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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Dov’eri quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa?

Caspita, sto pensando a dov’ero quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa. E tu? Dalla parrucchiera; col culo incollato alla scrivania dell’ufficio; per strada illudendoti che fosse un giorno qualunque; a telefono afflitto dalle solite cazzate; a sbuffare sul divano perché ti toccava fare in fretta, se volevi recuperare l’interrogazione di latino del giorno dopo; in coda all’ufficio postale per inviare un pacco posta-celere ai cugini italo-americani; a litigare col tuo ragazzo; a dare la poppata a tuo figlio.
Dove c**** eri quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa? Me lo vuoi dire sì o no?
Io a Firenze, rinchiuso in una sala cinematografica, a recuperare una vecchia pellicola in occasione di un convegno a cui avevo relazionato. Sono uscito tra il primo e il secondo tempo. Pensavo al discorso anti-americano del Nobel Harold Pinter pronunciato il giorno prima. Aveva imbarazzato tutti gli accademici. Mi sono girato, ho buttato l’occhio alla tv e ho visto un aereo schiantarsi nelle Torri Gemelle. Il solito film di fantascienza! Sono rientrato in sala e ho continuato come nulla fosse successo.
Al termine della proiezione, mi sono detto: che c**** ho fatto? Questo non è uno scherzo. E dopo dieci anni mi interrogo: chissà se ci fosse stato Twitter, come sarebbe andata. Chissà se l’uragano social avrebbe raddrizzato il marasma confusionario mediatico, svoltando oltre il cine-documentario alla Micheal Moore.
Gli dei hanno giocato sporco e nessuno ci ha fatto caso. A casa di mio zio Mimmo – che dopo dieci anni non c’è più – ho trovato un vecchio libro sul Cile di Allende. E mi sono ricordato dell’11 settembre, quello del ’73, in cui ero lì beato nella culla, mentre a Santiago del Cile prendeva il potere Augusto Pinochet. I cileni vissero un dolore e un dramma che ci hanno costretto a dimenticare. Forse è ora che ce ne ricordiamo in occasione di quest’altro anniversario.
Dove c**** sarai il prossimo 11 settembre? Io voglio starmene da solo, da qualche parte, a vagabondare come un eremita che si ostina a non credere che “tutto cambia per rimanere come prima”.

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Quelle 36 ore assieme a Olga Mautone Blakeley, specchio del mio privato

Nel 2005 la mia avventurosa traversata negli USA mi portò da lei fino a Houston. Quelle 36 ore trascorse assieme a Olga Mautone Blakeley, scomparsa lo scorso 7 giugno all’età di 91 anni, mi convinsero che l’amore può spegnere la solitudine di un’anziana signora. Di fronte a me non c’era più la napoletana che nel ’46 aveva lasciato l’Italia per amore di Karl, un ufficiale dell’aviazione americana; non c’era più la stilista che tra gli anni ’50 e ’60 aveva vestito le famiglie altolocate del Texas, conquistando persino i gusti della First Lady “Bird” Johnson; non c’era più l’italo-americana che aveva vissuto la favola del sogno americano tra vita mondana e festicciole dell’upper-class, nello stesso Texas dagli occhi di ghiaccio che aveva crocifisso in sordina il predicatore John Kennedy.
Ascoltavo una signora ottantenne che vagava nella memoria dell’infanzia, afflitta dall’Alzheimer e con lucidità sorprendente. Era come se improvvisamente a quel ritratto se ne fosse sovrapposto un altro, sotto l’ombrello della senilità: sul viale del tramonto Olga aveva ritrovato Napoli e la sua famiglia attraverso il riscatto dei ricordi, l’unico valore della sua esistenza. Lei raccontava ed io ero lì bivaccato sul suo divano a prendere appunti, come un vecchio cronista ficcanaso che voleva a tutti i costi salvare una pagina volata via dal ‘900: Olga assieme al papà Francesco per via Toledo; Olga che accarezzava la sorella Emilia; Olga che pianse sulle spalle del fratello Pasqualino la morte prematura di donna Margherita, la mamma fragile che disse basta alla vita.
Man mano che stavamo assieme, quel “film muto” acquisiva le tracce delle sonorità e i suoni di quelle voci mi chiarirono tutto. Olga Mautone Blakely era lo specchio del mio privato, era il personaggio che il mio caro amico Pasquale Mautone – in arte mio nonno – aveva ridisegnato sul foglio della mia infanzia tra pony, ranch e cowboy. Laggiù ci saremmo dovuti arrivare assieme e in un certo senso è stato così. Olga mi guardò diritto negli occhi e mi disse: “Sei tutto Pasqualino nello sguardo, nei movimenti, nel sorriso, in quei baffetti sottili. Sulla porta ti avevo scambiato per lui”.
Quando andai via sapevo che non l’avrei rivista più, ma mi resi conto che era iniziata per me una nuova stagione: quella che ha fatto della mia vita un viaggio continuo, dove i legami non si misurano all’ufficio anagrafe, ma nel tempo di condivisione dell’esistenza. Io e Olga Mautone Blakely avevamo condiviso ciò che siamo stati davvero.
Tempo dopo mi è arrivata una lettera da Houston in cui c’era scritto che Olga tutti i pomeriggi all’ora del té guardava la nostra fotografia e sorrideva. Forse si sentiva meno sola, proprio come oggi. Da qualche parte dell’universo avrà rincontrato il fratello maggiore e gli avrà detto: “Pasqualino, portami subito da mamma e papà. Finalmente siamo tornati a stare tutti assieme. Abbiamo troppe cose da raccontarci”.

