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Natale, lettera dal Sudamerica per Mimmo Palanza

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rosario_pipolo_blog_2Le mie feste natalizie le ho lasciate in Sudamerica. Di passaggio a Firenze qualche mese fa  ho avuto la tentazione di portarti un fiore. Ho desistito, perchè la voce dell’anima mi ha assicurato che tu mi avresti aspettato lì. Questo è il viaggio che avremmo dovuto fare insieme, lo abbiamo fatto, in questo vagabondaggio on the road di 7.000 chilometri tra Argentina, Cile e Uruguay.

Ti ho ritrovato per le vie di Buenos Aires con tuo padre Camillo che leggeva il giornale agli analfabeti del paese nella Manoppello del secondo dopoguerra; ti ho ritrovato nelle albe indefinite della Patagonia ripensando alle nostre lunghe passeggiate al parco delle Cascine con il tuo cagnolone; ti ho ritrovato a Santiago del Cile sulla tomba di Salvador Allende e al museo dei Desaparecidos, perchè il tavolo della tua cucina diventò la scrivania dei miei vent’anni dove cominciai a documentarmi sulle dittature sudamericane.

Ti ho ritrovato tra Mendoza e Cordoba in mezzo al profumo dei vigneti, ripensando a quando davanti ad un buon bicchiere di vino rosso mi  raccontavi del trasferimento in Brasile con tuo fratello Roberto; ti ho ritrovato sulla nave che mi portava verso l’Uruguay negli occhi di Pablo, il fisico universitario di Buenos Aires che, negli anni della dittatura, scappò in esilio in Europa.

Eppure in questo errare indefinito ho ritrovato il nostro legame, ripensando a come tu sia riuscito a non farmi sentire mai ospite né a casa tua né nella tua vita. La prima cartolina te la mandai da Londra nel 1988, l’ultima te la mando dalla rambla di Montevideo: un tramonto condiviso con un pescatore sul Rio de la Plata.

Tra gi ultimi fili di luceti ho ritrovato alla stessa maniera di Manolin con Santiago in Il vecchio e il mare di Hemingway. Un giorno ci ritroveremo non come zio e nipote, ma come due esseri che hanno condiviso sogni e utopie di generazioni diverse. Tutto ciò ti ha reso uno dei punti cardinali della mia crescita, della mia esistenza.

Buon Natale, ovunque tu sia.

La “fifa” del Padrino del pallone gonfiato

Rosario Pipolo“Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”. Il Padrino era troppo sicuro di sé, avrebbe agito da “pallone gonfiato”, perché la ragnatela che aveva tessuto occultava il sistema. Era un mondo quasi perfetto.

E quando gli affari venivano conclusi e il profumo della mazzetta apriva le narici, allora il don Vito Corleone del pallone ghignava: “Un giorno, e non arrivi mai quel giorno, ti chiederò di ricambiarmi il servizio, fino ad allora consideralo un regalo”.

Quando mai il pallone ha fatto goal nella rete dell’America? Gli americani mangiucchiavano e sputavano noccioline ad un partita di football, ad un match di rugby e si ricordavano del calcio solo quando c’erano i Mondiali.

“Mai dire a una persona estranea alla famiglia quello che c’hai nella testa”. Don Vito ebbe l’illuminazione di portare il pallone d’oro tra le lobby americane. Tanto a riempirlo di passione ed entusiasmo ci avrebbero pensato i sudamericani di frontiera, figli della generazione che aveva consegnato il pallone tra i piedi degli dei delle favelas, rendendolo un dio pallone nel mondo.

Don Vito annuì: “Perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia non è mai un vero uomo.” Quaranta anni fa due bravi giornalisti sgominarono il clan insediato a Washington, facendo dimettere il peggiore Presidente degli Stati Uniti d’America. Cosa riuscirà a fare oggi l’FBI contro la lobby del “pallone gonfiato”?

Altro che mani nella marmellata. Questa è davvero merda essiccata al sole. E’ giunta l’ora della “fifa” anche per il padrino del pallone gonfiato?

