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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Il bacio da Facebook in una cannuccia. Non ci cascate perché non fa più filù filù filù filà

Sì, è vero: baciare è un’arte, ma è anche uno dei momenti a cui una coppia non dovrebbe mai rinunciare. Spesso lo si affronta con una tale sfacciataggine o leggerezza da privarsi del risveglio di quel gesto. Un bacio non è forse lo scrigno segreto che custodisce il sapore, la fisicità e la fragranza della dolce metà? Adesso sarà davvero dura spiattellare a tutti gli autori che lo hanno messo in versi– da Catullo a Cesare Pavese, da Alda Merini a Jaques Prevert – l’amara verità. Nell’euforia dei rapporti virtuali che nascono e muoiono nella rete dei social network, ecco che arriva quello che potremmo tranquillamente battezzare come il bacio da Facebook. Una diavoleria che i giapponesi vogliono metterci in testa, anzi direi “in bocca”: il Kiss Trasmission Device, uno strano aggeggio che, attraverso una cannuccia, ci fa baciare chi sta dall’altra parte dello schermo. Come? Muoviamo la lingua e poi sarà il PC ad elaborare il tutto e trasferirlo alla persona amata. E chi sta dall’altra parte, si attacca alla cannuccia, ricambia e i sensori computerizzati provvedono alla trasmissione.
La tecnologia ci sta dando davvero così alla testa da trasformare una meraviglia in un gesto bionico per farci assomigliare sempre più ad una macchina. E questa, ahimé, non è fantascienza., ma un bizzarro tentativo di chi vorrebbe convincerci che pure un bacio non debba fare più “filù filù filù filà”.

Facebook e le Over 30: in fuga dalle “zitelle” acide

Dimmi che bacheca hai e ti dirò chi sei. Ieri valeva per le Over 20, questa volta tocca alle Over 30. Un’altra bella traversata dello stivale italiano nei territori virtuali di Facebook, ma con le dovute precauzioni. Infatti, l’universo femminile è complesso e in balia degli sbalzi anagrafici si passa dal brio delle ventenni ad un’insolita acidità della generazione successiva. E’ tipico di alcune over 30 single – anzi io direi “zite” – che spiattellano in bacheca ciò che vorrebbero essere, ma non sono. Affollano le mura facebookiane con frasette preconfezionate, mentre gli ultimi principi azzurri superstiti fanno bene a darsela a gambe. Per fortuna quelle acide sono una ristretta minoranza, perché tra single, fidanzate, mamme e mogli ci sono comunque trentenni energizzanti. Quelle che cito di seguito rappresentano l’orgoglio delle trentenni perchè sono diverse dalla massa e sono piene di entusiasmo.
Calabria on my mind tra le assidue incursioni di Antonella M. e gli sbalzi frizzantini di Marida R., con una bella collezione di foto per entrambe che intravedono la famiglia come un bel nido. Annalisa C . non è “la bachecara assidua”,ma alterna la solarità abruzzese dei suoi post all’effetto nostalgia delle immagini che rincorrono i suoi vent’anni. Giada G. trasmette la passione vulcanica del suo Vesuvio con una presenza costante, post a 360° gradi, adeguato spazio alla famiglia e agli affetti. Si presenta così: “E’ da quando sono nata che cerco di capire come sono fatta e ancora non l’ho scoperto del tutto”. Di una cosa siamo certi: l’esplorazione dei territori del social network permette a Giada di essere sempre sé stessa ovunque sia.
Sabina C. è la campionessa dei “mi piace”, zigzagando tra le bacheche altrui e lasciando il segno gradito della sua presenza, mai invadente e con il pregio di spunti e riflessioni; Brigida M., mamma premurosa, si dondola tra provocazioni in sottoveste di aforisma e le segnalazioni di articoli a sfondo sociale; Alessandra N. sa sciorinare la sua romanità segnalando eventi “off” e coltivando il seme della maternità attraverso le foto della sua bellissima bimba. Le omonime giocano a fare ping-pong su i cambi delle stagioni più interiori. Stesso nome, stesso cognome, entrambe mamme, ma non sono parenti: Barbara P.! La prima è caprese e si barcamena tra aforismi nazional-popolari; la seconda è senese e galleggia su melodie e sentimentalismi. Attenzione, perchè si imbestialisce se sulla bacheca le postate un brano di Natale Galletta, nonostante sia cresciuta nei quartieri Spagnoli a Napoli.
Oltrepassando il Po ce n’è per tutti i gusti: Maria N., pugliese emigrata con l’inclinazione da poetessa e verseggiatrice di social network; Elisa D.B., impeccabile P.R., composta fino all’ultimo post in bacheca; Roberta V. con l’occhio fotografico ramingo e la semplicità dispersa tra i paesaggi dell’Oltre Po pavese; Rossella P. che difende con le unghie la bacheca da borseggiatori di tag e video fuori posto; Immacolta M. che anche su Facebook “parla in faccia” e lascia sussulti d’amore al suo brianzolo; Tania G., facebookiana mattutina, con un occhio sempre aperto ai soprusi e alle ingiustizie da segnalare e commentare; Daniela D.B. che al momento giusto piazza a singhiozzi parole e immagini della sua Sicilia.
E la sposa futura? Vi presento Sara P., il cui biglietto da visita è “Come me nessuno mai”. Foto del profilo solare (sorridente col suo cagnolino) e pronta a coinvolgere gli amici per il matrimonio imminente con l’adorato Gio: dopo il melodramma di abito bianco e bomboniere, è l’ora della prova trucco: riusciranno i nostri eroi a trovare un truccatore perfetto per questa deliziosa milanese dal cuore pugliese?
Nonostante non si conoscano tra loro, tutte queste over 30 hanno qualcosa in comune: sono nate negli anni ’70 e cresciute con i tegolini del Mulino Bianco, i cartoni animati di Lady Oscar e Occhi di Gatto, le mamme che le torturavano con Dallas e le telenovelas sudamericane, il rock grezzo di periferia di Vasco. E perdonatemi, se sono tornato a fare “lo spione da bacheca” per cucire altre storie da raccontare.