Una sconfinata giovinezza, dal film di Avati agli occhi di Olga

Io e Pupi Avati abbiamo qualcosa che ci accomuna: il ricordo come capostipite della vita. E se affilassimo la punta del glossario di Foursquare, azzardiamo pure che “la memoria avatiana” ha una sua precisa geolocalizzazione, che vive nell’Emilia-Romagna del regista di Una sconfinata giovinezza. Convivere con una malattia come l’Alzheimer? Mica è roba da poco e poi, quando si tratta di cinema, affrontare certi temi diventa pericolosissimo. Avati ci ha provato, si è fidato (e ha fatto bene!) di un fuoriclasse come Fabrizio Bentivoglio e ha sfornato un bel film, a tratti un pugno nello stomaco, a tratti emozionante come nel finale poetico che a scanso di equivoci accartoccia tutto nella memoria. Da spettatore, durante il primo tempo, ho vissuto il terrore di trovarmi nei panni del degente, con cui condivido se non altro la stessa professione. Nel secondo tempo, mi sono interrogato su quale fosse la giusta via per sostenere un malato di Alzheimer.
Cinque anni fa, dopo aver attraversato in autobus gli USA per seimila chilometri, sono finito alla ricerca di una anziana prozia. Olga era la sorella di nonno Pasquale, aveva lasciato Napoli quando mamma era nata, e da allora in famiglia viveva tra le foto d’oltreoceano e la calligrafia delle lettere che ogni Natale ci inviava da Houston. Dopo aver bussato alla porta, mi sono trovato una signora ottantenne affetta da Alzheimer. Continuamente dovevo ripeterle che non ero il figlio del fratello Pasqualino, ma il nipote. Io e Olga abbiamo trascorso assieme 36 ore, mentre lei vagabondava nella sua “sconfinata giovinezza”, facente capo alla storia della mia famiglia. Lei era felice perché era tornata a preoccuparsi di qualcuno, cioè di me; io mi chiedevo come la condivisione della memoria avesse fatto germogliare un legame così in fretta. Le ho lasciata una foto fatta assieme con la vana speranza che non si scordasse di quel giorno e mezzo. Quando il volto di zia Olga è scomparso dietro  la finestra sapevo che non l’avrei rivista più. Qualche settimana dopo mi è arrivata un’email in cui mi scrivevano che, tutti i pomeriggi all’ora del tè, Olga poggiava lo sguardo sulla nostra foto e sorrideva.
Per la prima volta nella vita mi ero scrollato di dosso quel senso di inutilità che ti assale quando sei accanto ad un malato, che per gli altri magari è un rimbambito. Zia Olga aveva bisogno soltanto di amore, come il protagonista del nuovo film di Pupi Avati.

Las Vegas, un museo per quelli come Roberto Saviano!

Per chi ha in programma un viaggio a Las Vegas, conviene temporeggiare almeno fino al 2011. Ai resort di lusso e alla febbre del gioco dei casinò si aggiungeranno un paio di attrazioni “inutili”, due musei dedicati al crimine organizzato. Insomma, la capitale della perdizione del Nevada celebra a modo suo la Mafia e, tutto sommato, non le dà noia ravvivare la memoria del suo passato losco. In Italia c’è chi si è convinto che Gomorra, il libro di Roberto Saviano, abbia contribuito ad infestare la nostra immagine, nella logica della massima andreottiana – censoria nei confronti del Neorealismo cinematografico – che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Piuttosto tirerei in ballo la trilogia cinefila di Il padrino di Francis Ford Coppola, che ha propagandato quella ambigua mistificazione, portando don Vito Corleone sulla via dell’eroismo. E chissà se il progetto “pseudo-culturale” di Las Vegas rafforzerà lo stupido stereotipo del popolo yankee di considerare l’Italia come patria di “mafia, pizza e mandolino”. Forse sarebbe il caso di dedicare un museo a tutte quelle vittime o a coloro che si sacrificano in prima linea per combattere la malavita organizzata, in America come in Italia. All’entrata, più che una maxi riproduzione di Al Capone, mi piacerebbe vedere il faccione di Roberto Saviano accompagnato da una scritta: “La nuova gioventù italiana vuole assomigliare a lui perché la sua penna graffiante ci toglie di dosso il cattivo odore, quello infognato dell’omertà ”.

