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Cartolina d’estate: Norimberga, la bavarese che sussurra alla Germania

Rosario PipoloLa mia alba è on the road, su un FlixBus che mi porta da Monaco di Baviera a Norimberga. Mi sembra di essere tornato nella lunga traversata di oltre 6.000 km negli USA di dieci anni fa.

I viaggi in autobus ci aiutano a riscoprire la bellezza di essere parte della comunità locale: la mamma che accarezza il bimbo accanto a me guarda il passeggio delle prime nuvole dal finestrino. Norimberga è una città che non ti aspetti, lo capisci subito, appena arrivi: è una città che vuole farsi scoprire lentamente, con discrezione e svelarti così i segreti di questa zolla della Germania.

Alla larga dagli italiani piagnucoloni che a colazione vorrebbero solo cornetto e cappuccino, mi fiondo in una macelleria. Mi cuociono a prima mattina una manciata di salsicce di Norimberga, quello che loro chiamano Bratwurst.
Ingurgito calorie a sufficienza per arrampicarmi fino al Castello, che gioca a fare da macchina del tempo. Poi finisco nella casa di Albrecht Dürer. Ripenso a l’arte di Miriam Prato, brava artista scoperta in una galleria del piacentino e capace di ingrandire con poesia e dare una nuova vita ai piccoli dettagli delle tavole di Dürer.

Monica Giorgetti Stierstorfer, guida italiana trasferitasi qui da Roma vent’anni fa per amore di un tedesco, mi porta a zonzo. Raccolgo i piccoli dettagli che sono in fin dei conti il nutrimento di ogni viaggiatore che si rispetti. I riflessi dell’acqua dei canali sciacquano le macchie di chi continua ad assocciare Norimberga a roccaforte del Nazismo.
Gli orrori del Führer, seppelliti con disprezzo dai berlinesi, serpeggiano sotto le macerie di questa città completamente ricostruita, tra ombre della memoria, del Nazismo assassino dietro gli scheletri nell’armadio.

Norimberga merita di essere ricordata per altro, per la sua timida bellezza che viene fuori da una pudica scollatura come la piazza del Mercato dove mi fermo a parlare con gli ambulanti. Il ‪viaggio‬ è il tragitto più coerente per imparare a silurare  i pregiudizi: la grande civiltà dei tedeschi resta ancora una gran bella lezione a dispetto della cialtroneria all’italiana. E tutto non si riduce alla goliardica sfida su un campo di calcio al prezzo di un pallone tirato in porta.

Sotto una pioggia estiva, dal profumo bagnato delle lacrime, riparto sul mio autobus. La ‪‎Germania‬ ha sofferto, ha pagato. Con la complicità di una classe di docenti imbecilli noi abbiamo solo giudicato.

Cartolina d’estate: insieme a Luca sulla collina di Posillipo

Rosario PipoloSapevo che ti avrei trovato qui. Luca, sei proprio un milanese dal cuore napoletano: niente Navigli, niente Darsena, ma la cima della collina di Posillipo. Aspetta che mi siedo più vicino così riesci a sentire questo mio farfugliare.

Te lo avevo raccontato una volta e forse è accaduto negli stessi anni in cui hai vissuto nella mia Napoli. Nonno Pasquale mi portò qui da bimbo indicandomi questo posto come finestra spalancata su uno scorcio della città, lontano dalla solita cartolina con il Vesuvio intascata da chi vorrebbe questa Napoli culla del chiasso.
Proprio questa immensa terrazza, che affaccia sul parco sommerso della Gaiola, è il luogo più appropriato per appartarsi con i pensieri della propria anima.

Posillipo non appartiene ai napoletani radical chic, soffocati dalla goffaggine della loro finta signorilità, ma a Dio. Luca, non ridere: dai tempi dell’infanzia sono convinto che Dio non sa nuotare.  Secondo te se il Padreterno fosse stato un abile nuotatore, avrebbe lasciato annegare pescatori e marinai che da questo golfo non sono più tornati?