Quanto ce ne frega del matrimonio di William e Kate?

Ho tirato fuori dall’armadio lo smoking. Forse lo riutilizzerò il prossimo 29 aprile per imbucarmi al matrimonio di William e Kate. Del resto, sono recidivo: la prima volta che ho messo piede nell’ Abbazia di Westminster mi sono infiltrato, perché, nella mia ottica sovversiva da adolescente, era impensabile pagare l’ingresso per una Chiesa. All’epoca, volevo rendere omaggio ad Elisabetta I, sovrana piena di contraddizioni, grazie a cui mi ero potuto cibare di testi teatrali pregnanti.
Tornando al Principe felice e alla consorte, a parte i souvenir kitch che affollano Londra così come il gossip ridicolo che invade il web, mi sono chiesto quanto ce ne importi davvero di questo matrimonio reale. Nel cuore delle nuove generazioni la monarchia anglossassone non rappresenta neanche più il ridicolo accessorio ingombrante, che continua a costare agli inglesi sudore e fatica. E non ci vuole mica un film di Ken Loach per svelare l’amara verità? Il fumo negli occhi delle nozze di William e Kate non cancellerà i problemi sociali ed economici che stanno divorando la Gran Bretagna, isola infelice dilaniata dai litigi da cortile dei Laburisti e Conservatori.
L’iconografia di Buckingham Palace è finita nell’ultimo gesto che ha decapitato per sempre gli intrighi di corte: la regina Elisabetta che china il capo al passaggio del feretro di Lady Diana Spencer, l’ultima principessa, l’ultima “Rosa d’Inghilterra” che aveva imbarazzato gli Anglicani per l’oltraggioso imparentamento con i Musulmani. Paradossalmente sarà proprio il fantasma di Diana a vagare sulle nozze più attese dell’anno, perché in tanti cercheranno di trovare nel matrimonio di William e Kate quello della principessa ribelle con l’ingessato erede al trono Carlo.
Quel 29 luglio del 1981 ero incollato anche io alla tv per seguire l’evento. Ero in vacanza a Paestum. Presi per mano Benedetta, la mia fidanzatina, le preposi una cerimonia improvvisata tra le cassette di bibite del deposito del nonno: Io ne avevo 8 e lei 5. Le posi sul capo uno scialle velato fregato a mia madre e usai come anello quello che apriva le lattine di Coca-Cola. Io e Benedetta fingemmo di essere Carlo e Diana e, appena la diretta televisiva terminò, sognammo che quella carrozza arrivasse da Londra a Paestum per portarci via. Non so se oggi il matrimonio di William e Kate ispirerebbe una coppia di bambini come è successo a noi. Non credo, perché dopo tutto i futuri reali sembrano una coppia di bambolotti destinati a finire sulle bancarelle dei giocattolai.
Nel caso non usassi lo smoking per le nozze londinesi, sapete cosa vi dico: mi rimetterò alla ricerca di Benedetta per dirle che trenta anni fa avevamo visto lungo. Del matrimonio del 29 aprile non ce ne frega niente, perché da allora i principi e le principesse vivono fuori dai palazzi.

