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Cartolina da Delhi: sui passi dei Gandhi

Nel bel mezzo della notte mi ritrovo nel centro di Delhi. Mi stropiccio gli occhi, non sto sognando ad occhi aperti. Sono in India, il 46° Paese del mio giro del mondo. Fin dalla prime ore di luce la capitale  è invasa da clacson, da un traffico insopportabile, da uno sciame di motorini e tuk tuk che spuntano da ogni parte.  Rajeev, il mio autista in questo lungo on the road, mi consiglia di farmene una ragione.

Il traffico infernale l’ho mandato giù, ma non di certo quella povertà che fa spettacolo lungo le strade di Delhi. L’India suddivisa in caste continua a produrre povertà, mi sembra di vivere un lungo flashback tra le grinfie del colonialismo britannico.
Invece no, a Delhi le tracce dei colonialisti sono evaporate – l’inglese lo hanno dimenticato in tanti –  ma il battesimo di questo mio lungo on the road deve per forza avvenire sulla tomba di Gandhi.

Il Mahatma è il dono più bello che Dio ci ha inviato nel XX secolo. Ci hai insegnato che le battaglie si vincono senza armi o eserciti. Questo vale anche per sconfiggere lo sfruttamento colonialista.
La non-violenza
è la scorciatoia che permetterebbe all’umanità di godersi la luminosità del volto di Dio.

Le vecchie glorie del Forte Rosso scemano nel chiassoso mercato di Chandni Chowk, nel cuore della vecchia Delhi, nel contrasto di un tempio induista e una moschea islamica, tra i bazar dove si può trattare su qualsiasi articolo e il mercato delle spezie.
La porta dell’India si erge a simbolo come l’Arco di Trionfo parigino, ma Delhi corre ed è troppo indaffarata per accorgersi che il fantasma di Indira Gandhi, il primo ministro assassinato il 31 ottobre 1984, aleggia sulla capitale.

Il sogno dell’altra Gandhi – nessun legame di paretela con il Mahatma – è depositato nella sosta emozionante dell’Indira Gandhi Memorial ed infranto come accadde per il clan dei Kennedy negli USA.
Meglio perdersi tra le orme della storia anziché far finta di niente, tapparsi il naso come fanno i turisti preoccupati a seguire per il filo e per segno il vangelo della guida turistica di turno.

Le guide cartacee non servono a niente in India. Comincia con questa consapevolezza uno dei viaggi di svolta della mia vita da viaggiatore.

 

La semplicità è l’essenza dell’universalità. (Gandhi)

Cartolina da Pesaro: Tutto merito di una piadina?

Il giorno del diploma Daniela cominciò ad aiutare la mamma nella storica piadineria in un angolo del mercato delle erbe di Pesaro. L’Antica Piada è stata per 35 lunghi anni un punto di ritrovo per tanti marchigiani, ma anche per chi come noi ci passava soltanto.
Nel 2000 ero nella giuria giovane di CinemAvvenire al Festival del Cinema di Pesaro e in questo posto ci capitavo tutti i giorni con gli amici e colleghi di gioventù. Tra le proiezioni mattutine e quelle pomeridiane avevamo il tempo serrato, ma Daniela e la mamma erano capaci di farci sentire a casa nostra con la semplicità di quei sapori.

Esserci tornato dopo diciassette anni non è stato per me un flashback inzuppato di nostalgia – i sapori trainano sempre ricordi oltre il palato – ma l’occasione per riappropriarmi di una lucida consapevolezza: chi si mette sulle orme della propria memoria non resterà mai solo perché vi troverà qualcuno con cui spartire questa ricerca.
Oggi c’è stato chi come me è tornato testardamente in questa piadineria marchigiana. luogo che fagocitò onesti legami d’amicizia. Appartengo alla generazione in cui le relazioni umane si misuravano con il vissuto, senza engagement o mi piace. Nel lungo periodo di vita a Milano mi sono portato dietro l’abbraccio e gli incoraggiamenti di Enrico alla stazione di Padova, alla vigilia del mio trasloco definitivo.

