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Eurovision 2022: Mammoni nell’Ucraina in guerra dei Kalush

I venti di guerra hanno cavalcato l’onda emotiva dell’Eurovision 2022 e hanno dato il podio alla Kalusha Orchestra, che ha consegnato all’Ucraina di Zelensky il palco della prossima edizione.
Chi fantastica già sulla ricostruzione postbellica e sogna di mettere le mani nella marmellata degli affari edili d’oltreconfine, ha ascoltato Stefania dei Kalush pensando fosse l’ennesimo inno anti-Putin. Abbindolati dallo stile folk, che per certi versi somministra slanci musicali che la mia generazione associava a Bregović e alle bombe del conflitto serbo-bosniaco, in tanti non si sono accorti che la Stefania vincitrice dell’Eurovision Song Contest è un omaggio alle mamme ucraine.

TUTTI MAMMONI

Così torniamo ad essere “tutti mammoni” senza riserva ma con uno sguardo che non cede sentimentalismi alle nostre madri emancipate, occidentalizzate e supersoniche, manager dietro la scrivania con l’agenda impegnata, con il tempo tiranno che le perseguita in affanno.
La musica in stile hip hop e il folk dei Kalush sputa parole che raccontano madri ucraine, soldatesse o no, somiglianti più a quelle della generazione delle nostre nonne, dove anche quando tornavano massacrate dai lavori dei campi erano padrone del tempo che disegnava le stagioni della vita.

Stefania mamma mamma Stefania
Il campo fiorisce, ma lei sta diventando grigia
Cantami una ninna nanna mamma
Voglio sentire la tua parola nativa


MANIFESTO MUSICALE TRA PACIFISMO E MATERNITA’

Se anche dietro Stefania si nascondesse la madre Ucraina e un velato orgoglio nazionalista rinvigorito, ai Kalush resta il merito di aver stampato un manifesto musicale tra pacifismo e maternità.
I rintocchi di queste maledette bombe ci hanno fatto venire improvvisamente una gran voglia di ringraziare le nostre mamme, che ci hanno dato la vita senza richiesta di ricompensa, così come il Paese in cui siamo nati e cresciuti. Speriamo che questo inno dei Kalush ci apra col tempo a ulteriori riflessioni, anche sulle contraddizioni di questa guerra da entrambe le parti. Se non fosse così di Stefania resterebbe il ricordo di un’ondata emotiva collettiva e di una vittoria a tavolino.

Russia e Ucraina nella guerra dei social media tra fake news e amare verità

Illustrazione Cover di The Daily Beast


La guerra tra Russia e in Ucraina si sta combattendo anche con i social media, da Telegram a TikTok, paradossalmente lanciati da Russia e Cina, i due nemici più temuti dalla NATO. Agli inviati di guerra dei media tradizionali, che in questo conflitto spesso sono stati ostacolati nel reperimento di notizie in loco, si è affiancato il citizen journalism. Da una parte, il giornalismo partecipativo ha fatto della gente comune uno dei protagonisti della narrazione di questa guerra sanguinosa, dall’altra si è assiepato tra fake news e amare verità.

GUERRE INTELLIGENTI

Se faccio un passo indietro e ripenso alle pagine di Guerre Intelligenti, il volume che mi portò a lavorare a fine anni ’90 alla Federico II di Napoli nel team della sociologa Rossella Savarese, sembrano trascorsi anni luce dalla Prima Guerra del Golfo, nell’evoluzione dei sistemi di informazione e delle loro relazioni con la politica locale. La Russia di Putin ha fatto scricchiolare lo slogan “si vince senza combattere” e sta trascinando l’Europa in una guerra che convoglia strategie militari tradizionali.

MOSCA E LO STILLICIDIO DELL’INFORMAZIONE LIBERA

A livello mediatico cosa accade? Se allora Peter Arnett, il celebre giornalista della CNN, si fermò a Baghdad per raccontare le notizie censurare da Saddam Hussein, oggi gli inviati delle maggiori testate del mondo a Mosca hanno dovuto preparare “i bagagli” dopo la decisione della Duma di imbavagliare l’informazione libera.
La Russia è tornata indietro ai tempi del Muro di Berlino con la pena di 15 anni di carcere, voluta per fare uno stillicidio della stampa libera e indipendente.
Al di là dei nostri corrispondenti messi con le spalle al muro, restano i social media a far dannare Putin e il Cremlino. Nonostate la chiusura dei rubinetti di Facebook, Twitter e Instagram al di là degli Urali, l’mbarazzo per gli orchi dell’ex Unione Sovietica è tanto: da una parte l’indignazione per l’uccisione in Ucraina di diversi messaggeri dell’informazione, tra cui l’ex collaboratore del New York Times Brent Renaud, il cameran di Fox News Pierre Zakrzewski e la collega ucraina Alexandra Kuvshynova, dall’altra lo sputo in faccia alla censura della giornalista russa della Televisione di Stato Marina Osiannykova.

