il volto scalfito di Marcello Mastroianni, che nel 1985 si insinuò, con una memorabile interpretazione, tra le pagine pirandelliane lette e rilette. Tuttavia, mi convinco sempre di più che non dovremmo lasciar marcire questo personaggio tra i falsi profili facebookiani, ma concedergli un’altra chance.Chi ci dice che i sogni e le inquietudine non abbiamo le medesime urgenze?

La vita ci offre opportunità di cambiamento, ma non le cogliamo, perché preferiamo sguazzare nell’accomodante fluire della routine, innaffiata con una memoria patinata che mai più ritornerà. E liberarci di certe relazioni sociali che in fin dei conti non sono un valore aggiunto alla nostra esistenza?
Potrebbe essere il primo passo per attivare una reincarnazione all’interno della nostra vita. Il branco crea apparentemente sicurezza ed è uno status direttamente proporzionale ad un monito di Charles Bukowski:”Attenti a quelli che cercano continuamente la folla. Da soli non sono nessuno.”

Chi viaggia tanto, è facilitato nel creare nuovi legami, anche se a volte fatti di pochi istanti. E’ una delle scorciatoie per stare dietro al passo di chi non vuole marciare a testa bassa. La metamorfosi produce gli enzimi che flirtano con la parte vera di noi.

E forse dopotutto Mattia Pascal non ha fatto un grossolano errore in quella scelta azzardata e coraggiosa allo stesso tempo. Trasformare “il fu” della sopravvivenza e della rassegnazione in “il sarà” dell’evoluzione ha un prezzo in contanti: lasciarci alle spalle coloro che c’erano fino ad un attimo fa, ammettendo che sono usciti dal recinto della nostra vita e non ci torneranno mai più.

Pulitzer all’Huffington Post: La resa dei conti del giornalismo digitale

Uno smacco? Il premio Pulitzer se lo sono pappati quelli di Huffington Post, il sito all-news che è l’ultima frontiera del giornalismo digitale. Una sorpresa che gira bene sui social e che legittima ancora i percorsi intrapresi da alcuni di noi. Mentre la carta stampata diventa più vintage – anche i free press stanno andando a farsi benedire – l’informazione tritata nei bit ha ormai il suo device di consultazione: è proprio il tablet che qualche tempo fa lo stregone Steve Jobs consegnò a noi smanettoni e che ora, con i prezzi a ribasso, è sempre più alla portata di tutti.

Stanno scemando i tempi delle caste e dei privilegi di chi aveva in mano la penna e l’inchiostro. Questo non basta più, così come illudersi che sia sufficiente saper scrivere per fare di un sogno di molti la professione di pochi. Mentre Facebook e Google cercano di rinchiuderci tra mura blindate – un ex Google man potrebbe essere al timone dell’avventura Huffington made in Italy – si tentano nuove strade perché qui il nocciolo della questione è quello: chi li tira fuori i soldi per pagare l’informazione del giornalismo digitale, visto che la pubblicità on line non fa fare tanti quattrini?
Mi riferisco a quella di coloro che lo fanno per mestiere. I social network sono diventati la piattaforma più efficace per distribuire contenuti. Tuttavia, chi produce contenti social è sotto l’occhio del ciclone: non è poi così banale buttar giù un update di Facebook o una Tweettata, così come per uno storyteller non vale sempre la regola che la leggerezza la faccia franca sulla coerenza del trattamento riservato a qualsiasi notizia.

I prossimi mesi saranno cruciali ed è inutile stare a piangersi addosso, tanto l’editoria continuerà a depennare tanti posti di lavoro. Tutti a casa? Assolutamente no. Non è l’inizio, ma paradossalmente la fine del tunnel. Affacciandosi in Europa e al di là dell’oceano, stiamo capendo che direzione prendere, affinché ognuno di noi dia un contributo attivo alla definizione del nuovo identikit del giornalista, tenendo conto del lettore 3.0. Quest’ultimo avrà una voce più partecipativa, adocchierà l’informazione se si sentirà parte di una community e sarà pure disposto a pagare la notizia, se troverà professionisti veloci e puntuali. Le penne lumache finiranno in soffitta, perché in questa fase di interegno il destino è segnato: la carta sarà la landa isolata dell’opinionista, il digitale la spugna delle news in tempo reale. Sarà la volta buona per sbattercene di ordini di settore, cattedre o tribù?