Pure nonno Pasquale assecondava, ridendo sotto i baffi, la mia stralunata idea. Dio usa la collina di Posillipo come materassino per galleggiare in acqua e puntualmente torna qui, lasciandoci innamorare.
Luca, la senti questa brezza che ci accarezza ora? Sembra la mano di Dio, ci libera, ci fa sentire più leggeri. Basta davvero una manciata d’amore per seppellire il dolore, per zittire il tamburo di latta della solitudine.

Mi sono convinto che ad arrugginirci in fretta sui nostri posti di lavoro è il maledetto muro alzato tra una scrivania e l’altra e cementato dalle banalità che spopolano alle macchinette del caffè. Per fortuna io e te ci siamo spartiti un capo donna capace di ricordarci che soltanto la nostra umanità può valorizzare i successi e i fallimenti nel lavoro di tutti i giorni.

Perciò Luca, anche tra colleghi, non dovremmo vergognarci di ripeterlo. Sono ritornato a Napoli d’estate non per farfugliare questi pensieri bizzarri, bensì per dirti che ti ho voluto bene.
Luca, pianto un fiore qui così la prossima volta sapremo quale sarà il punto esatto dove rincontrarci, qui sulla collina di Posillipo.

Cartolina d’estate: Il Summer Jamboree di Senigallia tra sagra e dilettantismo

Rosario PipoloFa uno strano effetto alla vigilia di Ferragosto Senigallia, località balneare nelle Marche, senza i marinai e le ragazze pin up del Summer Jamboree Festival.
In Italia non abbiamo il senso della misura: apparteniamo o al popolo dei disfattisti o a quello dei buonisti. Il disfattismo è nocivo, ma il buonismo lo è ancora di più se ti avevano invitato ad un festival dal gusto retrò e ti accorgi d’essere finito ad una sagra.

“I travestiti” vintage in giro per Senigallia o le vecchie auto e motociclette a stelle e strisce spariscono tra la folla che fa fatica a riconoscere gli anni ’40 e ’50. I palchi musicali, inavvicinabili per la calca, hanno in compenso il pregio di evocare i nostri papà che negli anni ’50 scimmiottavano bonariamente le icone d’oltreoceano.
Del resto il musicista di punta porta solo il nome americano ma è un marchigiano doc che all’unanimità è un incontestabile enfant prodige. Per fortuna c’è la scuola Giovanni Pascoli che, attraverso un’emozionante mostra, ci riporta tra i banchi delle nostre mamme e delle nostre nonne

Rimunciare a portarsi via qualche souvenir dell’epoca – tra gli stand prevalgono goffe imitazioni cinesi – ed imbattersi nel viaggio notturno della speranza sull’affollata LINEA 4: gli autisti dell’azienda di trasporto locale si attengono al comandamento Non parlare al conducente, sono sgarbati e ti fanno sbagliare fermata, lasciandoti alla fine della Marzocca.
I veri anni ’50 sono proprio sull’autobus dove la gente sgomita, evocando in un deplorevole episodio di becero razzismo all’italiana, l’America degli anni di Martin Luther King: un turista “cafone” dà a spintoni una donna di colore, interviene il marito e si rischia la zuffa.

Altro che festival! Chi aveva chiesto in prestito al Doc di Ritorno al Futuro la DeLorean DMC-12 per rivivere gli Happy Days dei Fifty americani in trasferta nelle Marche, si ritrova  in un’affollata Notte Rosa, versione summer in stile romagnolo della Notte Bianca, che per fortuna porta a commercianti ed albergatori un bel sold out.

Il vero pregio del Summer Jamboree di Senigallia è farci indietreggiare nell’Italietta provinciale di sessant’anni fa, “povera ma bella”, autentica, fatta di dilettanti allo sbaraglio che sognavano l’America come terra promessa.
La musica siglò parte del manifesto del cambiamento e ciò non avvenne solo con il rock chiassoso e grezzo di Celentano. Lo stile e l’eleganza del Modugno di Volare non fecero rumore quanto gli ancheggiamenti dell’Elvis di Hound Dog ma dimostrarono che il nostro temperamento latino di sognatori e romantici poteva far breccia nel cuore del mondo senza scomodare i principi di Memphis.

