Francesco De Gregori in un memorabile brano, Titanic, cantava la volgarità classista e tornava a metterci la pulce nell’orecchio: “La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento”. Per “la terza classe”, a cui appartengono quei disgraziati che sono morti ieri sull’imbarcazione in fiamme a largo di Lampedusa, rettificherei in “rabbia, dolore e spavento”. Ce lo ha ricordato il commento di ieri di Papa Francesco – “Viene la parola vergogna: è una vergogna” – in visita lo scorso luglio proprio a Lampedusa, per commemorare anche i tanti migranti morti durante le traversate.
Il mancato soccorso da parte di chi c’era ed ha fatto finta di non vedere non si estingue questa volta nella solita indignazione da copertina di rotocalco: siamo sì o no un Paese razzista? “A noi cafoni ci hanno sempre chiamato”, continuava a cantare De Gregori. Non si tratta di puntare il dito contro i pescherecci che erano nei paraggi. Piuttosto di capire quanto poco abbiano fatto i Governi che si sono alternati in Italia negli ultimi venti anni, per tutelare coloro che restano vittime innocenti nei flussi di migrazione dalle coste nordafricane. Ha tutto il diritto di urlare Giusi Nicolini, Sindaco di Lampedusa, e ribadire: “Questi uomini, queste donne e questi bambini non sono clandestini, ma profughi”. L’Unione Europea, che fa finta di guardare dall’altra parte, si assuma le sue responsabilità. Chi glielo ha messo tra le mani il Premio Nobel per la Pace?
“Su questo mare nero come il petrolio ad ammirare questa luna metallo” c’erano donne incinte che portavano in grembo con orgolgio le loro bimbe. Non volevano per loro un futuro da “Cenerentola”, ma le custodivano nel pancione come in un castello, affinché in una nuova terra incontrassero chi le avrebbe fatte diventare delle principesse, rispettando la loro dignità di esseri umani.
“Per noi ragazzi di terza classe che per non morire si va in America”. Ahimé, si va in Italia, per morire e non per ricominciare. Oggi lutto nazionale. Ficchiamocelo bene in testa però. I due minuti di silenzio non bastano.
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