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Chef Marco Bezzi e le memorie future del principe della cucina della Valcamonica

Cover Foto by Lacciosciolto

Non è una leggenda alpina. Il risotto al fatulì dello chef Marco Bezzi, principe della cucina della Valcamonica, mi conquistò a tal punto che una quindicina d’anni fa affiancai alla cultura montana quella mia d’origine di uomo di mare. Il suo inconfondibile risotto mangiato sul Tonale, sospeso sulle Alpi a 2.000 metri d’altezza, attuò il sortilegio: fu come mischiare le pagine letterarie di Il vecchio e il mare di Hemingway con quelle di La montagna incantata di Mann.

BEZZI, ANTROPOLOGO DELL’ARTE CULINARIA CAMUNA

Non dimentichiamo che la cucina autentica della tradizione, quelle delle nostre nonne e bisnonne per intenderci, tiene al riparo la memoria dalle intemperie di questo tempo furibondo che, a furia di rincorrere con affanno il futuro, la vorrebbe sbiadire tra chef ipertelevisivi, stizzinosi vezzi gourmet, collezioni di stelle da appendere alle insegne.
Lo chef Marco Bezzi riesce a spingermi alla follia dei 350 chilometri percorsi nella stessa giornata perché, dal tempio del suo ristorante Sanmarco di Ponte di Legno con un nuovo interior design, continua ad essere l’antropologo dell’arte culinaria camuna senza troneggiare, con umiltà, sempre con un piede sotto il podio.


ANTICHI SAPORI E MEMORIE COLLETTIVE

Prima o dopo il tunnel della pandemia, lui continua a ripetere come un mantra “Quando qualcuno passa a trovarmi, nei miei piatti incontra territorio e tradizione, con una punta di innovazione che non guasta. Mai sgualcire la memoria culinaria della mia Valle Camonica”. Fuori dal Sanmarco c’è una nevicata d’aprile, tutto è così magico in questa bizzarra primavera.
Mentre assaggio la carne salata della valle, il formaggio silter, la spongada, il pane dolcesalato della nonne camune, i suoi Gnoc de la Cua De.Co. gli occhi si perdono improvvisamente in un ricordo: il mio reportage avventuroso sul Montozzo, nel Parco dello Stelvio, tra le trincee della Grande Guerra, dove tanti ragazzi camuni persero la vita. Il sapore forte del silter invoca il ricordo commovente delle mamme camune che mettevano un pezzo di formaggio nella tasca delle divise dei loro figli verso il fronte, mai più di ritorno.

STILE, PASSATO, MODERNITA’

L’interpretazione di Marco Bezzi della tradizione culinaria montana è caratterizzata da stile, passato e modernità e fanno con naturalezza del buon cibo un ponte tra ciò che eravamo e ciò che saremo: basta inforchettare le Piode di Monno con burro, salvia e pancetta o i Calsu danzanti tra lardo croccante, l’immancabile polenta e il silter dop.
Così le piccole provocazioni dello chef ad alta quota ti lasciano sempre lo stupore sul palato: dal Cuz di Corteno Golgi, lo spezzatino risalente alle invasioni delle tribù ungheresi, alla spongada. Chi lo avrebbe mai detto che dall’antipasto avrei ritrovato il pan focaccia delle nonne camune a fine degustazione, dopo aver spodestato i savoiardi, nel suo delicato Tiramisù, infiammato sottopelle dal bombardino.

Lo chef di Ponte di Legno non è solo il principe dei fornelli della valle, ma è un attento e puntiglioso conoscitore del territorio. La lunga esperienza ai vertici di punti di riferimento di settore come RistoLombadia, Associazione Pubblico Esercizio di Ponte di Legno e Associazione Ristoratori Valcamonica, lo portano ad essere pragmatico e sempre in difesa delle piccole e medie realtà locali della ristorazione.
Bezzi non ha peli sulla lingua e non smetterà mai di urlare a tutela di quest’ultime. perché danno un grande contributo alla crescita dell’economia locale.


LA NEVICATA DI CHI CI GUARDA DA LASSU’

Intanto la neve d’aprile è aumentata, mi ritrovo in direzione di Edolo, la strada per il ritorno è ancora lontana. Mentre Marco guida, raffiorano ricordi comuni, i nostri papà, l’eredità di valori e il loro sguardo da lassù. Lo chef della valle e il giornalista napoletano sembra il titolo di un film ambientato ad alta quota, invece no siamo noi disciolti nella commozione, nel silenzio dei fiocchi di neve. Ogni volta che ci torno, in Valcamonica, ci lascio il cuore. Per dirla alla Ed Viesturs, a chi mi chiede “Perchè vai in montagna?” rispondo: “Se me lo chiedi non lo saprai mai”.

Viaggiatore tra tempo e luoghi nel mio 2014

Rosario PipoloCi sono tanti modi per viaggiare ed io ne ho sperimentato vari in questo 2014: da questi a corto e lungo raggio per guardare negli occhi i nuovi lettori del mio romanzo – scrivere è per me il pretesto per avere la valigia sempre pronta – a quelli dell’ultimo minuto per inteccettare nuovi legami.

Viaggiare per solfeggiare la memoria perché un arrivederci sia la speranza di continuare a camminare insieme: “Non dobbiamo mai smettere di contarli i sogni, proprio come faceva Andrea. Perciò alla fine di ogni viaggio non mi piace ripetere addio, ma ci vediamo domani”.

Viaggiare per capire dopo vent’anni  quando la mia passione per la scrittura sia diventata un mestiere. L’aneddoto, una macchina da scrivere Lettera 35 fregata a mia sorella e la benedizione di un direttore di un quotidiano del Sud Italia: ““Guagliò, sei cresciuto ormai. Continua a camminare con le tue gambe”.

Viaggiare per ritrovare una scuola di periferia e chi l’abitava. “La scuola ai tempi in cui ero allievo sedimentava legami speciali tra docenti e alunni”.

Viaggiare per far ritorno nell’abitacolo dell’infanzia che ti sussurra al cuore tutto ciò che un tempo eri troppo distratto per ascoltare: le sorelle come dono di Dio o i compleanni vissuti in vacanza che fotografano l’istante dell’insostenibile leggerezza dell’essere.

Viaggiare verso Mosca perchè “per fare il futuro ci vuole impegno civile; per fare impegno civile ci vuole memoria, per fare memoria ci vuole il coraggio di uomini e donne come Anna Politkovskaja”.

Viaggiare per affogare tra le ferite della memoria, restando ammutolito salendo le scale del Sacrario Militare di Redipuglia o spingendomi fino all’altra Slovenia, quella della Caporetto che ci ficcarono in testa ai tempi in cui mettemmo mano ai sussidiari di storia delle scuole elementari: “Mangia soldato, ingoia questi bocconi amari, perché il rancio che ti passavano non aveva niente a che vedere con i cibi cotti a legna da tua madre.”

Viaggiare per essere protagonista del futuro in una lettera scritta alla piccola Noemi e lasciata nella sua culla sulla frontiera tra il bresciano e il mantovano: “Noemi, la prima volta che urlerai “Dio, perché mi hai abbandonata?” sentirai invece che ti sta portando in braccio.”

Viaggiare per  ascoltare la voce dell’anno che verrà: Se nasce una stella in Valcamonica la chiameremo Martina.