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Cartolina da Alta Gracia: l’umanità dell’icona Che Guevara

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rosario_pipolo_blog_2C’era un sole diverso ad Alta Gracia, nella provincia di Cordoba, in quella zolla di Argentina che ha fatto del mio on the road in Sudamerica un’altra tappa di un viaggio indimenticabile. Il sole è diverso, perché con la sua luce accecante riapre la porta socchiusa della storia e restituisce umanità all’icona di Ernesto Che Guevara. 

Al numero 501 di Nicolas Avellaneda c’è la casa in cui il guerrigliero rivoluzionario venne a vivere da bimbo per problemi di asma. Le case museo tendono a mummificare la memoria storica, a farne polvere folcloristica per i turisti avidi di selfie e scatti fotografici. Qui è diverso, il tempo catalizza l’infanzia e la proietta nel futuro dell’uomo, del medico, dello scrittore, prima che del guerrigliero e rivoluzionario.

Per tanti il Che è rimasto l’icona delle piccole utopie adolescenziali nel volto stampato di una tshirt; per altri il personaggio che fu strumentalizzato dell’Occidente e tradito dagli stessi compagni di un tragitto utopico.

Nella calligrafia ventilata del Che ci sono pensieri che disegnano il mare dei naviganti per remare verso una vita più giusta, più equa, per far sentire la voce a chi è stata scippata la ragione. Nel mobilio della casa così come nella motocicletta, simbolo del viaggio supremo dei diari, si sente il profumo di giorni vissuti senza i tarli della routine che ci sottomette come soldatini di piombo agli ordini degli altri.

Dio ha fatto i santi, la vita ha fatto i peccatori deliranti. Ernesto Che Guevara, partorito nell’Argentina radicale, commise “il peccato” di farsi guerrigliero per abbattere la cortina di ferro delle ingiustizie sociali.

Mi stendo sull’erba, mangio un paio di empanados, osservo la rincorsa sfrenata delle nuvole con il vento tra i capelli e il sole che mi fa il solletico sulla pelle. Socchiudo gli occhi. Torno a sentirmi libero.


Cartolina da Santiago del Cile: come un esiliato tra gli spettri dell’11 settembre

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rosario_pipolo_blog_2È ancora buio. Sulle spalle ho la stanchezza della traversata notturna della cordigliera delle Ande. Ho perso il conto dei giorni in viaggio. Butto la coda dell’occhio sull’orologio: è il 1 dicembre. Sono arrivato a Santiago del Cile.
Cammino lungo l’avenida Libertador ‘O Higgins a passo sostenuto, prima che il sole sorga nella capitale del Paese che l’11 settembre 1973 finì in mano ai golpisti militari. La mia alba è davanti il palazzo della Moneda. Rivedo la sommossa, l’edificio in fiamme, rivivo la fine del Cile di Salvador Allende. C’è un poliziotto che marcia su e giù con quell’aria insidiosa di “pinochetismo”, quel solco di nostalgia seppellita.

Comincia un’altra tappa del mio viaggio della memoria, l’ho atteso a lungo, prima che vedessi al Festival del Cinema di Venezia Garage Olimpo di Marco Bechis; prima ancora di vederci chiaro sull’ascesa al potere dell’orco in divisa Augusto Pinochet, appoggiato dall’allegra brigata occidentale; prima ancora di cercare documenti e dossier sul genocidio dei desaparecidos, di cui tutti siamo stati complici, chi più, chi meno.

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Il mio è un rancore storico distillato nel distacco dei cileni, che evitano di rispondere sull’argomento senza prendersi la briga di manifestare una posizione netta. Per quanti l’11 settembre è sparito nel tunnel dell’indifferenza?
I cileni in esilio conosciuti nella mia vita, incluso il gruppo musicale degli Intillimani intervistati a Milano più di dieci anni fa, mi hanno dimostrato il contrario.

