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Roma e l’addio al suo Califfo: “Tutto il resto è noia.”

Rosario Pipolo“Ciao, Franco. Ora senza te, tutto il resto è noia” non ha l’aria del solito striscione di un concerto allo stadio. E’ l’epigrafe che la borgata romana dedica al suo cantore, Franco Califano, con un vezzo da balera che mischia l’esistenzialismo di un Moravia agli eroi della borgata pasoliniana.

Franco Califano è stato la controindicazione della voce nazional-popolare degli anni ‘70 o l’anti-divo della discografia italiana d’autore, con la spavalderia di un teddy boy della Fontana di Trevi. Dicevano che nella vita privata il Califfo ancheggiava tra la fama di sciupafemmine e quella di legami con brutti ceffi, per giunta dalla “sniffata” facile. Sul palco, dietro gli occhiali scuri, diventava il neomelodico da fotoromanzi popolari con la romanità sotto la lingua, capace di sciogliere il cuore di chi popolava il quartiere.

Nonostante ciò, senza falsi moralismi né intellettualismi sofisticati, il Califfo aveva preferito legare la sua storia privata e pubblica a quella dei farabutti da borgata, i quali nell’urlo “maledetta noia” si erano fatti traduttori dell’esistenzialismo. “Tutto il resto è noia” non è un vecchio brano dimenticato in cantina ma il manifesto di uno stato d’animo che può far sprofondare la vittima negli abissi.

Esistere vuol dire anche osare per rincorrere le vittorie e le sconfitte dei giorni fugaci. Franco Califano intraprese più di quaranta anni fa una crociata contro quella “maledetta noia”. Si è dovuto ricredere chi lo accusava di nascondersi dentro un paio di occhiali scuri. La borgata romana però è andata oltre l’irrisoria apparenza. Il Califfo li metteva per capire di che forma fosse fatto il cuore del suo pubblico, che non lo hai mai lasciato solo, neanche quando la solitudine ha tentato di divorarlo e farlo a pezzetti.

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The Wall dei Pink Floyd, 30 anni dopo

Dopo 30 anni dall’uscita, The Wall continua a dividere i fan dei Pink Floyd: c’è chi lo considera un capolavoro, c’è chi lo trova un ripiego commerciale. I primi video di questo doppio concept album li ho visti su Italia 1, nei primi anni ’80, all’interno del programma cult DJ Television, orchestrato da Claudio Cecchetto. Io faccio parte dei primi, quelli che lo considerano un piccolo gioiello, con la consapevolezza che i Pink Floyd si fermano qui. David Gilmour era la musica, Roger Waters l’anima letteraria della band. Ogni volta che riascolto The Wall  in vinile, mi sembra di individuare altri spunti riflessivi. Al di là che il disco sia diventato il simbolo del Muro di Berlino, mi pare che gli assilli di Waters siano ancora molto attuali: alienazione e solitudine. Nonostante i social network stiano cambiando il nostro approccio ai rapporti interpersonali, quei due stati d’animo continuano  a dannare pure la generazione di YouTube, che ascolta musica con la voracità di chi vuole consumare a tutti i costi. La partitura  di The Wall, nonostante sia roba del 1979, sembra musica scritta ieri, pronta a legare le ombre della storia ai paradossi del presente. Qundo da ragazzino ho ascoltato l’album, il giorno dopo non sono stato più lo stesso dietro i banchi di scuola: ribelle al nozionismo, allergico all’imposizione del “precettore” modello. E poi si dice che un disco non ti possa cambiare la vita, anche se in parte. Riascoltandolo in occasione di questo compleanno speciale, ho ritrovato la vera spiritualità di The Wall: la presa di coscienza che ognuno ha i suoi muri, che lo rendono prigioniero dello scorrere della vita. Perché restare indifferenti? Perchè non abbattere le barriere e sovrapporre più stati d’animo? Ci vuole coraggio e sacrificio, ma la vita può tornare a sorriderci.