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La stanza di Niccolò Fabi: l’ultimo canto per Lulù

Non so se sia la solita beffa che il destino gioca pure a coloro che vivono ammantati dalla notorietà: la settimana scorsa la piccola Sophie, figlia di Pietro Taricone, è rimasta orfana; domenica scorsa un giovane papà, Niccolò Fabi, ha perso la sua piccola Lulù, all’anagrafe Olivia. E’ come se Sophie e Niccolò, nella suddivisione del rovescio dello stesso dolore, si ritrovassero a condividere con il mondo che li circonda una frattura molto intima, delicata, personale a tal punto da non immaginare che diventi pubblica, nella sfacciataggine del virtuale.
Facebook, da social network che era, è diventato l’agorà del dolore, l’anticamera dove poter lasciare sostare il proprio stato d’animo finché non trovi la sua naturale consistenza. Per Taricone sono nati diversi gruppi su Facebook in segno di cordoglio alla famiglia, mentre per Lulù, l’ultimo canto non è stato sussurrato attraverso una canzone, ma in una lucida confessione che Niccolò Fabi ha voluto lanciare attraverso la sua pagina di Facebook. Non dalle colonne di un giornale, non dai microfoni di una radio, non da un sito web, ma nell’hula-hoop virtuale della socializzazione per l’appunto: “Il dolore devastante che mi attanaglia la gola è la conseguenza dell’esperienza più…inaccettabile orrida ingiusta e innaturale che un essere umano può vivere – scrive il cantautore romano – Inutile dirvi che fino a quando non avrò trovato un modo per trasformare questo dolore e dare un senso costruttivo a questo incubo, il palcoscenico sarà l’ultimo posto in cui desidererò stare”.
Quando Fabi ha citato “un senso costruttivo a questo incubo” ho pensato a Nanni Moretti imprigionato dalla macchina da presa nel toccante film La stanza del figlio e a come il dolore ci renda tutti uguali, senza distinzione di niente. Il dolore per la perdita di qualcuno ci restituisce all’attendibilità dell’esistenza, anche se di mezzo c’è il virtuale?

Sei proprio un Taricone! Chi glielo dice a Sophie che papà non c’è più?

Vallo a dire ad una bambina di 6 anni che papà se n’è andato per sempre. Se avesse sbattuto la porta dopo l’ennesimo litigio con la mamma, potrebbe pure starci. Si troverebbe un modo fiabesco per far capire alla bimba che il papà non ha resistito, ha conosciuto un’altra, si è innamorato e non avrebbe potuto più farne a meno, perché di fronte ai sentimenti veri è solo da vigliacchi tirarsi indietro.
Tuttavia, questa non è la mala sorte che ha baciato la piccola Sophie: il papà è Pietro Taricone e non è stato lui a sbattere la porta di casa. Ha fatto un incredibile volo, senza sapere che quello sarebbe stato l’ultimo, in un’altra direzione, forse verso quella terra dei sognatori che molti di noi ci ostiniamo a chiamare Paradiso.

Gli amici pensavano che il destino di Pietro fosse restare il ragazzo di provincia, quello che gioca a fare lo sbruffone fuori al bar del paese assieme alla combriccola. Gli dei beffardi ci hanno messo del loro e gli hanno fatto assumere le sembianze del divo della nuova televisione: il coatto simpaticone del reality show, in quella memorabile prima edizione di Il Grande Fratello. Altro che latin lover.
Pietro Taricone aveva sotto la camicia di forza quella rozzezza tipica del Sud Italia, che nascondeva il cuore e quella semplicità di cui il Bel Paese vuole privarsi giorno dopo giorno. Poco importa se sia diventato un fenomeno da rotocalco del primo decennio del nuovo millennio; poco importa se sia stato l’attore di serie C del nuovo star-system confusionario; poco importa  se gli intellettuali lo giudichino il ragazzotto che ha inseguito l’apparire mettendo da parte la sostanza dell’essere. Forse era proprio il contrario, nonostante lo sfottò era diventato per tutti “Sei proprio un Taricone” come per dire “sei un grezzo e sbruffone”.

Cara Sophie, ti diranno che tuo padre non tornerà più. E’ un’idiozia. Non lo cercare nei vecchi filmati televisivi, nelle gaffe finite su YouTube, nei ritagli da gossip che qualcuno raccoglierà per te. Cercalo nei piccoli paesi del Sud Italia, nella semplicità della gente, nei percorsi che testimoniano la vera parabola della vita: conta l’essere e non l’apparire.
Ed oggi, Sophie, voglio togliermi questa maledetta giacca e cravatta, amplificare la mia cadenza di terrone, inzozzarmi le mani con panino e mortadella, sorseggiare un buon bicchiere di vino e sentirmi insultare: “Sei proprio un Taricone”. Oggi ho capito che assomigliare a tuo padre non è un insulto, ma l’innocente orgoglio di noi Meridionali, che non vogliamo privarci delle nostre radici.