Riforme e Sanità, svolta storica negli USA

“Ama il medico come te stesso e metti mano al portafoglio” poteva essere uno dei comandamenti dell’America graffiata dalle lobby e dalle compagnie assicurative. Giù le mani della Sanità privata perchè dopotutto “la salute non è un diritto di tutti” e nella lotta alla sopravvivenza si salvi chi può. E dei 50 milioni di americani senza copertura sanitaria? Per decenni l’America ha sentito fiumi di parole al Congresso;  ha sperato nell’indignazione di alcuni Presidenti che promettevano, ma poi cedevano al ricatto delle lobby;  ha messo a tutto volume le canzoni di Dylan e Baez, illudendosi che la musica potesse essere ancora l’unica arma di protesta; ha cacciato dalla Casa Bianca il guerriero George W. Bush dopo gli sprechi enormi di velleità belligeranti e colonizzatrici. E venne un uomo, lui il primo Presidente afro-americano, che di fegato ne ha avuto. La riforma voluta da Barack Obama non è più l’ombra di un manifesto da campagna elettorale sotto il tormentone “Yes, we can”, ma è il primo passo di una svolta. Non illudiamoci che gli USA si convertano ad una Sanità Pubblica sul modello europeo. Scordiamocelo, è utopia, pura demagogia.  La Camera dice sì ad una legge che partorisce finanziamenti pubblici e incentivi rivolti a oltre 30 milioni di cittadini che non possono permettersi di sottoscrivere una polizza. Obama e i Democratici fanno bene a festeggiare perchè questa è una data storica, ma con le dovute cautele:  il percorso è ancora tortuoso e le insidie sono dietro l’angolo perchè potrebbero venire dal basso.

“No Change”, Obama si vende alla lobby dei Clinton

hillary-clinton-caricature150Preso dall’euforia per la vittoria di Barack Obama, ho scritto di recente che la vera sfida del neo Presidente degli Stati Uniti era aver messo a tappetto la lobby dei Clinton. I sostenitori di Obama devono fare i conti con la cruda realtà perché la famiglia Clinton è pronta a traslocare di nuovo alla Casa Bianca: Hillary Clinton è il nuovo Segretario di Stato. E’ un modo per riunire le fratture dei Democratici e mettere tutti d’accordo? Caro lettore, non dimenticare che le ultime elezioni presidenziali americane non sano state vinte dal partito democratico, ma dal carisma esuberante di Barack Obama. Quale è il prezzo da pagare per avere a Washington il primo presidente nero della storia americana? Continuare a piegarsi alla lobby del potere ed avere come figura chiave una donna fantoccio, falsaria e figlia del viscido fidanzamento tra politica e marketing? Una donna arrivista e senza scrupoli, molto abile in un trasformismo che appartiene all’America di ieri e l’altro ieri, paraddossalmente a quella a cui si sono ribellati i giornalisti Bernstein e Woodward, accendendo la miccia dello scandalo Watergate. Gli USA devono recuperare in politica estera, soprattutto in Medio Oriente, e il Segretario di Stato è una pedina delicata. Barack Obama non può e non deve dimenticare che una parte dell’elettorato lo ha votato perché ha visto in lui “il volto dell’altra America”, l’unica via d’uscita dal cono d’ombra della Clinton e dei suoi cortigiani. Speriamo che la permanenza di Obama a Washington non sia il solito teatrino a cui gli americani ci hanno abituati, perché il neo presidente ha già mandato in soffitta il suo slogan “Change”. Sarebbe davvero difficile mandarla giù!

L’altro 11 settembre, la fine del Cile di Allende

L’11 settembre è una data in rosso nei nostri diari: nel 2001 l’organizzazione terroristica di Al-Quaida fa schiantare due aerei civili sul World Trade Center, le Torri Gemelle di New York. Da allora ogni anno in questo giorno tutto il mondo commemora le vittime di quella tragedia e il dolore degli Stati Uniti.

C’è l’altro 11 settembre che abbiamo dimenticato: 35 anni fa l’esercito cileno rovescia con un golpe a Santiago del Cile il governo di Salvador Allende. Con l’appoggio diplomatico degli USA, sale al potere il dittatore Augusto Pinochet e comincia per i cileni un lungo periodo di buio, fatto di delitti, atrocità e torture (i desaparecidos). Come fa un capitolo di storia così drammatico a sfuggirci? Perchè i media di mezzo mondo piangono il lutto degli Americani e non anche quello dei Cileni?

Riflettiamo con l’episodio diretto da Kean Loach nel film corale del 2002 dal titolo “11′ 09” 01″. Uno scrittore cileno scrive agli americani, concludendo così la lettera: “Oggi, 11 settembre, noi ricorderemo i vostri morti, ma voi, per favore, ricordate anche i nostri”. E’ solo così che gli angeli torneranno a volare, lasciando alla storia un saggio “Mea culpa”.

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