Cartolina d’estate: Gina Mastrangelo, capotreno Trenitalia medaglia al valore

Rosario PipoloUna domenica sera caotica sulla linea ferroviaria Ancona-Bologna a causa di un guasto tra Forlì e Bologna. I passeggeri temono che possa ripetersi il tracollo di una settimana prima: passeggeri in ostaggio in treno per tutta la notte a causa di un nubifragio a Firenze.

Questa volta i treni si limitano ad accumulare ritardi tra i 60 e 90 minuti, facendo perdere a tanti viaggiatori le ultime coincidenze per ritornare a casa. Sul Regionale Veloce 1734 in direzione Milano alla stazione di Bologna sale un capotreno occhialuto.
E’ una donna minuta, sulla trentina. A conti fatti a Milano Centrale arriveranno diversi passeggeri, tra cui anche un minorenne, condannati a trascorrere la notte in stazione: addio treni per attraversare la stessa Lombardia, raggiungere il Piemonte o il Veneto.

Gina Mastrangelo – è il nome del capotreno in questione-  va su e giù per i vagoni, telefonando in Centrale a Milano per risolvere la criticità. Trenord, la società costituita da Trenitalia e Ferrovie Nord che gestisce il trasporto ferroviario in Lombardia, rimbalza la patata bollente a Trenitalia. Due società che dividono l’Italia lungo il Po con una carta dei viaggiatori differente, duellando spesso e facendo a scaricabarile.
E’ passata da un pezzo la mezzanotte, la Mastrangelo tiene duro e con un rimbalzo telefonico che va da Bologna a Milano la spunta, fa la voce grossa, ottiene quattro taxi per far riportare i passaggeri a casa.

A Milano, sotto un diluvio universale, il capotreno bolognese si prende la briga di accompagnare ogni viaggiatore al tanto agognato tassì. Su una di quelle auto ci sono io, mi volto indietro, mentre lei scompare sotto la pioggia.
Mi piace raccontare quest’Italia, fatta anche dalle donne capotreno che di sera e di notte attraversano l’Italia, mettendo a repentaglio la vita su linee ferroviare, poco sicure in alcune tratte.

Siamo diventati così piagnucolosi da raccontare solo il peggio del Belpaese. Il meglio è invisibile all’isterismo collettivo, perchè spesso opera all’ombra. Stamattina a Milano Centrale, poco dopo le 7,  hanno sentito un fischio.
Era la Mastrangelo in divisa, impeccabile come sempre, orgoglio del trasporto ferroviario locale.  E forse su quel treno Regionale con destinazione Bologna qualcuno l’avrà riconosciuta, porgendole un fiore come per dire: “Grazie Gina, perchè la passione che ci metti ogni giorno su questo treno rende a piccole dosi l’Italia migliore”.

Diario di viaggio: La foiba di Basovizza e la ferita aperta di Trieste

Rosario PipoloTrieste mi appartiene. C’è il riverbero di Joyce degli anni del mio “studio matto e disperatissimo” dell’Ulisse; è crocevia di culture; è culla di storia che fa di ogni impronta etnica il cumulo del sogno futuro di ciascuna comunità. Trieste custodisce la memoria con riservatezza, senza troppo rumore, senza civetterie.

La mia estate comincia sul carso triestino, alla foiba di Basovizza. Qui il tempo sembra essersi fermato. E’ più di un presagio questo stadio di sospensione. E’ come se la storia ci volesse sculacciare per aver fatto finta di niente; per essercene disinterassati sui banchi di scuola; per non aver provato sdegno quando ci siamo accorti che in tanti in Italia non sapevano che una foiba fosse la fossa aratra di un campo di concentramento.

Dopo le mie tappe ad Auschwitz e Redipuglia, eccomi a Basovizza: il silenzio urla a voce alta disperazione. Disperazione per aver coperto i partigiani jugoslavi – complici furono gli stessi anglo-americani quando era necessario avere come alleato “il compagno Tito” – che trucidarono in questo inghiottitoio migliaia e migliaia di italiani.