Una fioraia mi regala un garofano bianco ed io la ringrazio in uno spagnolo maccheronico: “Sono un italiano con lo stato d’animo di un cileno in esilio che fa ritorno a casa”. Sì, mi sento così lungo i viali del Cimitero Generale di Santiago con lo sguardo abbassato sulla zolla di deserto di croci senza nomi e fosse scavate nella terra prosciugata dalle lacrime di mamme, figli, fidanzate che non videro tornare più i propri cari, “scomparsi”, in uno dei genocidi sibilanti più crudeli del XX secolo.

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Poi il garofano bianco finisce sulla tomba di Salvador Allende (1908-1973), nel silenzio di un venerdì mattina e tra i pensieri di una profonda riflessione che si chiude in una conversazione tra me e   i titolari della libreria de Luis Rivano, in cui trovo per il mio archivio due pubblicazioni degli anni ’60 dei discorsi del presidente cileno ammazzato dal potere militare. Volevo sentire il profumo della carta prima della dittatura, scorrere l’inchiostro delle parole che sognavano un Cile diverso.

È un’ascia che fa  pezzetti i miei 40 anni l’impatto emotivo con il Museo della Memoria dei Diritti Umani. Un viaggio nel viaggio tra testimonianze, filmanti, documenti, custodite oggi nell’unica riserva della memoria cilena e degli orrori di quella dittatura.

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Continuo a sentirmi un cileno in esilio che ha fatto ritorno a casa, ma senza aver trovato le persone lasciate. Mi perdo tra le vie di Santiago del Cile, ascoltando le canzoni di Los Prisoneros, ostili al regime di Pinochet, il cui album Pateando Piedras resterà la colonna sonora di questa tappa indimenticabile.

Di ritorno da Santiago, siamo fermi in piena notte tra le Ande per i controlli alla frontiera argentina. Azzanno un panino, fa freddino, punto gli occhi al cielo. Le stelle stanno a guardare: sono lo sguardo di coloro a cui è stata spezzata la vita, facendoci credere che fossero dispersi. Ci abbiamo voluto credere. Sono i rimorsi della nostra coscienza.

[Il 31 gennaio 2017 questo diario di viaggio scritto in inglese è stato pubblicato dal quotidiano indipendente cilento The Santiago Times.]

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Diario di viaggio: Parigi non può essere più la stessa con un Ground Zero

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Bataclan, 6 gennaio 2017 (In memoria di Valeria Solesin e di tutte le vittime del 13.11.2015)

rosario_pipolo_blog_2Nel 1996 arrivai la prima volta a Parigi su un treno della SNFC francese. In vent’anni il mio via vai ha sigillato un legame continuativo con la capitale francese. Ci sono ritornato on the road con Ouibus, sentendomi per metà francese appena vi ho messo piede con le dovute distanze dal solito tam tam dell’Epifania e dello slogan deplorevole di “La Befana tutte le feste porta via”.

I controlli alla frontiera sono certosini, l’aria è tesa, vanno e vengono passaporti. Anche io, che sono italiano, sono sottoposto ad un mini interrogatorio, mi sento straniero in direzione di una Francia che invece mi appartiene.
La mia alba è a Place de la Bastille, il luogo in cui Parigi diede all’Europa la più grande lezione di civiltà, ghigliottinando una monarchia incapace, facendo soffiare sul vecchio continente i venti di Liberté, Égalité, Fraternité.

A pochi passi da lì il primo Ground Zero parigino, la vecchia redazione di Charlie Hebdo messa a ferro e fuoco dal terrorismo che il 7 gennaio 2015 spezzò la matita della libertà d’espressione. Mi incammino verso il numero 50 di Boulevard Voltaire. Davanti il Bataclan, la sala concerto che subì uno degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015, resto pietrificato ripensando agli angeli che vi morirono, inclusa la nostra connazionale Valeria Solesin. Qui c’è la seconda fossa del Ground Zero Parisien, oltre la gelida lapide di marmo.