Elezioni comunali ai tempi di Facebook: Fuori dal gruppo

Dalle mie parti professavano che ‘o paisano era ‘o paisano. Lui sì che si sarebbe fatto in quattro per te e guai a trattarlo male. Soprattutto a ridosso delle elezioni comunali, tutti tornavano a sorridere e non ti negavano una stretta di mano. Era arrivato il tempo di fare scorta di disinfettante, perché acqua e sapone non bastavano come detergente.
Anche chi non aveva mai visto un film di Pietro Germi, aveva imparato a distinguere i burattini della provincia arrivista dell’Italietta di mezza età: i democristiani papponi che ti mettevano in tasca pezzi da 10 e 20 mila delle vecchie lire per allenare l’olfatto al profumo fradicio del potere locale; i socialisti craxiani che inseguivano carri funebri per spargere garofani di prima scelta, mummificando le vecchie glorie; i comunisti cinguettanti che se la menavano con la solita filastrocca che in Russia tutto filava liscio come l’olio; i radicali chic a dieta perenne, perché lo sciopero della fame era un pretesto comodo per fare la cresta sulla spesa; i liberali insicuri che non sapevano mai quale fosse la strada del rigurgito tra libertinaggio e permissivismo; i fascisti piagnucoloni perseguitati dall’ombra del vittimismo plebeo.

I social network hanno cambiato la scenografia – la roccaforte dello sharing e del virtuale sembra più immediata ed incisiva – ma non il vizio. Anzi, hanno contribuito ad incrementare l’illusione ottica di pensare che basti poco per affacciarsi alla politica: un numero consistente di contatti su Facebook, attirati e coltivati nella tana del lupo, con le frasi scemotte che renderebbero interessante anche la peggiore delle bacheche.
Se una volta davamo ai tipografi la colpa per i manifesti osceni da campagna elettorale, oggi non possiamo che bastonare “i photoshoppari” improvvisati. Sono loro a far girare nei nostri feed o bacheche i santini grezzi che spostano una campagna elettorale locale verso una propaganda politica glocal, dimenticando che il voto dovrebbe riguardare chi vive ancora in quel posto.

Di fatto non è così, tanto che l’ultima tendenza è ritrovarsi membro di un gruppo su Facebook senza alcun preavviso o invito. Le notifiche proliferano e ti accorgi di essere contemporaneamente un simpatizzante di Destra, Sinistra e Centro. Come fare a non scontentare il “compagno di gioventù” che ti ha arruolato come supporter alla sua compagna elettorale?

  • Sganciarti dal gruppo, facendo finta di niente.
  • Uscire dal gruppo e postare un messaggio in bacheca che sottolinea la tua posizione netta: incazzatura a mille.
  • Inoltrare segnalazione di spam a Facebook.
  • Allertare il tuo legale per violazione di privacy.

Qualsiasi strada sceglieremo, sarà legittimo rimpiangere i vecchi tempi, quelli in cui erano riconoscibili i volti goffi degli aspiranti consiglieri comunali, assessori o sindaci, oggi moribondi e rifilati in un gruppo del qualunquismo facebookiano, e peggio ancora convinti che basti camuffarsi da piazzista-social per essere un divo volgare, pardon un politico glocal!

Incendio sulla Costa Allegra a fil di Twitter

In rete e nei social network corre la notizia dell’incendio sulla nave Costa Allegra a largo delle Seychelles. C’è chi parla di “terrorismo mediatico” o addirittura chi fa intendere che “un focherello a bordo” non avrebbe meritato un titolo così allarmante. Io direi che qui entra in gioco il criterio di notiziabilità.
Fuoco e fiamme a bordo? La notizia c’è e c’è tutta. Poi spetta alla compagnia e alle autorità di competenza fornire i dettagli.

Intanto, mettiamo in chiaro una cosa: c’è stato un incendio a bordo di una nave con mille e passa persone e la notizia andava comunicata con questi toni, Costa Crociere o non. Poteva capitare su qualsiasi imbarcazione, ma purtroppo la legge di Murphy ha detto la sua: quando di mezzo c’è la sfiga – quella che i napoletani chiamano mala ciorta – tutto diventa opinabile. A quasi due mesi dalla tragedia della Costa Concordia, ci risiamo. Per la disfatta dell’isola del Giglio è stato mandato alla forca il capitano e adesso?

Su Twitter, c’è chi la butta sullo humor: “Se Costa Crociere voleva avere engagement rate più alto della storia di Fb poteva dirlo, non c’era bisogno di distruggere due navi”. Qui c’è poco da scherzare. Chiediamoci piuttosto quanti saranno a pianificare una crociera come vacanza.
Fino ad ieri c’erano dubbi, oggi potrebbero esserci certezze. Mentre gli strateghi della comunicazione sono ancora a lavoro per attutire l’uragano dell’Atto I, per questo Atto II ci appendiamo alla tweettata di Snoopy the Writer: “L’incendio sulla #CostaAllegra ci dà una certezza: ora alla Costa Crociere hanno bisogno di @lddio al marketing.”