La storia non si studia solo sui manuali tra i banchi di scuola. La storia si affronta di petto, perchè gli eccidi appartengono a nazisti, fascisti e comunisti. Complice e criminale è stata quella classe politica italiana che sapeva ed ha mentito alla propria coscienza.
Il riconoscimento della foiba di Basovizza come monumento nazionale da parte del nostro Presidente della Repubblica – accadde nell’anno della mia maturità classica – non smuove il fango della vergogna con cui è fatto il mantello della nostra Prima Repubblica.

C’è un’odiosa classe politica italiana frequentatrice di salotti e figlia  di quella generazione che strizzò l’occhio al compagno Tito. Questa è una disfatta morale, prima che politica. La mia estate comincia qui alla foiba di Basovizza, mentre si squarcia la commiserazione della memoria collettiva.

Benedetto, angelo nella mia vita caduto in volo

Rosario PipoloLe penne dei miei colleghi colano inchiostro avido di notiziabilità tra ritagli di giornale, bagnati di lacrime dopo la tragedia consumata. Del fatto di cronaca con il tempo resterà solo lo spettro agghiacciante della lanterna volante, luminosa come il cuore di un giovane di periferia, il piccolo guerriero che aveva fatto della generosità l’arma per affrontare la vita.

La mia penna ha trattenuto l’inchiostro nelle ultime ventiquattro ore, affinché le lacrime non offuscassero la memoria in questa Milano, che ha visto piegarmi in due alla fermata del tram: è lì che si sono spaccati a metà i miei  40 anni.

Nella prima parte ho cercato di capire come questo angelo fosse capitato nella mia vita. Era scritto nel destino della terra sotto i piedi: i nostri nonni erano legati da un’antica amicizia, capace di trasformare una masseria in un cantiere di sogni futuri dal sapore contadino. E poi fu il tempo di vederlo crescere nel pancione della mamma; e poi arrivò la volta che lo reclutai per fare il pastorello in un presepe vivente inscenato da me e abitato da soli bambini.
Rosa, la sorella più grandicella, gli bisbigliava all’orecchio: “Mi raccomando, questa è una cosa seria. Siamo in un presepe”. Benedetto, faccia d’angelo, le diede retta. Rimase composto per tutta la rappresentazione.

Nella seconda parte dei miei 40 anni mi sono ritrovato un angelo cresciuto, assiduo mio lettore, che aveva fatto di tutto per regalare al papà il mio romanzo. Colse tante sfumature in quella lettura tanto che, alcuni mesi fa, in piena notte, gli mandai una vecchia foto scovata nel mio archivio.
Lo scatto ritraeva la sorellina Amalia tenuta per mano dalla cugina più grande, che fu l’amore della mia vita. Fu proprio il volto di Amalia la piccola – chiamata così in famiglia per distinguerla dalle omonime e dall’affettuosa capostipite nonna Amalia – ad ispirarmi la sagoma e le movenze di Giulia, il personaggio piccino del mio racconto.

Nel legame ritrovato con questo angelo abbiamo condiviso la passione per la vita e per il viaggio, opportunità di crescita e di cambiamento; le confidenze di un tempo che ormai sembrava lontano; le scorribande sulla mia vespa rossa messe a confronto con la sua moto da sogno; il sentimentalismo che ci accomunava, indicatore della traiettoria per cui l’amore davvero può fare cose grandi.

Oggi il mio angelo caduto in volo mi riporta a prendere per mano la mia piccola donna di allora, a tenerla stretta a me per condividere questo dolore comune, proiettandolo nella reciprocità del nostro amore riflesso in quello che continueremo a provare per lui p>

Ora posso dichiararlo pubblicamente, perché a 40 anni non si può essere vigliacchi con i sentimenti. L’angelo caduto in volo è mio cugino. Buon viaggio, Benedetto.