Oggo ho ritrovato Enrico in questa piadineria non per una fortuita coincidenza. Entrambi ci siamo messi in sordina alla ricerca di un angolo della nostra vita con la consapevolezza che la memoria semina lucidità del vissuto, la riconoscenza verso la vita ci protegge dal tempo tiranno che ci vorrebbe alieni al magma delle nostre origini.
Enrico e io ci siamo ritrovati in questo luogo, perchè abbiamo fatto dei nostri quarant’anni l’osservatorio per raccogliere ciò che ci ha fatto uomini veri: rimanere noi stessi.

A fine mese Daniela e sua madre abbasseranno la saracinesca dell’Antica Piada di Pesaro. Finisce un’epoca per chi ha vissuto questo luogo magico del marchigiano. Nella farina, acqua, olio e sale, gli ingredienti che hanno fatto di questo impasto il nutrimento di tanti di noi, ho ritrovato una notte sulla laguna di Venezia: io e il mio amico Luca, oggi autore televisivo, ad impastare il testo e la scaletta per un collegamento tv fino a tardi.

Luca mi fece notare che quando si facevano sostituzioni nel testo, bisognava sempre lasciare traccia del passaggio precedente, senza cancellare niente, sarebbe potuto tornare utile. Enrico ci raggiunse e ci ritrovammo come al solito a goderci il plenilunio in laguna.
Quella notte io, Enrico e Luca, poco più che ventenni, diventammo improvvisamente grandi: non si cancella nulla per ritrovarsi.

Il futuro ci avrebbe dato ragione e non per merito solo di una piadina.

 

La memoria di ciascun uomo è la sua letteratura privata. (Aldous Huxley)

Lettera a un tibetano

Da bambino avevo messo il Tibet nel mio giro del mondo dopo aver visto con mia madre un vecchio film in bianco e nero che davano in televisione.
Mi ero convinto che Dio – nella mia immaginazione un gigante barbuto – utilizzasse la tua terra come divano per sedersi, fumare un buon sigaro e guardarci tutti.

Sul mappamondo in regalo mi rendevo conto che il Tibet era lontano, troppo, tanto che non sarebbe bastato rompere il salvadanaio né chissà quanti stupendi da operaio di mio padre che lavorava nella società nazionale dell’elettricità.
Non avrei immaginato che un giorno ce l’avrei fatta, ma con una tassazione da versare a cui in confronto il denaro è carta straccia: nascondere con sofferenza la propria identità.

Giornalisti e diplomatici sono bannati. Nascere in un Paese come il mio, che ti lascia fare della libertà di pensiero e d’espressione il ramo congiunto della tua crescita, ti serve quando ti guardi intorno e vedi chenon tutti hanno avuto le stesse tue chance.

Sono europeo, occidentale, di matrice religiosa cristiana e non sono di certo arrivato a Lhasa per fare il turista impiccione quanto per guardare diritto negli occhi ciascuno di voi. C’è chi si sente esploratore con l’immaginazione, chi con un libro, chi come me dentro il viaggio.
Girovagando nel mercato di Lhasa fai due conti e cerchi di far capire a chi ti sta di fronte che “gli europei non sono polli da spennare” perché c’è chi è arrivato sotterrando i propri risparmi per far fiorire un albero.

Vedevo con i miei occhi quell’albero trasformarsi in quercia quando salivo ogni gradino del palazzo del Dalai Lama,  quando fuggiasco nei monasteri ero alla ricerca di monaci con cui barattare lo stress inutile di noi occidentali con spiritualità e saggezza.
Nel rallentamento dei movimenti e sfinimento per l’altitudine ho ritrovato quella forza di non voltarmi indietro più, guardando nella direzione del gigante barbuto che domina il tuo Tibet.

Da bambino pensavo che per vedere Dio bisognava morire, invece ne ho un trovato un poco in ciascuno di voi tibetani. Quando il treno ha ripreso il viaggio e tu sei scomparso dietro il finestrino, mi è sembrato di risvegliarmi.  In realtà mi ero appisolato e ci ho messo un po’ per avere la certezza che una parte di me è rimasta lì.

Grazie, Tenzin.

 

Ero intelligente e volevo cambiare il mondo. Ora sono saggio e voglio cambiare me stesso. (Dalai Lama)

Diario di viaggio: in treno verso il Tibet

In fila alla stazione di X’ian siamo centinaia e centinaia di persone. Ci aspettano 32 ore di treno fino a Lhasa, ma in compenso saliremo sul “tetto del mondo”, il punto più alto della terra riservato ad una linea ferroviara.