Facebook e le Over 20: Quello che le donne (non) dicono

Dimmi che bacheca hai e ti dirò chi sei. Sappiamo bene quanto Facebook sia abitata da tanti alter-ego virtuali che non corrispondono alla realtà, ma forse ci sono rare eccezioni. E se fare lo spione da bacheca è un peccato veniale, allo stesso tempo può essere anche un modo originale per attraversare l’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, e guardare la quotidianità con lo sguardo delle over 20.
Marika DM. si presente con l’aforisma “Il cinismo è l’anestetico più economico che sono riuscita a procurarmi”, ma poi in bacheca sprizza la sua solarità non lontana dalle falde dell’Etna. Non è una facebookiana cronica – pochi aggiornamenti e rari cambi di foto profilo – ma questo perché a volte i suoi impegni da studentessa glielo impediscono. Patrizia C. sa raccontare con scatti fotografici e tanti link la sua terra, la Puglia, a cui non rinuncerebbe mai per niente al mondo, nonostante in lei ci sia l’istinto da fotografa giramondo. Alessandra G. è la facebookiana col megafono e assomiglia un po’ ad una di quelle manifestanti, tipo Barbara Streisand nel film “Come Eravamo” di Sidney Pollack, che nei tempi dei social network protesta attraverso una selezione di notizie interessanti, che rischieremmo di perderci. Alla falde del Vesuvio c’è Luisa A.,facebookiana sporadica, quella che nasconde bene in bacheca i suoi stati d’animo. Spesso cambia la foto del profilo e trasmette dal suo l’album la sua solarità. Sbirciando il suo album fotografico, traspare il bisogno di stare assieme alle persone a cui è legata davvero. “L’amore non vive di parole né può essere spiegato a parole.” è il biglietto da visita di Luisa, che spesso condivide in bacheca i video musicali del suo Biagio (Antonacci), di cui è una fan sfegatata.
Giusy L. sa come movimentare la bacheca e la sua spigliatezza da blogger raggomitola molte frasi in argute riflessioni; Katia M., a detta sua “la gioia fatta persona”, condivide il profilo tra il marito, la dolcissima figlia e le persone care, la ciliegina sulla torta della vita di questa varesina emigrata in “terronia”; Amanda S., “scrive, guarda e ascolta” e si lascia andare ad innocenti evasioni che fanno della musica il suo pane quotidiano. Perchè non far evaporare i suoi sogni brianzoli verso gli spazi indefiniti metropolitani?
A pochi passi dal Po c’è Laura C., che sul terreno scivoloso dei social network grida ad alta voce: “Nella vita ci si innamora due volte: la prima pensando che sia l’ultima e la seconda sapendo che è la prima”. La sua bacheca assomiglia ad un diario work in progress sopra le righe e le foto del profilo non sono mai casuali, perché connotano gli interni dell’anima e i passaggi, dall’infanzia alla gioventù. Infine, le immagini prendono con prepotenza il sopravvento sulle parole sulla bacheca di Alice D.F., iphonista doc, in cui il mondo di questa milanese atipica viene circoscritto da scatti deformanti. Le foto sembrano un singhiozzante flusso di coscienza joyciano e lasciano i segni di un mondo interiore in continua evoluzione, come se Alice fosse uscita da un cartone animato – sottolinea attraverso la voce della scrittrice Ann Marie MacDonald “Sono perdutamente innamorata della mia vita” – o dall’omonima canzone di De Gregori.
Cosa hanno in comune tutte loro? Essere nate sotto lo stesso cielo, quello degli anni ’80 e adesso con la solarità dei loro vent’anni sono lì che lottano per realizzare piccoli sogni e dare concretezza al loro mondo interiore. Forse non si incroceranno mai, ma esistono nella realtà. Questa volta sono entrate a far parte di un piccolo racconto, cucito inconsapevolmente sul filo di quello che le donne (non) dicono!