Entrando in Place de la Republique si scorge il memoriale corner con i fiori dedicato ai morti del terrorismo infame. Parigi ha smesso di essere acquerellata tra Torre Eiffel, Arco di Trionfo, Louvre – triangolo sopravvissuto soltanto nell’immaginario del turismo di massa distratto – e perde i suoi simboli da cartolina.
Il Ground Zero spezzettato sul cuore ferito della Ville Lumière scatena in ciascuno un indomabile sospetto: chiunque, a pochi passi da noi, potrebbe essere il terrorista del prossimo turno: l’uomo barbuto che legge il giornale; la donna minuta col burqa al forno per la solita baguette; il ragazzo che bivacca sulla panchina.

Questo “sospetto” mette a repentaglio il Nous somme unis, facendo correre ai francesi il rischio di risvegliarsi gli uni contro gli altri, come accenna tra le righe il meraviglioso film Tour De France diretto da Rachid Djaïdani, visto in anteprima insieme a Depardieu all’ultimo Festival France Odeon di Firenze.

Chi voleva ammirare Parigi dall’alto è andato sulla Torre Eiffel, senza rendersi conto che la foschia in una domenica di gennaio ne avrebbe impedito la vista.
Parigi non si lascia più guardare dall’alto, ma dal di dentro. Questo può avvenire soltanto dal basso e con lo sguardo diritto verso un Ground Zero che ci appartiene.

Cartolina da Parigi: Je suis Charlie, 7 gennaio ore 11.30

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rosario_pipolo_blog_2Una fuga a Parigi, per giunta senza preavviso, può essere anche defilarsi nel silenzio di rue Nicolas Appert. Ci sono due gradi sotto zero e alle 11.30, l’ora esatta dell’attentato terroristico a Charlie Hebdo, siamo poche anime davanti l’ex redazione del periodico satirico francese.

L’artista francese Christophe Verdon sale su uno scaletto e appiccica al muro l’insegna “Piazza della Libertà d’espressione”; ci sono alcuni fedeli lettori che lasciano commossi un fiore; poi arriva un gruppo di uomini e donne in divisa che lascia una preghiera per il collega poliziotto morto nell’attentato. È una commemorazione fatta di gesti spontanei.

Una fuga a Parigi, lontano dai “luoghi comuni” per il turismo di massa, può essere anche ribadire una riflessione messa nero su bianco due anni fa: “La libertà di una matita vale quanto quella di una penna”. Perciò oggi sono venuto qui a condividere con questo gruppo di francesi un momento toccante.

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Una fuga a Parigi può essere il pretesto per ammettere una volta e per sempre che questa città non è più la stessa e chi la conosce bene sa di cosa parlo, di cosa si prova. “Je suis Charlie” non è soltanto  lo slogan di un tragico giorno da non dimenticare, ma è soprattutto l’amara consapevolezza che c’è sempre un attentatore dietro l’angolo – mi riferisco alla nostra quotidianità – pronto a mettere in pericolo la nostra libertà di pensiero e di espressione. Questo non vale soltanto per chi fa il mio mestiere, ma per chiunque, ogni santissimo giorno, lotta affinché l’idea di libertà di pensiero non sia schiacciata dal becero qualunquismo dei giorni nostri.

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Per la prima volta, nel mio legame ventennale e privilegiato con la capitale francese, ho scalato l’anima segreta di una Parigi che mostra con dignità le proprie ferite aperte e lascia al tremolio della paura la chance per guardare avanti con gli occhi sulla schiena rivolta verso piazza della Bastiglia, da cui partì l’urlo di libertà che l’Europa mai dimenticò.

Oggi siamo qui anche perché non vogliamo permettere al terrorismo di cambiare le nostre abitudini, continuando a vivere Parigi con i valori che “la Ville Lumière” ci ha lasciato in eredità.

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Sentirsi “Charlie” non è un capriccio né una vendetta, è un mutamento interiore dell’essere parte attiva di una società civile. L’ho capito stamattina alle 11.30 al numero 10 di Rue Nicolas Appert.