VERSO IL TIBET
Il Tibet è ancora lontano e i controlli sono incalzanti. Per chi non è cinese, ci vuole un permesso speciale per mettervi piede, oltre il Visto naturalmente, che si può ottenere soltanto se si fa parte di un gruppo turistico organizzato in loco.
Passo da una carrozza all’altra, mi guardo intorno, sono l’unico europeo, ho gli occhi puntati addosso. Mi aspetta un viaggio faticoso: lo stomaco non ne vuole più saperne di cibo asiatico; le condizioni dei servizi igienici sono davvero pessime; l’odioso rumore dei cinesi che sorseggiano té dal termos; l’odore irritante di quei contenitori di cibo d’asporto.

COMPAGNI DI VIAGGIO
A condividere con me i 2.800 chilometri c’è una famiglia di Xian. Lui è appassionato di foto e, tra uno scatto e l’altro, mi fa da spalla a far la sentinella al finestrino. Insieme alla moglie parla qualche parola d’inglese; la figlia è una graziosa liceale che sembra scappata da un manga giapponese.
Man mano che saliamo di altitudine la stanchezza si fa sentire tanto che a tratti mi attacco a un respiratore per prendere una boccata d’ossigeno.

LA NONNA TIBETANA
La profonda bellezza dei suoi ottant’anni è avvolta dal fascio di luce proveniente dal finestrino. Sulla pelle rugosa dell’anziana tibetana che mi sta di fronte è mappata la storia di un Paese, che a modo suo ha contrastato il regime e i soprusi di Pechino.
I nostri sguardi si incrociano e lei si rende conto che, imbranato come sono con quelle maledette bacchette, il mio pasto non lo comincerò mai. Mi offre un pugno di mandorle e mi sorride. In lei rivedo le vecchie contadine del mio Sud Italia, immobili nei ricordi dell’infanzia con papà che mi portava nelle  masserie a spiluccare memoria e antichità, spalmate sul pane e zucchero offertomi nelle contrade.

LE SPALLE DI DIO ALL’ALBA
Crollo dal sonno. Al risveglio, stropicciando gli occhi, mi accorgo di essere in Tibet. La Cina è lontana. L’alba scontorna l’altopiano, viaggio sul “tetto del mondo”, chi lo avrebbe mai detto. Le riconosco quelle montagne tibetane, sono le spalle del Padreterno. Non sono né in cielo né in terra, sono sospeso a metà nell’unico punto della Terra in cui si può salire sulle spalle di Dio.
Mi torna in mente il film visto con mia madre negli anni dell’infanzia, Orizzonte perduto di Frank Capra, e la promessa che un giorno sarei venuto da queste parti come un esploratore.

Lhasa non è poi così lontana. Mi sembra un sogno. C’era una volta il Tibet, quello che ho vissuto.

 

Se vogliamo costruire la pace nel mondo, costruiamola in primo luogo dentro ciascuno di noi. (Dalai Lama)

Cartolina da Xian: al di là della Via della Seta

All’alba alla stazione di Xi’an sembra mezzogiorno. C’è un via vai di gente spropositato per quell’ora. Nessuno che sputi una cicca d’inglese. Riesco a trovare il bus del servizio urbano per uscire fuori dal centro dall’ex capitale della Cina.
La bigliettaia va avanti e indietro per fare la questua e darci un tagliandino che corrisponde al titolo di viaggio. Sembra essere tornati nell’Italia del dopoguerra, in un fotogramma di un film del Neorealismo.

TERRACOTTA
Si comunica con i gesti e, per fortuna, c’è una parola italiana comprensibile ai cinesi che mi porta a destinazione: Terracotta. Sul bus  c’è gente che scende nei paesini limitrofi per cominciare un’altra giornata di lavoro. Gli sguardi sono puntati su di me, sono l’unico a non avere gli occhi a mandorla. La bigliettaia va a colpo sicuro, mi fa segno di scendere perché ha capito che sono diretto all’esercito di Terracotta.
La gente fa una lunga fila ed è pronta a sborsare la cifra spropositata di  200 RMB (25 euro) per vedere da vicino quello che per me resta una delle meraviglie del mondo.