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Non tocca più solo ai personaggi famosi – criticano noi giornalisti e blogger perché tiriamo fuori dal cassetto “il coccodrillo” su misura – e alle vittime dei fatti di cronaca, ma a chiunque se ne vada all’altro mondo. Mi sembra di essere tornato nei piccoli paesi. Tutti mormoravano nella lettura del manifesto del defunto per capire chi fosse, a chi appartenesse (guai se il tipografo ometteva il soprannome per cui era conosciuta la famiglia), e se poi era un giovane strappato alla vita cominciava la litania collettiva. Eppure non si capiva bene se questa ostinata partecipazione comunitaria al dolore fosse la sindrome paesana dell’appartenere tutti alla stessa razza o si riducesse a una curiosità folcloristica che ci mette poco a diventare cialtroneria inviperita.
Torno a ripeterlo: le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Appresa la triste notizia, la morte diventa “social”: trovi un messaggio che ti invita ad andare su una tale bacheca per guardare la foto taggata, accertarti chi fosse il malcapitato e lasciare il tuo messagino di cordoglio o uno degli aforismi mielosi e preconfezionati che circolano nei social network. A questo punto mi permetto di suggerire alle pompe funebri la vendita di un nuovo servizio: una fan page-lapide o la gestione post-mortem del profilo della persona scomparsa secondo i canoni dell’animazione del villaggio turistico “facebookiano”, anzi pacchiano (fa pure rima!).
Il dolore è troppo serio per finire spiaccicato nella piazza rumorosa della rete; il dolore è privato e tale deve restare, e non può essere vissuto come un passaparola, ma con le persone a cui ci sentiamo davvero vicini. E i legami non si costruiscono sul quantitativo di pseudo-amici che abbiamo in rete, ma nella realtà che ci porta a condividere le emozioni e ci mormora l’amaro “fujetevenne” eduardiano da queste visioni grezze e meschine, a cui mi ribello da quando scalpitavo nel pancione di mia mamma.

14 febbraio, San Valentino: lo scintillio

Rosario PipoloMessaggi palleggiano da una bacheca all’altra, frasi confezionate affollano i social network e gli aforismi accartocciati dei Baci Perugina sembrano finiti in una vecchia soffitta. Ah sì, si avvicina San Valentino e persino chi non può far a meno della festicciola rubacuori commette la solita gaffe: il 14 febbraio non è la festa né dei fidanzati né degli innamorati, ma rischia di essere un giorno qualunque con i tempi che corrono. Quest’abbondanza di avance virtuali su Facebook o un solletico emotivo su Twitter ci allontana da una sorta di incantesimo, che non è prigioniero di una bella fiaba, ma è vivo nella realtà: lo scintillio.
Non si tratta né del colpo di fulmine, né della sbandata passeggera, né del fuoco di paglia che può spegnersi in una notte di passione. Lasciamo che il falò della vanità dei sentimenti si consumi nelle agorà finte dove il “mi piace” ad un foto tenta di sopraffare l’insostituibile incontro. Quello casuale, apparentemente insignificante, quello in cui ti freghi perché è lì che ci scappa lo scintillio. No, non è una scintilla, non fraintendetemi, è uno stato di benessere interiore che scivola tra le anime di due persone. E’ un equilibrio così denso da far entrare in un batter baleno il tuo essere in quello dell’altro, senza tener conto delle distanze anagrafiche, geografiche, sociali, culturali o del colore della pelle.

Lo scintillio
si manifesta in uno sguardo, nei suoi occhi e non è quella classica luminosità sul viso che può trarre in inganno. E’ una luce minuscola accucciata di sbieco tra le sue pupille, che si intravede persino se lei è occhialuta. Appena si toglie gli occhiali, lo scintillio ne approfitta e si manifesta in tutto il suo abbaglio. Al momento non ci fai caso, fai finta di niente e vai via come se nulla fosse successo. Invece è accaduto, perché lo scintillio arriva senza far rumore, a piedi nudi, come i passi silenziosi tra la neve.

E tu svampito che pensavi di restare a mani vuote nel giorno di San Valentino, hai visto come un giorno qualunque può diventare un giorno speciale.  Lei invece è lì, con la luce accesa fino a tarda notte, alle prese con l’ennesimo ripasso. Si stropiccia gli occhi, toglie gli occhiali e non si accorge che è San Valentino pure per lei, perché non vede il postit appiccicato tra le pagine del suo libro in cui è scritto più o meno così: “Mia cara, le principesse non sono quelle che hanno una schiera di servitori o vivono a corte, ma le ragazze speciali e distratte, che senza saperlo custodiscono in uno sguardo la magia dello scintillio”.

  Colazione da Tiffany, 50 anni dopo…

  Diario di Viaggio: oltre la strada della mia infanzia

  A te

Facebook: tutti pazzi per Cityville? Io, no!