Trenord, la sicurezza in treno è un diritto di chi lavora e chi viaggia

Rosario PipoloPercorrendo in treno più di 30.000 chilometri all’anno attraverso la regione Lombardia, per giunta in qualsiasi fascia oraria, mi calza a pennello l’appellativo con cui mi incoronò un capotreno qualche anno fa: “L’instancabile viaggiatore su rotaie”.

L’aggressione ad un capotreno e un macchinista, avvenuta la settimana scorsa su un treno locale nella stazione di Milano Villa Pizzone, merita solidarietà e supporto non solo dei pendolari, i quali giorno puntano il dito contro la mala gestione locale di Trenord e i costi eccessivi dei titoli di viaggio.

Richiede un piano di intervento immediato dell’azienda, che ha il sacrosanto compito di garantire sicurezza ai propri dipendenti, mettendoli in condizione di svolgere al meglio il proprio lavoro, anche durante i turni serali e notturni. Richiede la voce grossa della Regione Lombardia, perché le istituzioni siano convinte che ora ci vuole il pugno di ferro, accartocciando la strumentalizzazione politica che vorrebbe la tolleranza sulla lancetta a Sinistra e l’intolleranza sulla lancetta a Destra.

Ho visto uomini e donne, tra i trenta e i cinquant’anni, nelle vesti di capotreno gestire criticità davanti ai miei occhi, da soli, persino sulle linee ferroviarie che, appena fa buio, si trasformano in un set dell’orrore: provate a viaggiare dopo le 8 di sera su un convoglio locale che da Pavia si spinge verso Genova o tra Lodi e Piacenza dove, a ridosso delle stazioni di Casalpusterlengo o Codogno, sembra di essere finiti nel vecchio West in attesa del momento migliore per l’assalto alla diligenza.

Dei soldi che ci spillano dall’abbonamento mensile o dal biglietto di una corsa semplice quanto viene investito da Trenord e Regione Lombardia per la salvaguardia della sicurezza del viaggio sui treni locali?
L’efficienza nel trasporto locale non si misura solo in manutenzione delle vetture ma nel far sentire chi lavora o chi viaggia al sicuro a qualsiasi ora, anche quando a fine ottobre si spegneranno le luci del luna park di Expo 2015.

Carlo Di Napoli ha rischiato di perdere un braccio e il suo compagno di sventura di morire. Chi sarà il prossimo? Lo slogan di Trenord “Your Way To Expo” con 380 treni al giorno si sbiadisce se viaggiare sui binari ci fa correre chissà quali rischi. Qui non si tratta di sgominare semplicemente una gang di criminali, ma di attivare un piano di intervento per la sicurezza che ci faccia tornare ad essere “instancabili viaggiatori su rotaie”.

Diario di viaggio: naufrago sull’Elba di casa mia

Rosario PipoloL’Elba è l’isola che non ti aspetti, soprattutto se ci capiti per un viaggio fuori programma. È Caprese negli spicchi che cantano a squarciagola la salsedine del mare cristallino di Cavoli; è Corsa nell’entroterra che fa delle alture e della vegetazione la plancia contadina dell’isola che non c’è.

L’isola c’è ma non solo nella costa frastagliate che agguantano la baia di Sant’Andrea o le spiagge selvagge avvistate oltre Porto Azzurro. L’isola esiste sulle alture dei borghi sospesi come Marciana Alta, dove le vecchie case scoperchiano la consistenza della memoria o nell’acqua della fonte napoleonica che rumoreggia sulla piazzetta di Poggio.

Si può essere elbani quando Angelo di Poggio trasforma l’ospitalità di un Bed & Breakfast in un canto di storie e di aneddoti che ti fanno mescolare con quella gente per un giorno, per due, per tre, per sempre.
Si può essere elbani quanto le pappardelle fatte a mano da Antonella di Porto Azzurro fanno inghiottire al gusto dell’entroterra i sapori della costa così che i funghi porcini aggrediscano cozze e vongole.
Si può essere elbani quando scopri che la donna affacciata alla finestra è Emilia Pignatelli, scenografa di Fabrizio De Andrè e occhio poetico che rese infrangibile la bambina sulla copertina di Anime salve, album testamento di Faber.