GLORIA IMPERIALE E PROFITTI
Il primo imperatore cinese Qin Shi Huang non avrebbe immaginato di certo che l’armata di terracotta, fatta costruire su misura per difendersi nell’adilà, sarebbe diventata più di duemila anni dopo una piccola miniera d’oro del turismo.
Nel 1974 un contadino della zona scovò i primi resti di questa meraviglia archeologica, destinata a dispiegarsi in undici file lungo duecento metri.
Oggi questi arcieri e fanti rappresentano la gloria imperiale cinese, abbagliano il viaggiatore e restano l’orgoglio del governo che li usa come messaggeri della nuova frontiera economica dell’Asia.

LANGUORI DA EX CAPITALE
Mi perdo per le vie di Xian e avverto il languorino da ex capitale nel perimetro delle mura cittadine che fortificano il percorso.

C’è chi fa una passeggiata spensierata, c’è chi come me si incammina per osservare dall’alto la città, scorrendo quelle zone fatiscenti che il turista strabico non nota e allungando l’occhio fino all’imperdibile quartiere musulmano.
Quando il sole si spegne, si accendono, tra le mura cittadine, le luci dello spettacolo all’aperto che riesuma vecchie glorie, evoca melodrammi in costumi sfarzeschi come se la colonna sonora facesse del regime comunista di oggi lo spettro burattinaio dei tempi andati.

CHI SI ACCONTENTA, NON GODE
C’è chi si accontenta di un plenilunio, io no. Tiro fuori dal passaporto il permesso speciale che mi ricorda la prossima tappa di questo viaggio complicato e incredibile: il Tibet. Non sono pronto del tutto, mi sembra irreale. Perché dovrei avere timore?
Mi torna in mente il Flaubert degli anni universitari: “La censura qualunque essa sia, mi sembra una mostruosità, una cosa peggiore dell’omicidio: l’attentato al pensiero è un crimine di lesa-anima”.

Ho occhi per vedere e una penna per raccontare.

 

Non abbiamo bisogno di niente. Possediamo già tutto. (Quianlong, Imperatore cinese dal 1735 al 1796)

Cartolina da Pechino a carico del destinatario

Agli arrivi dell’aeroporto di Pechino il tempo sembra essersi fermato, sigillato nell’involucro del comunismo che fa della Cina l’ultimo baluardo di falce e martello. L’unico partito di governo, che fa resistere la Repubblica Popolare Cinese alle intemperie del tempo, fa sventolare la bandiera rossa su piazza Tienanmen.

 

DISTRATTI
I turisti sono troppo indaffarati a fare selfie per guardarsi intorno, per alzare lo sguardo sulle guardie che con la loro stazza fanno da sentinella alla piazza-macelleria della storia.
I nonni tirano dalla tasca 60 rmb, poco meno di 1 euro, per regalare ai bambini una bandierina rossa in ricordo del patriarca Mao Zedong, il cui mausoleo domina Tienanmen.


CENSURE
Mi viene voglia di tirare dalla tasca lo smartphone, scaraventare da YouTube su tutta la piazza quel video del 4 giugno 1989 in cui i carri armati scrissero la pagina crudele della strage di piazza Tienanmen contro gli studenti ribelli al regime. YouTube e gli altri social network non sono accessibili dalla Cina. La censura spettrale del regime mi costringe ad usare un’app VPN per collegarmi su server stranieri e avere accesso a Facebook, Instagram e Twitter.

Meglio non dare nell’occhio. Noi giornalisti siamo costretti a nascondere le nostre identità, perché Pechino sa bene che, anche sotto le spoglie di instancabili viaggiatori, siamo degli impiccioni, vogliamo capirci qualcosa e non ci accontentiamo degli specchietti per le allodole dati in pasto ai turisti europei.

 

CONTRADDIZIONI
Per gli europei mettere piede nella Città Proibita è calcare le orme dell’omonimo film di Zhang Yimou; per l’italiano medio addentrarsi nel set cinematografico di L’ultimo imperatore di Bertolucci.

Per me non è niente di tutto ciò, è piuttosto un tunnel zeppo di contraddizioni che vomita la storia di una civiltà. In quel perimetro tutto sembra lucido, lindo. Basta uscire da un cancello laterale per ritrovarsi nel lercio, nella zolla pechinese riservata alla gente comune: condizioni igieniche lontane anni luce dagli standard europei.