Il mio Capodanno 2017 nell’alba della Patagonia

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rosario_pipolo_blog_2Mi stropiccio gli occhi. Apro le tendine dell’autobus. Fuori c’è una distesa immensa di deserto. La Patagonia fila l’alba ed è subito un sussulto. L’Argentina prende la mia anima e la scaraventa tra le persone, lungo la strada principale che attraversa Neuquén.
I viaggi sono fatti prima di tutto di persone, di incontri, di abbracci inattesi che mettono insieme i pezzi della nostra vita, lontani dai bagordi rituali e banali della Notte di San Silvestro.

Ho un tetto in Patagonia, la casa di Beti. Non è un bed & breakfast o un ostello, è l’abitazione a due piani che mi riporta nel Sud della mia Italia. Negli occhi di Beti c’è la Patagonia con le sue mille sfumature e la voglia di stare ad ascoltare le storie di noi viaggiatori che abbiamo percorso più di 1.500 chilometri da Buenos Aires.
Il sole picchia forte a Neuquén e mi fermo in un piccolo bar di una stazione di rifornimento carburante. Daniel mi offre una bottiglia d’acqua, mi fa festa, è colombiano e conoscitore del mio Sud, sua sorella ha sposato un ragazzo di Bari. Squilla il telefono, è la voce della sorella di Daniel, mi sembra di essere tornato a casa.

Sì, sono tornato a casa a Neuquén con questa gente che non è diversa da me: negli occhi di Veronica c’è il taglio della luna di Buenos Aires che restituisce al viaggiatore le sopracciglia dell’amore custodito in sordina; nel sorriso di Lujan c’è il sole della Patagonia che danza liberamente senza afferrare i ritmi del cielo sopra di noi; nella generosità di Victitor, che mi offre un passaggio in auto, c’è il ritrovamento della strada come luogo privilegiato di incontro e della costruzione di un’amicizia come si deve.

Sbuco nella parte alta di Neuquén, sotto chilometri di steppa, sopra di me c’è un Cristo in croce che volge lo sguardo verso il nord della Patagonia, mi sembra di essere finito in Terra Santa.

C’è una strada sotto il deserto della Patagonia, quella che fila diritto in Argentina, lontano dal rumore dei tappi di spumante; dal frastuono dei botti che vorrebbero dare il benvenuto all’anno nuovo; dal fondotinta e dai cappellini rossi che ingombrano selfie a destra e sinistra; da tavole strapiene di cibi e bevande. E’ la strada dell’essenzialità, mappata dalla barba incolta sulla mia pelle da viaggiatore, illuminata da una delle albe più belle della mia vita.

La mia rinascita. E’ già Capodanno in Patagonia, il mio.

Natale, lettera dal Sudamerica per Mimmo Palanza

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rosario_pipolo_blog_2Le mie feste natalizie le ho lasciate in Sudamerica. Di passaggio a Firenze qualche mese fa  ho avuto la tentazione di portarti un fiore. Ho desistito, perchè la voce dell’anima mi ha assicurato che tu mi avresti aspettato lì. Questo è il viaggio che avremmo dovuto fare insieme, lo abbiamo fatto, in questo vagabondaggio on the road di 7.000 chilometri tra Argentina, Cile e Uruguay.

Ti ho ritrovato per le vie di Buenos Aires con tuo padre Camillo che leggeva il giornale agli analfabeti del paese nella Manoppello del secondo dopoguerra; ti ho ritrovato nelle albe indefinite della Patagonia ripensando alle nostre lunghe passeggiate al parco delle Cascine con il tuo cagnolone; ti ho ritrovato a Santiago del Cile sulla tomba di Salvador Allende e al museo dei Desaparecidos, perchè il tavolo della tua cucina diventò la scrivania dei miei vent’anni dove cominciai a documentarmi sulle dittature sudamericane.