Mentre il turismo di massa se ne sta in spiaggia tra il chiasso di pisani e livornesi litiganti furiosi per accaparrarsi un posto auto, sbucano le cafoncelle vestite di goffaggine provinciale e preoccupate di collezionare tintarella e tuffi, perché illuse di essere chic.
L’isola dell’Elba le fa tornare a casa con un palmo di mosche in mano, le lascia senza abbronzatura, e per giunta con fastidiosi starnuti allergici, sculacciandole e mortificandole per la vuotezza da fradicia turista.

L’Elba premia invece il viaggiatore che sa ascoltare il richiamo della memoria, salendo le scale di Porto Ferraio e riconoscendo il rigurgito della storia rinchiuso tra le mura domestiche di Villa dei Mulini: l’epopea di Napoleone Bonaparte colta sul viale del tramonto dell’esiliato, tra le pagine dei libri ingialliti e il rumore dei passi dello spettro che l’ode manzoniana custodì integra nella sua totale umanità, come il faro che si intravede dalla finestra.

Vorresti non ripartire più, ma ormai la nave è salpata e ti obbliga a guardare in direzione della terra ferma, verso gli scheletri dell’Italsider di Piombino che invece nascondono tutt’altro. In treno incroci Stefania, psicologa e insegnante,  che ti svela l’altra faccia di Piombino e allora forse è già quello punto di partenza del viaggio che verrà.

A Pisa, in piazza dei Miracoli, attraverso gli occhi chiari di Simona, ritrovo riflesso il mare cristallino dell’isola dell’Elba. Danzano i ricordi e le nostre anime di viaggiatori che si tengono per mano. Il futuro è negli zaini che la vita ci ha messo addosso perché, attraverso questa instancabile voglia di viaggiare, riconosceremo nell’altro lo specchio per guardarci nell’anima da vagabondi e capire quale sarà la prossima meta. Il viaggio non finisce, mai e poi mai.

I quattro moschettieri di TBNet e la rivincita dei Travel Blogger in Italia

Quando alla BIT di Milano del 2013 Francesca Di Pietro, Cristiano Guidetti, Marco Allegri e Federica Piersimoni presentarono il progetto di TBNet, qualcuno pensò ad un’incauta bravata che avrebbe avuto vita breve.

Chissà in quanti, seduti in redazione, storsero il naso nei giorni caldi in cui i blogger erano percepiti come insidia per il giornalismo da viaggio tradizionale. @chediporto, @viaggiovero, @nonsoloturisti e @federchicca – questi i nickname che li hanno resi piccole celebrità della Rete – avevano avuto l’intuizione di mettere insieme il meglio dei blogger e influencer del travel italiano, trascinando nella retata anche la sobria Francesca Barbieri (@fraintesa), tra le prime blogger a bucare lo schermo tv di Alle falde del Kilimangiaro, o la toscana naif Michela Simoncini (@comunicami).

L’unione fa la forza? Ebbene sì. Questa volta l’intuizione non è giunta dalla “social media centrica” Milano ma da una cordata periferica, che dalla Napoli della Di Pietro è passata per l’Emilia-Romagna di Guidetti e Piersimoni, spingendosi fino alla bergamasca di Allegri. In poco più di due anni dal battesimo 2.0 anche i più scettici si sono dovuti ricredere.

TBNet ha supportato il mondo del travel e della promozione turistica, guidando riflessioni e discussioni nella rubrica chat su Twitter  #TbNetalks e, infine, scommettendo su un momento di formazione rivolto a giornalisti, blogger e operatori del settore, conquistando Milano dal 22 al 24 maggio.
Il #TBNetalks Travel Media Forum più che l’atmosfera ingessata e noiosa di un “forum” ci ha fatto ritrovare quella informale di un “camp”, senza perdere l’autorevolezza di speaker come lo strategist Andrea Fontana, la giornalista Rosa Maria Di Natale, il videomaker Emiliano Bechi Gabrielli o l’instagramer Orazio Spoto.