Twitter ci risiamo: Dopo i “senzatetto” di Bolle e Berra, le “madrelingue” della Minetti…

Dopo la brutta figura del ballerino Roberto Bolle – a cui legherei quella dal blog della sottosegretaria francese Nora Berra “senzatetto, restate a casa” – Twitter continua ad essere territorio di insidie e di gaffe. Se fosse vivo il compianto Mike Bongiorno, ammonirebbe con il suo tono scanzonato: “Signorina, mi è caduta sulla lingua”.

Questa volta si tratta di Nicole Minetti, il consigliere regionale del PDL, che ricorderemo per quest’altra tweetta memorabile. Per ribattere alle critiche a seguito dell’abbandono della commemorazione dell’ex Presidente Oscar Luigi Scalfaro, Nicole si è difesa così, diciamo alla buona: “Ben detto…Madrelingue tutte omologate e dicono la stessa cosa”.

Chissà se chiederà risarcimento alla Apple per la figuraccia. E’ sempre così, si fa a scaricabarili, dando colpa all’iPhone di turno che ha corretto il vocabolo. Tocca all’aggeggio tecnologico più desiderato metterci la pulce nell’orecchio a fil di rete: L’italiano lo sanno scrivere davvero in pochi. Si dice “malelingue” o “madrelingue”?

Gli urlatori social non perdonano e ci risiamo: Nicole ha fatto in un batter baleno il giro di tutti i nidi cinguettanti della rete. Meno male che nel 2007 Twitter era ancora massonico in Italia, altrimenti Antonella Clerici avrebbe finito in anticipo con il babysitteraggio in tv dopo la sua riflessione arguta: “Non posso fare a meno del c***o”.

Nicole Minetti, gaffe su Twitter

La bourde de Nora Berra

Roberto Bolle e Twitter: il ballerino che ha offeso clochard e napoletani

Roberto Bolle e Twitter: il ballerino che ha offeso clochard e napoletani

“I senzatetto che s’accampano e dormono sotto i portici del San Carlo, gioiello di Napoli, sono un emblema del degrado di questa città”. L’affermazione di Roberto Bolle, l’osannato ballerino del Teatro alla Scala di Milano, è una doppia e imperdonabile offesa nei confronti dei clochard e degli stessi napoletani. Una riflessione fuori posto destinata ad essere un boomerang verso i VIP saccenti, apostoli delle mode social. Il 2012 è l’anno di Twitter e il cinguettio sta diventando la vetrina prediletta nello star system dello show business italiano.

Peccato che Bolle, come tanti altri suoi colleghi, non abbia percepito la filosofia di una tweettata o il valore di questa piattaforma social, tutto all’infuori del sipario-prigione degli adoni. Le riflessioni necessitano di un pensiero, le offese gratuite di stupidità. Il ballerino del tempio scaligero dovrebbe sapere che, alle porte del Teatro San Carlo di Napoli, proprio dove si erano accampati quei “barboni”, c’è un altro palcoscenico. Quello di oltre tre secoli di storia, consegnata nelle mani di un popolo. In quel punto preciso della città si è giocato il tutto e per tutto, tra sogni e delusioni, in balia di rivolte o rivoluzioni, offrendo un luogo di rifugio anche ai diseredati.

Napoli è da sempre la casa di tutti, senza discriminazioni. Il tweet di Roberto Bolle – rimosso dopo le polemiche a dimostrazione di chi non sa comunicare (mai cancellare un cinguettio!) – potrebbe far da spunto al maestro Roberto De Simone per la creazione di un’opera buffa, che abbia come protagonisti proprio i clochard. I napoletani e i senzatetto dovrebbero chiedere un risarcimento morale al ballerino incauto, barattando di bandirlo dal San Carlo e dall’Unicef.

Viviamo in un paese democratico ed è giusto che ognuno esprima il suo pensiero. I twitterini hanno mostrato il loro dissenso e forse anche quei napoletani, frequentatori assidui di teatri, che una volta avranno visto Roberto Bolle volteggiare sulla scena, convincendosi che una macchina carrozzata di tecnica può essere priva d’anima.

 Bolle e i barboni sotto i portici di Napoli…

 Clochard sotto i portici anche a Londra

 Se Twitter diventa impressionista…