Non basteranno lo splendore abbagliante del Palazzo d’Estate o il raccoglimento del Tempio del Cielo a distogliere il mio sguardo sulla Cina, distante dai noiosi racconti di viaggio patinati che affollano la Rete come un catalogo da turismo di massa.

 

IL VIAGGIO
Mi incammino in piena notte con la consapevolezza che è appena cominciato il viaggio più lungo e faticoso della mia vita da vagabondo. Niente riuscirà a bendarmi gli occhi, perché affronterò ogni chilometro di questo tragitto con un piede nella pozzanghera della memoria e un altro in quel che resta del domani mai giunto a destinazione.

 

Dopo aver cancellato per decenni la propria cultura storica, oggi la Cina ritrova un legame con il proprio passato, anche rispetto al periodo imperiale. L’idea, però, è di raccontarlo attraverso canoni holliwoodiani, uscendo dalla tradizione. (John Woo, regista)

Diario di viaggio: 130 persone ritrovano “l’Italia bella” nella notte magica sul fiume Chiese

Bisogna spingersi oltre i selfie biodegrabili per ritrovare i sogni e le utopie in una notte di mezza estate. E non sono di certo le cartoline da catalogo che palleggiano da una bacheca all’altra di Facebook; non sono di certo i noiosi splash che illudono tanti di avere la stazza da viaggiatore.

Ci sono luoghi segreti che vanno riscoperti nell’ottica del vagabondaggio che fa dei nostri territori il pozzo dell’anima di ciò che eravamo, come l’Italia in bianco e nero di matrice contadina che impugnava la socialità.
Possiamo fare a meno dei gruppi Facebook si sono detti ad Acquafredda, il paesino sulla striscia di frontiera tra le province di Brescia e di Mantova, affinché una serata in compagnia di pochi amici diventasse nel raggio di un decennio una notte magica di mezza estate sul fiume Chiese con 130 persone: la parola d’ordine è rispetto per l’Ambiente, perché ognuno può fare del suo senza arzigogolare.

Piatti e stoviglie portate da casa, niente plastica; prodotti culinari a chilometro zero; un trattore trasformato in un palco per un chitarrista ed un armonicista; tutto il resto ce lo mette il plenilunio, quello cercato dai barcaioli mantovani nelle notti sul Mincio, e un gruppo di testardi volontari capace di creare un set dal sapore felliniano attraverso il passaparola, che per l’ennesima volta ha smosso tanti a condividere questo banchetto.

Mi sembra di essere tornato in Patagonia, quando osservavo gli argentini sul lago di Neuquén alle prese con la voglia di stare assieme e non di certo assuefatti dalla grande abbuffata di una serata di mezza estate. Possibile che piazzare una tenda accanto ad un fiume, lasciare musica fino a notte fonda, conoscere belle persone, sorseggiare un bicchiere di vino, riesca ancora a materializzare sogni e utopie?
Sì, perché come ci ricorda Giorgio Gaber “senza utopia c’è la morte”.

Ovunque continueranno a riunirsi uomini e donne nel comune segno denominatore del non arrendersi ai ricatti dell’omologazione che vorrebbero stemperare le nostre radici, ci saranno sempre zolle di terra dove qualcosa cambierà in meglio.

Provate ad andare di notte lungo la sponda del fiume Chiese e ascolterete l’evaporazione di questi versi di Giovanni Caproni.

 

L’amore finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.

Diario di Viaggio: Tutte le strade dell’Umbria portano a Francesco

Giri e rigiri per ritornare in Umbria, la cui bellezza non è stata screpolata dal furore del terremoto guardingo. Mi giunge voce da Norcia che laggiù si sentono dispersi, dimenticati e questo sgomento è amplificato dal quel che resta della cattedrale di San Benedetto.

Adoro tornare a Perugia prima dei rintocchi della mezzanotte, per strada il brusio degli studenti, nel silenzio di metà settimana, non siamo ancora entrati nel tunnel dei bagordi degli universitari parcheggiati nel capoluogo umbro.
Scappiamo dall’Italia abbagliati dalla frenesia esterofila senza captare l’anima del nostro Paese. L’Umbria è l’anima dell’Italia che si rintana tra arte, cultura, spiritualità per mollare la nostra quotidianità che saccheggia l’essere autentici.