Ti ho ritrovato tra Mendoza e Cordoba in mezzo al profumo dei vigneti, ripensando a quando davanti ad un buon bicchiere di vino rosso mi  raccontavi del trasferimento in Brasile con tuo fratello Roberto; ti ho ritrovato sulla nave che mi portava verso l’Uruguay negli occhi di Pablo, il fisico universitario di Buenos Aires che, negli anni della dittatura, scappò in esilio in Europa.

Eppure in questo errare indefinito ho ritrovato il nostro legame, ripensando a come tu sia riuscito a non farmi sentire mai ospite né a casa tua né nella tua vita. La prima cartolina te la mandai da Londra nel 1988, l’ultima te la mando dalla rambla di Montevideo: un tramonto condiviso con un pescatore sul Rio de la Plata.

Tra gi ultimi fili di luceti ho ritrovato alla stessa maniera di Manolin con Santiago in Il vecchio e il mare di Hemingway. Un giorno ci ritroveremo non come zio e nipote, ma come due esseri che hanno condiviso sogni e utopie di generazioni diverse. Tutto ciò ti ha reso uno dei punti cardinali della mia crescita, della mia esistenza.

Buon Natale, ovunque tu sia.

Cartolina da Buenos Aires

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rosario_pipolo_blog_2A Buenos Aires tira un forte vento di italianità. L’ho capito subito, appena messo il piede in Argentina. Si va oltre il cantico di Ivano Fossati dedicato agli “italiani in Argentina”. Lo capisci come ti guardano, come hanno voglia di condividere con te perché sanno che negli occhi di noi viaggiatori troveranno il ricordo di un papà, di un nonno, di uno zio, arrivati qui con la valigia da emigrante e rimasti per il resto della vita con la dignità di un argentino.

Buenos Aires si è staccata di dosso l’etichetta che l’avrebbe voluta sposa della Guerra sucia, ovvero quella “guerra sporca” che l’infame dittatura degli anni ’70 adottò come sanguinaria repressione.
Buenos Aires è una principessa scalza, come le donne argentine ancelle di bellezza e anima latina, che con disinvoltura sa come farsi rincorrere, afferrare, stringere in un abbraccio lungo quanto l’affacciata sul Rio della Plata.

Ogni quartiere vive una vita propria senza calcare la mano sulla smania di essere cosmopoliti a qualsiasi costo. Buenos Aires è anche l’eleganza latina di Recoleta, il vezzo naif di Palermo, la popolarità di La Boca, il palleggio della memoria di Placa de Mayo, il brusio del mercato di San Telmo, il pugno nello stomaco dell’Espacio de la Memoria che rende giustizia ai desaparecidos.

Ha un mantello che si chiama tango perché, come scriveva Carlos Gavito, “non è una danza ma una ossessione. Erotica e appassionata, inquietante e malinconica, che coinvolge non solo il corpo ma anche l’anima”.  Buenos Aires non smetterà mai di tirare calci ad un pallone, proprio come i bambini incrociati sotto lo stadio di La Boca. Questo è il riscatto della strada che può trasformare uno scugnizzo come il piccolo Diego in un dio del pallone chiamato Maradona.

Buenos Aires sa come mettere a tacere il turista invadente lungo i dock di Puerto Madero, sa trasportare il viaggiatore verso nuovi incontri nello scantinato di una milonga, sa come sorprenderti in quel sussurro appassionato che fa di “pace, amore e libertà” la lunga avenida che la attraversa in diagonale i vari strati sociali.
La napoletanità veste bene la capitale argentina, perciò il mio primo viaggio in Sudamerica è partito da qui.

Viaggio al Club Tenco, in quello scalo merci della vecchia ferrovia

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rosario_pipolo_blogA Sanremo improvvisamente gli spifferi autunnali sono diventati miti. Mi sembra di rivedere mia madre quando ne approfittava per ristendere fuori il bucato. Da qualche anno la nuova sede del Club Tenco, fondato da Amilcare Rambaldi nel ’72 insieme a tanti missionari della cultura per la canzone d’autore, è l’ex scalo merci della vecchia stazione ferroviaria sanremese. Preferisco questa a quella nuova con i binari seminterrati, anonima e amorfa.

