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Cartolina da Lignano Sabbiadoro: I fan di Vasco

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Rosario PipoloI fan di Vasco li vedi sbucare all’alba a Lignano Sabbiadoro e pensi che siano lì semplicemente per essere i primi sotto il palco. In realtà sono lì perché si sentono tutti parte di una grande famiglia e il concerto non è un ridotto di un paio d’ore, ma è una sottile linea all’orizzonte che va dall’alba al tramonto: Si raccontano, strizzano ricordi, si conoscono, continuano a crescere insieme.

I fan di Vasco li riconosci. Sono le facce che non rinuncerebbero mai a rivedere il loro capitano. Non hanno il dono dell’ubiquità, ma riescono a saltellare da una città all’altra, ad attraversare l’Italia senza esitazione, ad abbandonarsi allo sfinimento pur di vivere un’altra storia.
Ogni concerto si sa non è clonato, è una storia raccontata, unica ed irripetibile.

I fan di Vasco non sono come quelli degli altri, i fan di Vasco sono di Vasco e basta, punto. Non è questione di questa o quella canzone appiccicata addosso, sfilacciata come un chewing-gum, sono parte di lui, vengono da tutt’Italia, come Simone, Ambra, Maurizio, Elisa, Madda e Remo di Sanremo, ritratti nella foto.
Guerreggiano a denti stretti alla maniera del Blasco perché, come ha ripetuto il capitano alla fine del Live Kom 016 a Lignano, “Non abbiate paura. La paura è il nostro nemico più grande”.

I fan di Vasco hanno ferite, cicatrici, lividi generazionali tra i cinquantenni dell’altro ieri, i quarantenni di ieri, i trentenni di oggi e i ventenni del futuro. I genitori che urlavano Siamo solo noi lo hanno tramandato ai figli che cantano Un senso: Il rock va vissuto senza compromessi, ovunque e comunque, con la radice di provincialismo, che deve battere duro a Zocca prima di scalpitare in ogni angolo della nostra penisola.

I fan di Vasco apparterranno per sempre alle generazioni a venire perché, come ha ribadito Simone di Sanremo, “Vasco ha una canzone per ogni stato d’animo”. A loro non interessa di certo la gloria perché il Blasco, colui che noi all’alba della sua storia musicale chiamavamo Vasco Rossi, riesce ancora a farli volare facendoli stare con i piedi per terra.

“Io che credevo alle favole e non capivo le logiche.” I fan di Vasco sono grandi ormai.

J’accuse: L’orrore delle calunnie su Facebook

Mentre al cinema passa il film Social Network di Fincher sulla storia dei fondatori di Facebook, l’oasi del cazzeggio sociale più famosa del pianeta esplode con inciuci e cattiverie. Diceva Jong che “il pettegolezzo è l’oppio dell’oppresso”, ma io aggiungerei anche “del depresso”. Quale miglior zona franca, se non quella di Facebook, per trasferire l’istinto ciarlatano che si nasconde in noi?
Ogni volta che torno nel mio Sud, girovagando nei paesotti di provincia, non trovo più quelle situazioni colorite di una volta: il marito che improvvisa una scenata di gelosia alla moglie; il litigio furioso delle due vicine di casa o la disfatta chiassosa della coppia. Ormai è tutto finito su una bacheca virtuale ed il nostro destino è segnato da fatti e misfatti che si postano lì sopra. Quando capiamo che la gonnella di mammà non ci basta più per ferire il nostro avversario, diventiamo scorretti a suon di offese pubbliche. Ormai il megafono della rete è  lo status di Facebook: basta confezionare in meno di 150 caratteri una calunnia e il un “pacco bomba” è ben servito, non tanto per l’avversario, ma per tutti gli amici faisbukkiani, che dovranno decidere presto da che parte stare. E così le bacheche, che fino al giorno prima erano zolle morbide di video e pensieri deliziosi, si trasformano in fretta e furia in un territorio minato, con accesso privilegiato a tutti coloro che voglio partecipare alla guerriglia virtuale. La persona offesa esce allo scoperto, si difende con ironia e non fa sconti a nessuno.
Nel modo dei videogiochi e dei social network l’orrore delle calunnie sfiora il ridicolo, perché è nella vita reale che la meschinità viene davvero a galla. Al di là o al di qua dell’ “accusa infamante”, la priorità assoluta resta la salvaguardia della faccia col quesito “Che cosa penseranno gli altri di me?”. Il tempo attutisce la melma degli schizzi di fango, che con o senza Facebook, finirà per inzozzare “il sepolcro imbiancato”, l’artefice che ha messo in moto la macchina del pettegolezzo. Alla fine, a dura prova sarà messa la vittima offesa, che nei giorni infuocati della rivolta virtuale, non si è accorta che sotto il fango era sbocciato un fiore. E tutte le volte che uscirà da casa a testa alta, dimenticando che “lo sguardo basso è la virtù dei forti”, non noterà quel fiore cresciuto alle intemperie e lo calpesterà con furore. Sarà la rabbia di chi non ha intuito che per “fare un fiore ci vuole un fiore” come cantava Sergio Endrigo, ma bisogna anche innaffiarlo col silenzio per proteggerlo. “Non calpestare i fiori nel deserto” resta un sacramento sacrosanto. E questo vale pure per chi come la “Sally” di Vasco Rossi si porta ancora tanti graffi dentro.