Viva l’Italia dei Masterchef perché una trentina d’anni fa volevamo i nostri figli tutti bacchettoni al liceo e snobbavamo l’istituto alberghiero. Allora andava di moda scaccolare con la puzza sotto il naso. Oggi chi di noi non sognerebbe un figlio “divo chef” in tv.
E allora tutti dietro i fornelli perché vuoi mettere “farsi il culo come papà sulla catena di montaggio” anzichè lottare per guadagnarsi un bel mestolo d’oro? Se arrivasse il podio, i nostri pargoli campioni metterebbero la firma culinaria sotto una patatina industriale.
Altro che “Viva l’Italia, l’Italia che lavora, l’Italia che si dispera e l’Italia che s’innamora”. Viva l’Italia delle intercettazioni e delle “patonze”, perchè se non ci fossero bisognerebbe inventarle. Fanno vendere qualche copia di giornale in più, rendono euforico il popolo dei social network, annacquano con il gossip quelle che di certo non sono riflessioni politiche e, per giunta, mortificano il giorno della memoria profumato dalla mimosa dell’8 marzo.
Le nostre nonne sognavano un figlio partigiano come presidente; le nostre mamme un figlio laureato in economia; noi abbiamo capito che è meglio un figlio puttaniere, perché se gira la patonza, gira pure l’economia.
Viva l’Italia dei MasterChef e delle patonze, quella che cammina per strada e non si accorge che un giovane su quattro si è ridotto a fare il neet; che si tappa le orecchie quando la sopravvivenza per la globalizzazione fomenta disagio sociale; che preferisce un comodo lento nostalgico su Felicità di Albano & Romina piuttosto che un tango sovversivo, taccheggiando sul letale luogo comune del “si stava meglio quando si stava peggio”.
“Viva l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare, l’Italia metà giardino e metà galera, viva l’Italia, l’Italia tutta intera”.
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