Entrando in sede senza pass, nessuno mi riconosce da addetto ai lavori. Sono tutti indaffarati con gli incontri del programma del Premio Tenco. Mi fermo nell’angolo dove ci sono un divano e una libreria. Mi sembra di esserci tornato dopo chissà quanto tempo, In realtà è la mia prima volta al Club Tenco.
Quando non esistevano i blog, noi giornalisti chiudevamo a chiave nello sgabuzzino i nostri diari di viaggio, come se articoli o reportage non avessero un backstage. In realtà non è mai stato così, soprattutto per noi che abbiamo scritto di spettacolo. Nei miei archivi inzuppati di carta giacciono interviste e tra foto e locandine appese alla parete del Club Tenco ritrovo gli incontri con Gaber, Vecchioni, Guccini.

Da una parte su un giradischi danza un vinile con le canzoni di Luigi, sugli scaffali della parete opposta ci sono l ultime annate di Il Cantautore, la monografia che da quarant’anni accompagna il programma del Premio dedicato alla memoria del cantautore scomparso il 27 gennaio del ’67.
La carta ingiallisce, ma non va mai a male, come le riflessioni sulla Resistenza in un numero di qualche anno fa. Tutti “partigiani della cultura” gli affiliati al club Tenco perchè hanno fatto della Resistenza una condizione del divenire, a difesa della canzone d’autore in un’Italia smemorata, che spesso dimentica, a volte addirittura rinnega.

In un certo senso lo è stata anche mia madre partigiana di questa Resistenza musicale: Alla fine degli anni ’70 tra profumi di bucato e detersivo aprì nella mia infanzia il varco sul canzoniere di Luigi Tenco, distillando a misura di bambino la rivoluzione di questo cantautore del futuro. Se non fosse stato per lei, le mie stagioni musicali si sarebbero arenate, per questioni anagrafiche, sul pop degli anni ’80 e sugli ingorghi musicali del riflusso.

Dall’altra parte del divano incrocio lo sguardo di Toni, il papà dell’Ala Bianca che salvaguarda il patrimonio musicale del Tenco. Lo ricordo ai tempi dello Smeraldo a Milano – allora un teatro valeva più di un food store destinato alla Milano radical-chic – in camerino che parlottava con Enzo e Paolo Jannacci.
Tra una polaroid e l’altra, mi avvisano che devono chiudere la sede. Il tempo è volato. Mi sarei fatto rinchiudere dentro, avrei continuato a divagare tra letture o chiacchierando con Enrico De Angelis per farmi raccontare per filo e per segno questo viaggio quarantennale.

All’uscita, mi ritrovo fronte mare sulla riviera ligure tra gli ultimi fili di luce. Ci sono tre coppie su una panchina che chiacchierano. Tiro fuori lo smartphone, colgo uno scatto al volo, lo pubblico senza filtri su Instagram. Mi piace questa foto e la titolo “Ho capito che ti amo”, proprio come la canzone di Tenco che veniva fuori dal giradischi nel vecchio magazzino dell’ex stazione ferroviaria di Sanremo.

“Ho capito che ti amo” non è soltanto la consapevolezza di un sentimento longevo e duraturo alle intemperie del tempo, è anche un lucido riconoscimento verso chi ha nutrito amore nei confronti di una cultura musicale che ci ha fatti tutti militanti dell’esistenzialismo, guardandoci dentro senza i filtri fasulli della vita digitale, prima di approdare a quella gaberiana della “libertà è partecipazione”.

Nessuno escluso: “Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma!”