L’anno scorso un amico osò interrompere la nostra conversazione telefonica: “Adesso ti lascio, devo tornare alla mia fattoria”. Ed io con aria bonaria replicai: “Non sapevo di questa nuova attività”. Insomma, mi ero imbattuto in un’altra vittima del gioco facebookiano di Farmville.
All’inizio del 2011 il popolo del social network più affollato del pianeta si sta dando alla pazza gioia su Cityville, il nuovo game che vi trasforma in proprietari di una bella casetta, senza l’accollo di un mutuo. E’ nato pure il primo fan site tutto italiano con trucchi e segreti.
“Cos ‘e pazz”, direbbero nella mia Napoli, soprattutto se la ragazza che ti piace diventa abitante della nuova città facebookiana e non c’è niente che le faccia fare un passo indietro.
“Scusami, mi tocca andare a raccogliere le carote”, ti scrive improvvisamente in un messaggio. Insomma, un modo garbato per liquidarti. Tuttavia, c’è sempre una consolazione, prima che sopraggiunga l’estrema unzione: ti invita ad entrare nel paesotto virtuale di Cityville e diventare suo vicino di casa. Qui il vicino puoi scegliertelo su misura. Accipicchia, che fortuna mi sono detto inizialmente! E pensare che io mi stavo dannando per affittare un buco che affacciasse su casa sua per corteggiarla alla vecchia maniera.
Io non voglio la residenza a Cityville, ma nel suo piccolo mondo, quello vero in cui potremmo condividere anche il gioco, perchè no, magari facendo un furtarello di tanti pezzettini delle costruzioni Lego e abbozzare la casetta dove vorremmo vivere assieme.
Il rischio? C’è ed è quello che mi ripeta la solita filastrocca: “Mi spiace tu sia arrivato fin qui. Mi tocca andare a raccogliere le carote”. E non quelle che mia mamma mi spiattellava ogni settimana a pranzo, ma quelle finte di Cityville, che non hanno sapore e ci privano di un bellissimo piacere: tornare a “giocare” guardandoci diritto negli occhi.

Non chiamerò mai mia figlia Ruby!

Non ne posso più: navigo nel web e vedo Ruby, spilucco un boccone di telegiornale e c’è di nuovo lei, in giro per strada si parla di lei. E spero che nel mio prossimo viaggio all’estero non mi fermino per strada chiedendomi: “E’ italiano? Cosa ci dice di Ruby?”.
Non parlo di Ruby Tuesday, simbolo femminile che ha perforato l’immaginario collettivo degli anni sessanta attraverso l’omonimo brano dei Rolling Stones. Qui si tratta della Lolita che ha alzato un polverone mediatico e sta facendo tremare la politica e le istituzioni italiane. A confronto Monica Lewinsky sembra una liceale infuocata e l’impeachment di Bill Clinton una bravata da ingenuo scolaretto delle scuole superiori. Il pianeta web e i social media criticano la stampa per il supporto ad un  circo mediatico, che purtroppo sta togliendo spazio a problematiche più importanti. Eppure ieri anche il popolo social più osservante è inciampato nella trappola: diffondere dati sensibili e delicati come il dossier pubblicato dal sito Dagospia.
I tempi della giustizia non sono quelli della rete, ma senza essere troppo canonici mi chiedo se ci sia una minoranza che sia arrivata a questa conclusione: lasciamo che certi atti siano divulgati quando saranno individuati i colpevoli di questa triste vicenda. E se l’agorà social del Belpaese ha bisogno di sconfinare nel gossip imprudente delle intercettazioni per tornare a parlare della prostituzione minorile in Italia, allora siamo messi male. L’amarezza è un’altra: chi svende corpo e bellezza può intascare in una serata quello che un operaio guadagna con un anno di fatica e dignitoso lavoro.
Una cosa è certa. Non chiamerò mai mia figlia Ruby per eliminare qualsiasi ipotesi di darla in pasto, col sorriso di padre sbruffone, ad un mostro pervertito, anche se sarò ridotto sul lastrico.

Matrimonio alla napoletana: o la busta o non mi sposo!