Custodi del creato: Il Sudamerica di Papa Francesco come l’Est Europa di Giovanni Paolo II

Rosario PipoloDopo una settimana dall’Habemus Papam, ci sono gesti a sufficienza per riflettere. Papa Francesco ha conquistato tutti, credenti e non. In volo tra le parole del primo Angelus e quelle dell’insediamento di ieri davanti ai capi di Stato, diciamolo pure: Abbiamo un pontefice spirituale, umile, concreto e persino ambientalista.
Ciò che sta accadendo in Italia in questi giorni, rievoca una polaroid che mi passò dinanzi agli occhi di bambino alla fine degli Anni di Piombo: un Papa polacco a San Pietro e un Presidente partigiano al Quirinale. Forse qualcosa sta cambiando. Nel 2013 il risveglio con Francesco a capo della Chiesa e la coppia Boldrini-Grasso ai timoni di Camera e Senato; nel 1978 Giovanni Paolo II e Sandro Pertini, quest’ultimo tra l’altro con il fardello della Prima Repubblica corrotta e melmosa, lasciato dal predecessore Giovanni Leone.

Tornando a Jorge Mario Bergoglio, pardon Papa Francesco, non avevamo bisogno del bisbiglio della presidente Argentina e della richiesta di mediazione per le Falkland per abbandonarci a vezzi di geopolitica. Alla fine degli anni ’70 i Paesi dell’Est Europa si affacciarono al balcone: l’asse spirituale-politico del sognatore Karol Wojtyla e del visionario Lech Walesa diede i frutti sperati. Oggi a sporgersi allo stesso balcone c’è il Sudamerica. Non le Americhe – la cortina di ferro tra USA e l’altra America è ancora troppo marcata – ma l’America Latina, quella che per decenni agli occhi di europei e italiani è stata beffeggiata dai cliché delle dittature facili, balli tropicali e i faccioni di Che Guevara che sventolavano sulle bandiere. L’Argentina di Papa Francesco non è una pallonata di Maradona, una notte di tango a Buenos Aires, un ululato appassionato di Mercedes Sosa o lo sbuffo a fumetti della Mafalda di Quino che “di questa minestra non ne può proprio più”.

L’Argentina di Bergoglio è quella del Peronismo, della dittatura dal pugno di ferro di Videla e del dramma dei Desaparecidos, delle rivendicazioni colonialiste delle isole Falkland, delle favelas e dell’estrema povertà, tenuta nel pugno da un piccolo branco di ricchi sfondati. Nello sguardo tenero di Papa Francesco si intravede lo sforzo del parroco umile, oggi “parroco del mondo” senza oro né scarpine rosse, che ha saputo affrontare la povertà e camminare a fianco degli emarginati, attraversando sottovoce e con concretezza la storia travagliata del suo Paese.

Il Sudamerica si aspetta che Papa Francesco si faccia umile portavoce della sua identità politica ed economica, soprattutto oggi che gli scenari sono in continua trasformazione: i sogni filo-occidentali delle generazioni cubane che pensano al dopo-Castro; lo stallo del Brasile di Lula; il Venezuela post-Chavéz tra ventate populiste e intrighi di palazzo; gli scheletri nell’armadio lasciati da Pinochet nel Cile contemporaneo (dossier e fiumi di articoli ci dicono che dal Vaticano alla vigilia dell’11 settembre 1973 non mossero un dito per evitare la caduta di Allende); i contributi di Uruguay e Paraguay allo sviluppo dell’economia sudamericana; il filo religioso che lega la comunità messicana alla terra di frontiera tra voltagabbana repubblicani e sognatori democratici.

E’ vero, Papa Francesco lo ha ribadito: “La Chiesa non ha natura politica ma spirituale”. Lo sosteneva anche Giovanni Paolo II, ma poi accadde qualcos’altro. Oggi il Sudamerica aspetta il suo riscatto, come accadde ieri per l’Est Europa. E nella “custodia del creato” rientrano anche i passi silenziosi della storia, che a volte non fanno rumore come quelli del Padreterno.