Tutte le strade portano a Francesco, il fraticello d’Assisi che ci ha lasciato in eredità un grande patrimonio che va oltre l’essere stato il giullare di Dio. Questo patrimonio si snocciola nella severità dei francescani, che in un certo senso si sbarazza del cliché che li vorrebbe come quelli disegnati e raccontati sui calendari di Frate Indovino.

Padre Giovanni, sull’ottantina, si affaccia dal suo studiolo all’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli. Ti guarda di sbieco dagli occhiali di metallo come per dire che un frate non è l’interlocutore pronto a dirti ciò che vorresti sentirti dire. Un frate è altro, ti guida, ti ascolta, ti legge dentro, ti scuote e non è scontato il lieto fine. Anzi, meglio prepararsi al peggio – al meglio secondo il punto di vista – perché ci vuole coraggio e fatica per ritrovare la strada di Francesco.

Assisi lascia al pellegrino innumerevoli suggestioni, ma non sono quelle che maturano il cambiamento, l’evoluzione, la crescita. Nel silenzio della Porziuncola, la chiesetta all’interno di Santa Maria degli Angeli in cui San Francesco sostava in preghiera, risuona il monito verso cui ciascun uomo non può mostrare sordità: “Fallire nell’amore è fallire nella vita”.

Quando termina il viaggio tanti si accontentano di tornare a casa con un selfie, un tau, un souvenir. I più testardi, coloro che sono caduti e provano a rialzarsi, ripartono con il desiderio di ritornarci per vederci chiaro una volta e per tutte.
La morte non può farti paura quando ammetti con te stesso di essere circondato da zombie, che frullano la routine sottomessi dai ricatti dei legami consumistici.

Il viaggiatore si guarda allo specchio dell’anima e non vuole più rimanere paralizzato. Tutte le strade dell’Umbria portano a Francesco perché “un raggio di sole è sufficiente per spazzare via molte ombre”.

Cartolina dalla Cecchignola: le cose che non ci siamo detti mai

Le cose che non ci siamo detti mai le ritrovo qui, fuori le mura di questa caserma, nel perimetro dela Cecchignola di Roma, e non di certo perché abbia fatto la naia. Nei miei venti giorni con la divisa risultai il militare più indisciplinato e ribelle, senza che nessuno scommettesse fossi il nipote di un maresciallo dell’esercito.
La prima volta che misi piede in una caserma fu qui ed oggi ci sono tornato con il bus 044. Non arrivavo all’altezza della giacca della tua divisa allora. Venire a lavoro con te per tutti quei giorni fece quella caserma casa mia, nei mesi grigi in cui noi bambini di allora ci sentimmo sfollati dopo il terremoto dell’Irpinia.

Tra le cose che non ci siamo detti mai c’è sempre stata questa riconoscenza che interpretavo a modo mio, indossando il basco e i guanti tuoi dal colore verde militare. Volevo in maniera infantile sentirti addosso. E questo sentirti addosso l’ho avvistato quando da lettore del mio romanzo hai attraversato parte della tua vita su una strada di carta e inchiostro. Per chi fa il mio mestiere non ci sono parole più dense che sentirsi dire di aver scritto quello che da sempre avresti voluto scrivere, rinchiuso a chiave in un cassetto di una caserma tra appunti sparsi.

Tra le cose che non ci siamo detti mai c’è il declassamento da disadattato alla vita militare rivendicato da me nel declassamento dei legami familiari, nell’esclusione dei parenti e dei loro squilibri mediocri dalla mia quotidianità, perché la vera famiglia è quella che costruisci tu, con le tue mani, giorno dopo giorno, con chi vuoi. Il legame tra me e te va oltre ogni gerarchia ed è stato disegnato in un vissuto e in una presenza costante nei miei confronti di chi ha saputo leggere dentro me le ferite private, racchiuse nel tuo ripetermi “Il tempo cancella tutto e cicatrizza i dolori”.