Busta o non busta, questo è il problema. Mica quella dell’immondizia, ma la bustarella con i soldi che non può mancare ad ogni matrimonio napoletano che si rispetti. Tutti lo snobbano, ma poi tutti vogliono il regalo in cash. Con la crisi che c’è in giro, ritrovarsi tra gli invitati di un banchetto nunziale non è confortante per niente.
Una volta le indagini si facevano via telefono, adesso basta aggirarsi sulle bacheche dei social network per sondare gli umori e capire quanto bisogna sborsare per far felice i neo sposini. Tuttavia, il regalo in busta è anche l’ultima spiaggia per pagare il conto salato della cerimonia: chi famiglia napoletana rinuncerebbe mai all’evento sfarzoso? Nel 1971, un cugino di mia madre, organizzò il matrimonio facendo i conti sui regali in denaro degli invitati, senza calcolare il rischio di non raggiungere la somma necessaria. Nonna Lucia fu molto chiara con nonno Pasquale dopo il taglio della torta e gli bisbigliò: “Pasqua’ dobbiamo raddoppiare la somma per Enzuccio, altrimenti restiamo qui a lavare i piatti”.
Quarant’anni fa come oggi la ruota gira sempre allo stesso modo, con una differenza: nel nuovo millennio i matrimoni durano il tempo di una stagione. Insomma, gli sposi dovrebbero impegnarsi con gli invitati a restituire il premio in caso di divorzio o separazione entro i primi 36 mesi di vita coniugale. Per non parlare dei separati e divorziati che circolano in Italia, molti dei quali hanno la faccia tosta: si risposano per la seconda, terza e quarta volta e pretendono pure la bustarella! E poi non ha ragione zia Concettina a starnazzare: “Il mio dovere l’ho fatto al primo matrimonio. Mmo’ basta”.
Scampato il pericolo della lista nozze, le alternative sono due: riciclare un vecchio regalo inutile, trafugato da qualche altra ricorrenza oppure donare i soldi agli sposi in sei comode rate.
Povero papà mio, meno male che non legge i miei articoli, altrimenti creperebbe dalla vergogna. Casomai salirò all’altare, ho già la soluzione: matrimonio “sponsorizzato” da piccole aziende agroalimentari locali,  senza dover chiedere niente a nessuno, con la speranza di poter scrivere con una bomboletta spray: “…E vissero felici e contenti”. O quasi!

Cartoonia sui profili di Facebook: vince il Giappone degli anni ’70 e ’80!

Sembrava il capriccio infantile di qualche “faisbukkiano”, invece l’invasione dei personaggi dei cartoni animati nelle foto del profilo di Facebook aveva un suo perché. La settimana per i diritti dell’infanzia, proclamata dal 15 al 20 novembre, è stata molto “social” e il passaparola sulle bacheche è stato così suadente che nel giro di poche ore ogni nostro contatto italiano aveva rinunciato al suo “egocentrismo da profilo” per trasformarsi in un cartoon. Insomma, un modo simpatico per tornare ad essere bambini e ritrovare i nostri eroi  fino al 25 novembre.
Quale migliore occasione per un blogger se non quello di attraversare il social network più famoso per capire quali siano stati gli alter ego più gettonati?
In cima alla classifica, ci sono i personaggi degli anime giapponesi che legano le generazioni degli anni ’70 e ’80. I Robottiani hanno scelto i volti d’acciaio del rivoluzionario Nagai – Mazinga, Jeeg e Goldrake in pole position – le romantiche hanno recuperato il manga sentimentale dietro i sorrisi di Candy, Georgie, Lulù, Lady Oscar; le sovversive hanno chiesto in prestito la faccia a Lamù e alle tre sorelle di Occhi di Gatto; i controcorrente sono andati incontro a Yattaman, Conan, Gigi la trottola, Flo Robinson, il Tulipano Nero, Bia, la Principessa Zaffire, Capitan Harlock, i protagonisti di Galaxy Express e Pollon. Qualcuno si è ricordato del povero vecchio Magoo, qualcun altro dell’allegra brigata di Hanna-Barbera tra Penelope Pit Stop e il cane Mudley. Pochi si sono “puffati” da Puffetta o Grande Puffo, ma in tanti hanno chiesto asilo a Springfield per bussare il campanello di casa Simpson.
Furore anche per i personaggi Disney con Topolino, Minnie e le eroine delle fiabe di sempre. Le principesse hanno fatto gola alle giovanissime, inclusa La Bella addormentata nel bosco o Cenerentola, per lo più dimenticate, ma ricordate da chi sa che “i baci dei principi azzurri risvegliano dai lunghi letarghi”.
Una faccia in prestito”, come recitava il titolo di un album di Paolo Conte, è arrivata anche per me. E’ quella di Lupin III di Monkey Punch, nella versione poetica della prima serie televisiva, super popolare tra i profili.  Quel suo ghigno era più di un ammiccamento furbesco. E tu da chi ti sei fatto prestare la faccia e perché?