GUERRA E SOCIAL: DA TELEGRAM A TIKTOK

Nessuno avrebbe immaginato che proprio Telegram, la piattaforma di messaggistica fondata nel 2013 da un russo, Pavel Durov, sarebbe diventato il principale veicolo di informazioni e propraganda al tempo stesso del governo ucraino nella guerra che sta tenendo il mondo intero con il fiato sospeso.
Gli stessi inviati in Ucraina delle grandi e medie testate giornalistiche hanno dovuto cedere al ripiego della citazione Fonte: Telegram per completare i loro reportage.
TikTok, lanciato in Cina solo sei anni fa e in voga tra i giovanissimi per creare video musicali bizzarri, si è trasformato invece dal social della goliardia allo spacciatore dei video dei crimini di guerra.

IN TRAPPOLA TRA FOTO RITOCCATE E VIDEO RICICLATI

Nella guerra tra Russia e Ucraina che impedisce in tutti i modi ai giornalisti inviati di spostarsi con agilità e andare fino in fondo – chissà cosa direbbe il primo inviato bellico della storia William Russell (per The Times nella guerra in Crimea del 1853-1856) – i social media stanno dando un grande supporto.
Il rischio della fake news e della propaganda bellica da entrambi gli schieramenti tra foto ritoccate e vecchi video riciclati – come in ogni conflitto del passato tra l’altro – resta al centro del dibattito e non è l’unico prezzo da pagare per l’informazione. A quasi un mese di guerra sono state prese diverse cantonate, anche dai media più autorevoli, dalla messa in onda di una sequenza di un videogame al posto di un borbardamento ad un missile lanciato nel Donetsk fatto passare per un attacco a Kiev.
Del resto come amava ripetere il saggio Winston Churchill:

Una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni.

L’idiozia della censura alla cultura russa, da Dostoevskij a Masha e Orso


La Nato e l’Europa stanno combattendo la ferocia della Russia nella guerra in Ucraina con la sciabola delle sanzioni finanziarie. Quale senso ha l’estensione delle pesanti multe alla cultura russa?

LA CULTURA UNICO BENE COMUNE DELL’UMANITA’

Il bar dei social network, dopo l’exploit del “siamo tutti virologi” della pandemia, è affollato improvvisamente da esperti di geopolitica e tattiche belliche che fanno a scazzottate, in stile Peppone e don Camillo, nel rigoglio di vecchie nostalgie filosovietiche.
Dopo l’abbaglio di associare i tedeschi al nazismo o gli americani ai prepotenti cowboy che ammazzavano gli indiani, mercifichiamo la follia dello zar del nuovo millennio con l’odio per la gente comune e la cultura russa? Come ci ricorda il filosofo tedesco Gadamer “La cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire diventa più grande.”

GIU’ LE MANI DALLA CULTURA

La decisione iniziale dell’università Bicocca di Milano di congelare le lezioni su Dostoevskij del professore Nori mi è sembrata idiota e, allo stesso tempo, surreale quanto l’ondata antirazzista d’oltreoceano di qualche anno fa che voleva bruciare sul rogo, come una strega, il film “Via col Vento”.
Senza lo schiavismo degli afroamericani, incorniciato nella storia d’amore di Rossella O’ Hara, che segnò la mia infanzia sulle gambe di mamma davanti a un piccolo televisore in bianco e nero, non mi sarei spinto decenni dopo fino a New Orleans, nella Louisiana prima di Katrina, per approndire, scovare memorie, raccogliere testimonianze tra musica e leggi antirazziali.

TRA CHAGALL E CHECHOV

Tornando alla censura della cultura russa, non riesco proprio ad immaginare la mia crescita orfana delle letture di Dostoevskij, delle sere a teatro con Cechov, del balletto musicato da Cajkovskij, delle composizioni musicali di Prokofiev, del cinema di Ėjzenštejn e Nikita Michalcov, del giornalismo di protesta di Anna Politkovskaja, dei sogni visionari di Gorbaciov tra le pagine della Perestrojka, dei voli pittorici di Chagall, del timbro lirico della Netrebko.
Alcuni dei nomi appena citati, che contribuirono anche ad ispirare il mio viaggio in Russia nel 2014, sono mescolati alla vita di tanti altri. Si tratta delle medesime persone che oggi dicono no al calpestio della cultura al di là degli Urali e, allo stesso tempo, partecipano alla protesta per fermare il seme della follia di un conflitto sanguinoso che ha cambiato già il corso della storia europea.

Mentre la Russia di Putin usa le forbici della censura per tagliare Facebook e Twitter, facendo della Duma il boia della libertà di informazione, io continuo a guardare, in compagnia di mia nipote, i simpatici personaggi dell’animazione russa Masha e Orso, a mangiare un buon piatto di insalata russa con il ronzio nella mente di una perla di saggezza di Tolstoj:

L’Arte deve sopprimere la violenza.