Sette anni fa urlai sottovoce, nel bel mezzo di una riunione di redazione, che il reportage di viaggio “da catalogo” sarebbe stato ghigliottinato dalla community con l’affermazione dei social media. Il tempo mi ha dato ragione e il ciclone ha scoperchiato pure i patinati online.
I travel blogger hanno restituito al lettore la sua prospettiva di viaggio, calata nella quotidianità del viaggiatore. Il lettore si immedesima quando Federchicca racconta della preparazione della valigia; Chetiporto snocciola tips dall’ennesimo viaggio in solitaria o Fraintesa incrocia i canguri nella sua spedizione australiana.

Da oggi TbNetalks non è più un hashtag ma una nuova frontiera per vivere e raccontare il viaggio. I quattro moschettieri di TBnet hanno stravinto la scommessa, imponendosi tra gli over 30 che sanno essere punto di riferimento del travel blogging in Italia, anche verso aspiranti blogger come chi mi ha confessato: “Di notte faccio la custode in un museo. Di giorno faccio la spola tra Torino e Milano per formarmi quando ci sono occasioni preziose come quelle di TBNetalks. Per dormire c’è tempo”.

Diario di viaggio: Gli italoamericani e l’America che sta cca’

Rosario PipoloGli italoamericani sono entrati nel nostro immaginario collettivo anche attraverso il cinema e la televisione. Il più delle volte con quelle forzature che affogano nell’odioso cliché, da Il Padrino ai Soprano. In quanti si sono lasciati affascinare e convincere che il successo all’ombra della Statua della Libertà sia tutto in un pugno di ferro, nel tiro alla fune che fa del Vito Corleone o del Tony Soprano di turno il braccio violento d’oltreoceano.

Se però mettiamo in conto che una famiglia italoamericana, prima dei suoi codici e delle sue regole, custodisce con gelosia il meglio della sua italianità, allora forse è il caso di dire che l’America sta cca’, come canterebbero i Terrasonora, e non nel quadretto televisivo della famiglia patriarcale della serie Dallas, tramontata insieme alla politica pirotecnica reaganiana.

Nel 1963 dal Sud dell’Italia Luigi e Concetta sbarcarono a ‪New York‬ e cominciarono a Queens una nuova vita. Nell’arco di tempo che va dall’America dei Kennedy a quella degli Obama, Luigi e Concetta vantano oggi una famiglia numerosa: più di 45 persone tra figli, generi, nuore, nipoti e pronipoti.

Condividere con loro una cena a ridosso della Pasqua, mi ha convinto che incrociare gli italoamericani in Italia è come il boato di un tuono per la nostra memoria. Le complicazioni di un pianeta testardamente globalizzato hanno cancellato la soluzione del rebus tatuato sulla pelle di ogni civiltà che si rispetti: chi emigra dona un valore aggiunto al Paese che lo accoglie.
Guardando negli occhi Rocco, Antonietta, Catherine, Antonietta junior, Francesca, Gina Marie e Giovanna, spicchio di questa numerosa famiglia che porta nomi italiani ma parla una lingua straniera, mi sono detto: Dobbiamo qualcosa a loro per aver schiacciato il cliché citato all’inizio, esportando negli ‪Stati Uniti‬ l’immagine autentica dell’Italia laboriosa e onesta.

I viaggiatori come me in realtà non hanno la vita rinchiusa nella famiglia d’origine ma la frazionano con tante altre anime conosciute lungo il percorso della vita. Catherine e le sue sorelle mi hanno restituito quel senso di libertà che conquistai nel 2005, attraversando gli USA su un autobus della Greyhound per oltre seimila chilometri.
Nell’aprile di dieci anni dopo è l’America che viene a farmi visita, ricordandomi che non si è mai abusivi quando il viaggio si è compiuto per riprendersi una vita vissuta insieme agli altri. Così accade che un Paese straniero diventi improvvisamente nostro, facendoci scivolare di dosso la sfacciata leggerezza da vagabondo.