Le cose che non ci siamo detti mai sono rimaste accovacciate un pomeriggio sul divano alla Castelluccia di San Paolo quando avevamo capito reciprocamente quanto uno zio fosse importante per un nipote così come un nipote per uno zio in una corsia preferenziale: non siamo tutti uguali, nei legami vince chi ama e ricambia di più, è una meravigliosa gara a due che non ci farà evaporare. Oggi che ti sei appisolato ho paura, come in quel pomeriggio, che tu non ti sveglia più. Non c’è tempo per dormire, me lo hai insegnato tu.

Sono a metà di viale dell’Esercito. Due militari  mi tengono d’occhio dalla finestra. Indosso la mia divisa civile: giacca e pantalone blu scuro. Mi metto sugli attenti, porto la mano destra con scatto repentino verso la fronte. Ti vedo, sapevo che saresti venuto da me, qui alla Cecchignola.

Tra le cose che non ci siamo detti mai ce n’è una: sei stato il Pasquale più importante della mia vita.

“Io t’ho scoperta stamattina… Roma capoccia, der mondo infame.”

Cartolina da Montevideo: l’Uruguay nel tramonto del Rio de la Plata

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rosario_pipolo_blog_2La sera non è calata ancora in Uruguay. La navigazione sul Rio de la Plata l’avevo condivisa con Pablo, il fisico argentino in esilio in Europa negli anni della dittatura. Il resto delle ore di sole le avevo dissipate bighellonando a Colonia del Sacramento, zolla della memoria colonialista in Sudamerica scippata dagli spagnoli ai portoghesi: sole, vento tra i capelli, un piatto di chorizo e del buon vino, le onde ribelli del mare come in un romanzo iniziato e mai finito.

È bastato un filo di vento per guidarmi fino a Montevideo. C’è ancora luce, quella sufficiente per una traversata di quattro chilometri lungo l’avenida che si distende nell’abbraccio di Placa Indipendencia. Quando mi davano per disperso nelle storie di Corto Maltese disegnate da Hugo Pratt, avevo imparato che le traversate non finiscono mai, l’arrivo è inaspettato punto di partenza.

Montevideo è una traversata continua, nelle stradine della città vecchia, abusivo tra una coppia di sposini uscita dal municipio, mangiando carne al mercato coperto, provando una coppola uruguaiana per quando sarebbe arrivato l’inverno, e poi la lunga camminata sulla Rambla.
Niente a che fare con i nostri lungomare, a parte che non si tratta di acque salate bensì delle acque meticce del Rio de Plata. La Rambla sembra non finire mai tra i bambini che giocano, i ragazzi che hanno marinato la scuola accovacciati sugli scogli, i palazzoni che delineano il mio percorso all’atteso tramonto insieme ai pescatori. Il silenzio non mi spaventa perché i singhiozzi delle onde del Rio de la Plata fanno di questo estuario il punto di raccolta dei sogni di chi è venuto a vivere qui da altri paesi limitrofi o lontani

L’Uruguay è terra di tutti, anche di Luca, compagno di classe di mio cugino che a fine anni ’90 mi ospitò una notte a Milano. La napoletanità di Luca ha seminato nella nuova vita uruguaiana quel seme di libertà che fa di noi viaggiatori persone nuove. I ricordi condivisi con Luca in una notte stellata a Montevideo mi hanno assuefatto: la vita li redime i viaggiatori come noi, perché la ricerca di noi stessi mette in dubbio quelle maledette certezze che fanno della routine l’agglomerato urbano della nostra anima.

Quando riparto la colonna sonora di questa tappa mescola e rimescola le sonorità del candombe di Ruben Rada con le canzoni dell’album Mediocampo di Jaime Roos e gli sputi musicali contemporanei dei Notevagustar.
In piena notte, durante la traversata di ritorno sul Rio De La Plata, mi fa compagnia Rosa, anziana uruguaiana di origini italiane, che mi racconta dei suoi cani e del suo compleanno che sta andando a festeggiare con il fratello rimasto solo a Buenos Aires. Dice che festeggiare il compleanno anche con un napoletano porta bene e così mi offre una colazione senza candeline.

Rosa scompare nel buio della notte così come Luca, Montevideo, ma davanti a me c’è la luce di una nuova terra ferma e di questo viaggio in Sudamerica che disegna gli argini del mio cambiamento e della mia rinascita.