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Rosario PipoloMi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Nel tuo sound e sulla tua pelle è tatuato l’Egitto, la terra di tuo padre e quella che io attraversai da bambino tra le pagine di un sussidiario di storia. Avessi avuto un compagno di banco come te, avremmo fatto comunella senza aspettare l’ora odiosa della merenda.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Ti avrei raccontato dei miei viaggi metropolitani a Napoli con nonno Pasquale e ti avrei portato una pastiera fatta in casa da nonna Lucia, e l’avrei barattata volentieri con i dolcetti fatti da tua nonna in Egitto. A me bastava un biglietto d’autobus per abbracciare la mia, tu non finivi mai di rompere salvadanai per metterti su un volo verso il Cairo.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Muovendo i primi passi nella vita, ad avercelo un amico di infanzia che ti rappava la vera geografia della periferia, perché ognuno ne ha una, dentro e fuori di sé.
Dalle mie parti bisognava accontentarsi di neomelodie, diffuse per radio ad alto volume da un pianerottolo all’altro, i cui drammi d’amore non sempre a lieto fine coprivano gli spari della criminalità organizzata.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Non le voglio più quelle verità nascoste, quando restavo chiuso in casa perché fuori c’era il coprifuoco per il controllo del territorio. Da me i papponi, che a messa intingevano tre volte la mano nell’acquasantiera, la sera se pigliavano ‘o cafè con una delle dita della mano di Don Raffaè.

La verità, Amir? Diventiamo subdolamente brutti, sporchi e razzisti tutte le volte che freniamo la voglia di condividere le nostre storie di periferia con chi è arrivato da una periferia più lontana, quella di una terra straniera, di un altro continente. Da bambino sognavo di fare un viaggio al Cairo. Ho la valigia dietro l’angolo, vorrei farlo in tua compagnia e partendo dalla tua Torpignattara. 

Il tuo rap frena il mio pianto. Mi chiamo Rosario, come la “Cune de la Bandera” argentina,  ma song ‘e Napule.

Viaggio nella New York al femminile

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rosario_pipolo_blogFacendo due conti, l’anno scorso io ritornavo a New York dopo 23 anni ed Elisa Pasino intingeva la penna nel calamaio per cominciare a scrivere la sua guida New York al femminile, edita da Morellini. Che gusto retrò ha questa immagine della penna nel calamaio oggi che abbiamo digitalizzato tutte le dita della mano.

Ci sta bene pensando allo stile di scrittura della Pasino, che sa conservare tatto ed eleganza, in quel suo modo di essere penna e donna di altri tempi. Adocchiando la sua New York al femminile mi vien da scrivere che della noiosa compilazione di una guida turistica non c’è niente.
Anzi c’è quella punta di ricercatezza di chi ti prepara ad un viaggio creando la complicità con il lettore e svelando i piccoli segreti della Grande Mela, che sa come essere donna.

Eppure la femminilità newyorchese non ha niente a che vedere con lucidalabbra, mascara o fondotinta. Ha quel suo modo di manifestarsi in controluce, come conferma il cinema di Woody Allen quando tratteggia la Manhattan delle donne.
Nel mio ritorno autunnale nella Grande Mela avevo rimesso piede da Tiffany con la convinzione che l’essenza femminile di questo posto fosse tutto nella protagonista del romanzo e film che hanno fatto la fortuna del brand.

Il portiere si sentì leggermente imbarazzato quando sbraitai: “Dove è finito il volto gigante di Audrey Hepburn? Quanto siete ingrati nei confronti del sorriso di Holly che ha dato femminilità a questo tempietto sulla Fifth Avenue”.
Speriamo che la Pasino non legga questo ritaglio di viaggio, perché dopotutto lei sa che la femminilità di una città non deve  essere urlata, ma sussurrata con garbo.

Mi annoiano le guide turistiche, mi fanno sbadigliare. Qualche volta accade che un diario di viaggio metta il soprabito di una guida e prenda per mano il lettore. Essere presi per mano di questi tempi? Cosa rara e giusta. Mi è successo tra le pagine di New York al femminile.